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ANTICA


N. 4 - Aprile 2008 (XXXV)

ISOLA D'ELBA E MITO DEGLI ARGONAUTI

EVIDENZE ARCHEOLOGICHE E LETTERARIE

di Michelangelo Zecchini

Ringrazio il prof. Marcello Camici non solo per gli apprezzamenti sulle mie ricerche espressi nell’articolo “ Scherzi della natura. Nella secca di Capo Bianco ” (“InStoria”, n. XXXI/dicembre 2007), ma anche per aver affrontato il problema della presunta città sommersa presso Portoferraio proprio nel momento in cui il mito di Porto Argo e di Giasone si ripropone all’attenzione degli studiosi  grazie  a importanti scoperte archeologiche, a sorprendenti studi di biologia molecolare e alla rivisitazione esegetica del noto passo di Apollonio Rodio sull’Elba (Argon., IV, 652-656).

Intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso fui attratto – laureando e ai primi passi nel mondo dell’archeologia – dalla notizia di una scoperta eccezionale al largo delle Ghiaie, a mio avviso la spiaggia più suggestiva dell’isola con la sua distesa di ciottoli subarrotondati, bianchi e maculati di gocce grigio-azzurre. Secondo la gente, le macchie altro non sono che le tracce lasciate dal sudore degli Argonauti sbarcati su quel suolo nitido alla ricerca del vello d’oro.

Il racconto, dal sapore di fiaba, è un’evidente trasposizione  popolare di brani di autori classici, ma allora legava bene con il rinvenimento di ruderi sotto il mare. E il benemerito Ente Valorizzazione Elba, teso in quel tempo allo sviluppo turistico sotto la guida competente di Scelza e Farina, non si lasciò sfuggire la notizia, intuendo che il binomio beni ambientali/beni culturali era vincente. Fu messo in atto un intelligente progetto di comunicazione ante litteram e della scoperta parlarono diffusamente televisione, giornali e riviste. Per soddisfare la mia curiosità sentii dapprima il parere del prof. Giorgio Monaco, uno dei protagonisti della scoperta nonché funzionario responsabile dell’Elba per la Soprintendenza alle Antichità d’Etruria. Lo studioso mi fece partecipe dei suoi dubbi, che diventarono miei – e più corposi – quando mi immersi nelle acque cristalline della secca di Capo Bianco per acquisire in modo autoptico nuovi elementi di valutazione.

Non trovai niente – né strutture murarie né frammenti ceramici – che facesse pensare a un consistente intervento umano nella zona. Qualche anno dopo ebbi uno scambio di opinioni con il prof. Nino Lamboglia, fondatore degli studi di archeologia subacquea. Il grande scienziato mi confermò che  il fondo marino di Capo Bianco è connotato da formazioni geologiche ‘a libro’, del tutto naturali ma tali da far pensare di primo acchito a opere concepite dall’uomo. D’altronde i resti di una città sommersa presuppongono, fra l’altro, la presenza di una quantità di reperti mobiliari di cui non si erano trovate tracce significative. Al recupero, nei dintorni, di  rari frammenti di anfore di forma Dressel 1A e 1B può essere attribuito uno scarso peso indiziario sia per la loro cronologia (fine II-inizio I secolo a. C.) sia per il fatto che frammenti isolati del genere sono diffusi in una pluralità di giacimenti sottomarini dell’Elba. Per di più anche Carlo Gasparri, noto ex campione mondiale di pesca subacquea, che conosceva quel tratto di mare come le sue tasche, mi confidò che erano scarsi i frammenti di anfore o di vasellame da lui notati sul fondo. Questo insieme di elementi di giudizio mi spinse a scrivere il brano citato da Marcello Camici, nel quale sostenevo che, sostanzialmente, muraglioni e architravi, pozzi e camminamenti dovevano essere attribuiti alle mani sapienti e burlone della natura.

La nascita della leggenda degli Argonauti e dei ciottoli macchiati  si basa su un forte substrato letterario. Cenni sulla vicenda sono già presenti nell’Odissea, in Esiodo (inizi del VII secolo a. C.), nel logografo Ecateo (VI – inizi del V secolo a. C.); in Sofocle (497-406 a. C.), in Erodoto (circa 484-dopo il 424). Testimonianze più elaborate si trovano in Apollonio Rodio (300? – post 246 a. C.),  nella tradizione che va sotto il nome di Pseudo Aristotele  e  nel geografo di Amasea Strabone (circa 63 a. C.- 19 d. C).  Quest’ultimo così si esprime :

“  Lungo Etalia c’è un porto Argivo [così denominato] da Argo, come tramandano. Infatti si dice che lì avesse navigato Giasone, cercando la residenza di Circe … e  che specialmente, essendosi indurite  le gocce di grasso e di olio che si erano formate sul corpo degli Argonauti, i ciottoli sulla spiaggia ne restino ancora screziati di vari colori”.

Una narrazione non dissimile troviamo nello Pseudo Aristotele, la cui fonte è Timeo (Taormina 345-250 a. C.) :

Anche in Etalia… fra le altre tracce di opere antiche rimane quanto si dice sui ciottoli. Infatti narrano che lungo la spiaggia ci siano ciottoli variopinti e di essi i Greci che abitano l’isola affermano che abbiano preso il colore della pelle dall’indurimento del grasso e delle gocce di sudore, che ungendosi si creavano addosso. Infatti raccontano che da quei tempi, e non prima, si sarebbero visti ciottoli di tale tipologia né nati in seguito”.

Ma si tratta davvero di una leggenda, e niente più, oppure dobbiamo cominciare a pensare che, quantomeno, nasconda un sottofondo di realtà? Per inciso, debbo dire che il rapporto di molti archeologi – incluso chi scrive – con gli autori classici è un po’ ambiguo : li utilizziamo a piene mani quando ci fanno comodo, ma se i loro  racconti non collimano con le nostre ipotesi siamo pronti ad escluderli con la motivazione che l’archeologia è una scienza  e che, di conseguenza, ha bisogno di prove tangibili per non incagliarsi negli scogli della fantasia.

Si tratta di un’impostazione metodologica accettabile, ma solo a patto che, essendo l’archeologia una scienza non esatta ma in forte divenire, cioè una scienza che si evolve di continuo sulla base di ulteriori dati, non ci si chiuda sulle proprie posizioni e si sia pronti a riaprire le porte allorché si presentino nuovi e seri indizi.

Mi domando se non sia il caso di Porto Argo e della secca di Capo Bianco. L’interrogativo è sollecitato dalla presenza di straordinari reperti micenei all’Elba, per la precisione tre perle d’ambra tipo Tirinto, riferibili al XII-XI secolo a. C., trovate pochi anni fa in un tumulo granitico del versante settentrionale del Monte Capanne (si veda il mio volume “ Isola d’Elba. Le origini” pp. 60-62). Tanto più che a tale scoperta si stanno aggiungendo proprio in questi giorni i risultati degli studi sul DNA degli abitanti ‘stanziali’ della zona montana occidentale : a quanto pare  sono emersi ‘marcatori’ molto antichi, che sembrano ricondurre per l’appunto alla media/recente Età del Bronzo. Penso che i nuovi indicatori  porteranno scompiglio, come una benevola raffica estiva di maestrale,  su acquiescenze pluridecennali, aprendo nuovi orizzonti di ricerca. In tale contesto non è da trascurare, come ho accennato nell’introduzione, la recente interpretazione del brano di Apollonio Rodio sugli Argonauti all’Elba. Anche il passo di Apollonio si riferisce al momento in cui gli Argonauti toccano la spiaggia di ciottoli presso Porto Argo e, nella sostanza, sembrava non dissimile da quelli dello Pseudo Aristotele e di Strabone.

Però era meno conosciuto e meno citato, forse perché più criptico. Poco comprensibile Apollonio è apparso anche a me quando l’ho ripreso in esame nel tentativo di trovare un aggancio letterario al citato rinvenimento archeologico. Anche a me, durante la prima traduzione di getto - o all’impronta, come si suol dire  - emergeva, così come ad altri noti commentatori del poema sugli Argonauti, che Giasone e i suoi avrebbero usato stracci [trúchea] miracolosi [théskela] per detergersi il sudore. Non riuscendo a  capire che cosa potessero avere di prodigioso degli stracci, ho cercato di trovare una nuova chiave di lettura rianalizzando testo, codici e i molteplici aspetti della questione con un grecista di caratura internazionale qual era il prof. Riccardo Ambrosini. A mio avviso - e soprattutto ad avviso del celebre linguista - la soluzione dell’enigma sta nell’avvenuto  travisamento consonantico (phi scambiato con chi) di un sostantivo: non di trúchea si tratterebbe, ma di trúphea.  Non stracci, dunque, ma scorie o pezzetti di ferro. Ed ecco la nuova traduzione :

In seguito, abbandonate  le Stoicadi, misero la prua verso l’isola di Etalia, dove, spossati, si detersero a sufficienza il sudore con ciottoli porosi; e sono stati sparsi per la spiaggia, simili al colore della pelle, e lì masse di ferro e prodigiosi  frammenti di quelle; lì il porto è stato denominato Argo dal loro nome”.

Quindi il nome di Porto Argo potrebbe essere stato dato all’odierna Portoferraio dagli Argonauti o da chi conosceva il racconto della loro temporanea permanenza all’Elba. Ma il mito non si limita a riferire l’origine del nome, bensì, sia pure  in modo ermetico, associa il passaggio di Giasone all’Elba con la scoperta del ferro sul suolo isolano. E quelle spugne ferrose - sembra dire Apollonio - connotate dal colore della pelle, sparse lì sulla spiaggia, erano prodigiose perché contenevano un metallo sconosciuto, il ferro. L’aggettivo théskelos ‘miracoloso in quanto concepito da un dio’ - che comporta di per sé un senso di sorpresa e di sbalordimento - non è dunque un appellativo accessorio, ma è usato in modo preciso e appropriato. Infatti in quelle masse dall’aspetto spugnoso (create da Giasone e & mediante riduzione di minerali ferrosi -“ Strictura est terra ferri in massam coacta”, precisa Servio - oppure lasciate sulla spiaggia dalle popolazioni locali che già conoscevano l’uso del ferro?) gli occhi degli Argonauti avevano davvero visto il segno del soprannaturale. D’altronde perché mai Giasone e compagni avrebbero dato al porto il nome Argo proprio a quel sito se lì non avessero vissuto con forte partecipazione un evento straordinario? E non è forse tale la metamorfosi della pietra in sostanza ferrosa?

Una conferma indiretta della rilevanza epocale riferita da Apollonio nei versi 652-656 proviene dai versi precedenti e successivi dove, a cominciare dal 595, si parla di vaste peregrinazioni, dal Po al Rodano e poi attraverso Celti e Liguri. E poi ancora lungo le coste tirreniche. Ma perché - viene da chiedersi – in nessuno di quei luoghi gli Argonauti  lasciarono tracce onomastiche del loro passaggio? La prima risposta, la più spontanea, sembra anche la più ovvia : perché ci transitarono soltanto, senza trovare nulla di ‘prodigioso’.

Non c’è dubbio – ripeto – che la nuova interpretazione dei versi di Apollonio sull’Elba sia molto stimolante, ma genera anche problemi di difficile soluzione. Per esempio : se è vero che Apollonio, in ultima analisi, potrebbe aver lasciato intendere che l’arrivo di Giasone all’Elba coincise con l’inizio della lavorazione del ferro, è altrettanto vero che, secondo gli studi più aggiornati, l’epopea argonautica si inquadra quantomeno nell’ambito del XIII secolo a. C. o poco prima, cioè nel periodo che viene denominato Età del Bronzo medio/recente. Senza riscontri archeologici, al momento alquanto improbabili stante la povertà ultraventennale di ricerche paletnologiche sull’isola, allo stato attuale delle conoscenze nemmeno lo studioso più ardito collocherebbe l’inizio della riduzione e della produzione del ferro all’Elba in un’epoca così remota, alzandone la cronologia di circa 300-400 anni.

Eppure non me la sento di chiudere la questione bollando tout court come allusioni fantastiche le testimonianze di Apollonio, dello Pseudo Aristotele, di Strabone e degli Autori alle cui fonti essi attinsero. Allo stesso modo non me la sento di escludere che nella secca di Capo Bianco, al largo della spiaggia delle Ghiaie, oltre a formazioni di sicura origine geologica ci possano essere anche tracce più o meno consistenti di interventi antropici. Ha ragione Marcello Camici : oggi disponiamo di mezzi d’indagine -  foto satellitari,  scanner laser di superficie, telecamere subacquee, minisonnergibili, ecc. - straordinariamente più efficaci degli strumenti che avevamo a disposizione negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso.

Essi potrebbero fornirci indicatori archeologici ben più precisi. Del resto il decantato porto Argo (Diodoro Siculo lo definisce limén kálliston), toponimo cronologicamente tanto stratificato da permanere fin sulle carte topografiche tardorinascimentali, da qualche parte deve pur essere. O verso sud, in corrispondenza dell’ampia insenatura compresa fra le Saline e la Darsena di Portoferraio  - ipotesi più probabile - oppure verso nord, per l’appunto nel mare delle Ghiaie e di Capo Bianco. Vogliamo provare a cercarlo sul serio?



 

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