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N. 82 - Ottobre 2014 (CXIII)

Il Triennio Rivoluzionario in Italia
Parte II - Prove di democrazia negli antichi stati italiani

di Giacomo Zanibelli

 

Nel ’99 si propagò in tutta l’Italia il fenomeno della “insorgenza”: era una reazione della popolazione e delle masse contadine ai francesi ed ai giacobini, che per tre anni le avevano spogliate di tutto. Reazione che, un po’ spontaneamente, un po’ ad opera dei numerosi preti e frati che si misero alla testa delle “masse”, assunse coloriture religiose, di guerra santa, tanto da trarre il suo nome di reazione sanfedista. Il Proclama del cardinale Fabrizio Ruffo ai calabresi ci dà un quadro completo dei motivi che fecero sorgere questi moti reazionari.

 

"Bravi e coraggiosi Calabresi, un’orda di cospiratori settarii dopo aver rovesciato in Francia altare e trono, dopo aver, con sacrilego attentato, fatto prigione ed asportato in Francia il Vicario di Gesù Cristo, nostro S. Pontefice Pio VI…, dopo aver con perfidia e tradimenti fatto sbandare il nostro esercito, invadere e ribellare la nostra capitale e le province; sta facendo tutti i sforzi per involarci (se fosse possibile) il dono più prezioso del Cielo, la nostra santa religione, per distruggere la divina morale del Vangelo, per depredare le nostre sostanze, per insidiare la pudicizia delle vostre donne".

 

L’insorgenza fu in un certo senso la conclusione drammatica del profondo malcontento e delle esigenze eversive che le masse popolari e quelle contadine sentivano da anni contro il regime sociale esistente.

 

Tale reazione si rivolse contro i francesi ed i giacobini, ma con loro combatté soprattutto i signori, senza far distinzioni tra quelli filo-francesi e quelli fedeli all’antico regime; combatté per distruggere i governi repubblicani e per riportare al posto dei governi giacobini uno status quo precedente grazie ad un moto reazionario incentrato sulla fede cattolica; lottò contro il feudalesimo e, sebbene sanfedista, non risparmiò neppure il clero.

 

Le manifestazioni di attaccamento ai sovrani spodestati non devono ingannare: per le masse popolari il sovrano era il potere, colui che poteva porre fine al malgoverno dei signori che lo avevano tradito.

 

“Chi tene pane e vino ha da esse giacobino”, perciò i giacobini erano indistintamente tutti i “signori”, sia borghesi che aristocratici e la lotta contro di loro assunse il carattere di una cieca insurrezione di classe. Il popolo voleva mitigare i pesi feudali, non voleva pagare affitti ai possessori della terra, le quote fiscali, i vecchi debiti.

 

Ovunque le masse popolari, urbane e contadine, furono in genere tutt’altro che aprioristicamente avverse ad una mutazione di regime. Certo esse erano estranee alle ideologie rivoluzionarie che non capivano e che spesso urtavano (specie nel campo religioso) le loro credenze; però capivano che la rivoluzione poteva realizzare le loro aspirazioni.

 

L’insorgenza e l’orientamento anti-repubblicano sopravvennero solo in un secondo tempo: quando le masse popolari videro che il nuovo regime era per esse peggiore dell’antico; quando si resero conto che le loro aspirazioni più elementari (soppressione del regime feudale, divisione delle terre feudali, diminuzione del carico fiscale, migliori condizioni di lavoro) non avevano speranza di realizzarsi e che la rivoluzione significava per loro solo ruberie, requisizioni, carestia, carovita, disoccupazione.

 

Quindi non si può parlare di assoluta refrattarietà delle masse popolari alla rivoluzione, infatti l’arrivo dei francesi non incontrò la loro aperta ostilità, ed il processo rivoluzionario si sviluppò all’estremo sud secondo schemi tutt’altro che passivi e che ricordano da vicino quelli francesi.

 

In gran parte della Basilicata e della Calabria l’adesione popolare al movimento rivoluzionario fu così vasta da provocare una profonda divisione del fronte democratico. La borghesia agricola e moderata, che in un primo tempo aveva aderito alla rivoluzione e dato vita alle municipalità, assunse una posizione anti-contadina avvicinandosi a quella della nobiltà feudale. La borghesia radicale prese posizione per le rivendicazioni contadine e si mise alla testa del movimento delle campagne.

 

Le condizioni del Regno di Napoli erano tali da far supporre che l’ostilità popolare contro i francesi vi si sarebbe manifestata anche più che nelle altre regioni italiane.

 

Qui i partigiani dei francesi appartenevano ad una minoranza di aristocratici e di intellettuali, assolutamente incapaci di capeggiare un movimento politico e soprattutto di farvi aderire le masse popolari.

 

La repubblica Napoletana disponeva di forze militari ridotte, perciò le bande degli insorgenti, comandate da briganti come Michele Pezza, detto Fra Diavolo, da militari borbonici, da ex armigeri baronali e talvolta da preti, poterono dominare le campagne, tagliare le comunicazioni, occupare province e città.

 

A dare a tutto il movimento dell’insorgenza una direttiva militare e politica, venne la spedizione del cardinale Fabrizio Ruffo (che occupò tutta la Calabria), ordinata da Maria Carolina e Ferdinando IV, rifugiatisi in Sicilia sotto la protezione inglese. L’odio anti francese fomentato dal Cardinale Ruffo si coglie pienamente nelle prime strofe dell’Inno dei Calabresi.

 

Viva viva Ferdinando

Nostro padre nostro Re,

Viva ancora Carolina

Nostra madre la Regina:

Si ribellaron li calabresi

Per distruggere i Francesi,

Li francisi, che son cani,

Tutto a no tiempo corrono a mare

E per mare ci sta l’inglesi

Non li lassa navigare.

 

 

La rivolta popolare, pur raggiungendo il suo apice nel ’99, era già apparsa in precedenza sotto forma di moti sporadici e disordinati. Infatti nel Maggio e nel Giugno del ’96 erano scoppiati dei fermenti popolari anti-francesi a Pavia e ad Arquata Scrivia; a questi si aggiunse la rivolta di Lugo in favore del governo pontificio e quella di Verona, tra il ’96 ed il ’98.

 

Il movimento insurrezionale delle masse contadine, abilmente sfruttato e guidato dalla nobiltà e dal clero, favorì l’azione degli austro-russi, comandati dal Suvorov.

 

Infatti dopo la caduta della Repubblica Cisalpina, ai primi di Maggio, le forze della coalizione poterono penetrare in Piemonte ed in Toscana grazie anche all’insorgenza che aveva dilagato, come nel Lazio, nell’Umbria e nelle Marche.

 

Più lunga fu la lotta in quest’ultima regione, dove la reazione popolare, capeggiata dal brigante Sciabolone, fu rafforzata dal passaggio ad essa del generale cisalpino Lahoz. Questi combatté contro i francesi ed i cisalpini; si ebbe così una guerriglia, durante la quale egli entrò in contatto con gli austriaci, che volevano servirsi di lui contro i francesi, mentre il Lahoz si illudeva di servirsi degli austriaci per i suoi piani.

 

Il proposito del generale cisalpino era di cacciare dall’Italia sia i francesi che i tedeschi, ma in pratica fece il gioco delle forze reazionarie. La Toscana fu funestata dai moti del Viva Maria che ebbero come epicentro il Valdarno e la Valdichiana, dove si era verificata la proletarizzazione di una vasta parte dei contadini grazie alle bonifiche Leopoldine. La rivolta si scatenò ai primi di Maggio, dalla notizia che truppe austro-russe fossero giunte in Toscana.

 

Ad Arezzo la mattina del 6 Maggio una carrozza con le insegne granducali al cui interno, secondo alcuni, si trovavano la Madonna e San Donato, incitava la popolazione alla ribellione; i rivoltosi riuscirono a prendere in mano la città estendendo le loro scorribande anche nel senese: le principali vittime di queste orde contadine furono i patrioti e gli ebrei senesi.

 

Il colpo di stato del 30 Pratile VII (18 Giugno 1799) in Francia portò ad una riviviscenza giacobina, influenzata dall’elemento militare, scontento del modo con cui il Direttorio dirigeva la guerra.

 

Ma la ripresa della sinistra radicale si rivelò debole perché gli elementi moderati, che facevano capo al Siéyés, si servirono della paura che il risorto giacobinismo incuteva alla borghesia per preparare la dittatura militare. Perciò inutilmente i nostri patrioti sperarono in un cambiamento della politica italiana del governo francese.

 

Intanto l’Italia ritornava nelle mani degli austriaci, salvo Genova, dove i francesi furono assediati nel 1800. Ma le sorti della guerra volgevano in favore di quest’ultimi per merito del Massena, che sconfisse a Zurigo (Settembre 1799) il Suvorov e lo costrinse a ritirarsi in Baviera. Questa sconfitta ed i contrasti con gli altri della coalizione convinsero lo zar a ritirarsi dalla guerra, perciò l’Austria rimase sola e fu ben presto sconfitta da Napoleone.

 

Dopo un’analisi del triennio rivoluzionario nei suoi molteplici aspetti, possiamo concludere che, se nettamente positivo fu il ruolo tenuto dai giacobini, in base alla loro visione nazionale della rivoluzione (cioè che la rivoluzione dovesse investire tutta la società nazionale, tutte le classi, comprese quelle popolari), in realtà il giacobinismo italiano non fu in grado di attuare quell’alleanza tra città e campagna, realizzata in Francia nel periodo precedente il  Termidoro. Inoltre non riuscì a svolgere una vera politica rivoluzionaria: in primo luogo perché la rivoluzione penetrò in Italia quando già in Francia cominciava la Restaurazione e l’egemonia borghese si rafforzava; in secondo luogo per l’esistenza di una borghesia dagli interessi terrieri, legati a rapporti di produzione feudali, quindi restia a darsi una guida giacobina; inoltre per il frazionamento politico italiano, che intralciava e spezzava l’impulso rivoluzionario.

 

Concludendo, il triennio ci permette di cogliere un primo passo in avanti della borghesia italiana, con l’abbattimento di vecchie oligarchie aristocratiche ed ecclesiastiche; nelle nuove riforme, che porteranno ad un rafforzamento economico della borghesia e nel movimento patriottico che produrrà, ai primi dell’ ‘800, le rivoluzioni carbonare.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

C. Capra, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia 1796-1815, Loescher, 1978, Torino.

F. Furet, Jacobinisme, in F. Furet, M. Ozouf, a cura di, Dictionnaire critique de la Revolution Française, Paris 1988, pp. 751-763.

M. Salvadori, N Tranfaglia, Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, Firenze, 1984.

I. Tognarini, Giacobinismo, Rivoluzione, Risorgimento. Una messa a punto storiografica, La Nuova Italia, Firenze, 1977.

M. Vovelle, Le découverte de la politique, géopolitique de la Rèvolution Française, Paris, 1993.

M. Vovelle, I giacobini e il giacobinismo, Laterza, Bari, 2009.



 

 

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