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filosofia & religione


N. 51 - Marzo 2012 (LXXXII)

islam e diritto di famiglia
tra passato e presente

di Francesca zamboni

 

Il Corano recita: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne devote sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; chè Iddio è grande e sublime” (IV, 34).

 

Il versetto in questione rappresenta la sintesi della condizione della donna nel dār al-Islam, frutto a sua volta del dislivello che esalta la figura maschile rispetto a quella femminile. Si tratta di una struttura gerarchica in cui tuttavia uomo e donna giocano un ruolo vicendevolmente complementare, poiché non esiste la realizzazione dell’uno senza la presenza dell’altro. Si tratta quindi di una struttura dicotomica, ma armonica allo stesso tempo.

 

Una separazione bipolare che trova stabilità nell’unione sessuale legittimamente consumata all’interno del matrimonio, dove regna un cosmos a dispetto di un caos, figlio dell’adulterio propriamente detto zinā, ovvero la pietra di paragone che permette di esaltare la positività e la necessità dell’istituto matrimoniale affinché si realizzino i voleri di Allah, i quali prendono vita a partire dal ruolo di guida che Dio ha affidato all’uomo. La donna è pertanto fondamentale alla realizzazione della figura maschile, ma resta sempre un gradino al di sotto dell’uomo.

 

L’uomo, una volta raggiunta la pubertà, diventa parte di un mondo esclusivo in cui predomina lo spirito collettivo tipicamente maschile a svantaggio dell’universo femminile che viene sistematicamente privato del suo valore. Sebbene il Corano abbia segnato un progresso rispetto all’epoca preislamica, nel passaggio dalla credenza religiosa allo svolgimento della vita quotidiana, la situazione che si presenta è ben diversa. Infatti, se da un lato la donna ha gli stessi diritti e doveri religiosi, da un punto di vista pratico le sono preclusi e negati molti aspetti giuridici e sociali.

 

Motivo per il quale la donna musulmana non può sposare uomini appartenenti ad altre religioni e non può pregare nella moschea, se non a patto che ciò non avvenga alla presenza di un uomo e usufruendo delle apposite zone riservatele. Non solo, essa non gode di nessun potere decisionale né per quanto riguarda il proprio destino, né per il futuro dei propri figli. La testimonianza femminile vale la metà rispetto a quella maschile e, in caso di risarcimento del danno, ha diritto sempre alla metà di quello che invece spetterebbe ad un uomo.

 

La donna, inoltre, ha il dovere di indossare il velo affinché il proprio corpo non diventi oggetto di desiderio sessuale che non sia del marito. Sull’uso del velo sono state date molte interpretazioni: c’è chi sostiene che sia una prescrizione coranica volta ad esaltare la modestia della donna e c’è chi lo considera una tradizione, oltretutto abolita in molti paesi. Gli esempi di tale superamento sono la Turchia e la Tunisia, dove esiste la famosa “circolare 108”, emanata negli anni Novanta, che proibisce l’uso del velo nei luoghi pubblici. Infine, per completare il quadro della condizione della donna nell’Islam, è sufficiente chiudere questa panoramica sull’universo femminile con la questione dell’eredità, e ciò per sottolineare ancora una volta la netta inferiorità femminile.

 

Infatti anche in tale caso vale il principio per cui il maschio riceve due volte la parte della femmina e questo perché gli obblighi economici del marito eccedono quelli della donna a partire dalla dote nuziale, che l’uomo le versa e che rimane nella esclusiva proprietà della stessa, anche nel caso in cui i coniugi dovessero divorziare. La donna può, inoltre, gestire i suoi guadagni, mentre all’uomo spetta il suo mantenimento e quello dei propri figli.


La normativa in materia prevede che si parli di successione quando, alla morte di una persona, l’insieme dei suoi beni (tariqa) venga impiegato per pagare il rito funebre e i debiti. La parte restante è destinata agli eredi indicati dalla legge a meno che il de cuius abbia compiuto un atto di ultima volontà (wasiya). Poi si procede a dare la parte alla moglie o al marito del defunto e ancora una parte spetta al padre e alla madre. Infine quel che resta viene diviso tra i figli ed è in tal caso che la femmina riceve la metà di quello che spetta al maschio.

 
Nel caso in cui il defunto non abbia figli la porzione dei genitori verrà aumentata e, se vi sono fratelli o sorelle, anche loro avranno diritto ad una parte. Nel caso in cui egli non abbia né genitori in vita né figli, tutti i beni andranno a fratelli e sorelle. Dall’eredità va tenuto distinto il testamento, che è un atto doveroso che deve essere compiuto davanti a due testimoni. Con il testamento il profeta Muhammad voleva perfezionare la successione legittima, assicurando, sulla parte disponibile della successione, la condizione dei parenti più poveri, che erano stati esclusi dall’eredità.


Da quanto detto si può dedurre come il Corano sia volto al mantenimento dei buoni rapporti familiari, tuttavia la donna, pur facendo parte di un nucleo che dovrebbe essere il più armonico possibile, non riesce mai ad incarnare tali diritti nella loro pienezza. È nell’istituto matrimoniale che il ruolo della donna si manifesta nella sua totalità, poiché il confronto tra i due sessi è inevitabile.


Per il diritto musulmano il matrimonio (nikāh) è un contratto privato a tempo indeterminato con cui un uomo si impegna a dare alla sua donna una dote (mahr), in cambio del diritto ad avere con lei rapporti sessuali leciti. Il matrimonio islamico rappresenta, infatti, la legittimazione dei bisogni sessuali, opponendosi a qualsiasi altra forma di unione extra-coniugale, la quale prende il nome di zinā, che significa appunto adulterio o fornicazione.


Nell’Islam non vi è posto per il celibato e il matrimonio non ha valore di sacramento, come avviene invece per il Cristianesimo, poiché si tratta di un atto lodevole, il cui scopo va oltre la legittimazione dei rapporti tra uomo e donna, sfociando nella tutela delle parti, la procreazione, la perpetuazione della specie e la gratificazione sessuale, affinché il legame divenga un evento solenne per vivere in pace secondo i comandamenti di Allah. Il matrimonio deve essere, comunque, visto da due punti di vista: quello dell’uomo e quello della donna. Per il primo si tratta del mezzo tramite il quale egli può esercitare la propria autorità maritale e il proprio intimo godimento, mentre per la seconda si tratta del diritto ad un compenso (‘iwad) e al sostentamento, che comprende vitto, alloggio e vestiario.


Nikāh, in arabo, significa “accoppiamento”, “coito” quindi matrimonio significa accoppiare e affinché esso sia valido devono sussistere i seguenti requisiti fondamentali: la capacità giuridica delle parti, il consenso dei futuri coniugi, l’intervento del tutore (wali) e il donativo nuziale (mahr).

 
La capacità delle parti prevede, secondo il diritto malikita, che le parti abbiano la capacità giuridica per sottoscrivere il contratto in questione, ovvero un negozio giuridico frutto di un accordo tra i due sposi e perfezionato da clausole ben determinate; il tutto alla presenza dello sposo, del wali (tutore) e di due adoul (funzionari giuridici islamici).


Le parti contraenti (gli sposi e il curatore matrimoniale) devono godere di requisiti precisi. Lo sposo deve essere pubere, sano di mente e abile alla consumazione del matrimonio; la donna deve essere, anch’essa, pubere, sana di mente, abile a consumare il matrimonio e infine deve essere musulmana, ebrea o cristiana. Per quanto concerne il wali, anch’egli parte contraente del negozio giuridico, deve godere di determinate caratteristiche. Infatti, per la dottrina malikita, il curatore dovrebbe essere il parente prossimo nella linea maschile ed essendo colui che esprime la volontà della futura sposa e che la concede al coniuge, la sua assenza significherebbe invalidità del matrimonio. Egli rappresenta quindi il perfezionamento dell’istituto matrimoniale e come tale deve essere musulmano, di sesso maschile e sano di mente.


Il secondo elemento essenziale dell’istituto matrimoniale islamico è il consenso delle parti. Secondo il diritto musulmano, come per ogni contratto che si rispetti, il matrimonio deve essere concluso con la manifesta volontà di entrambe le parti, che non necessariamente coincidono con gli sposi. Sulla base di quanto previsto dalla shari’a, ogni individuo può essere titolare di un rapporto matrimoniale, anche il bambino appena nato. Ovviamente in quest’ultimo caso vi sarà qualcuno che obbligatoriamente lo farà per lui, ovvero il tutore matrimoniale (wali), che solitamente è il padre e che come tale ha il diritto di esercitare il cosiddetto potere di costrizione (wilayat al- igbar), che di regola cessa al momento in cui il figlio raggiunge la maggiore età.


Tale regola è propria della scuola hanafita e hanbalita. Ma ad esse fanno eccezione quella malikita e sciafiita, per le quali la verginità della donna comporta ulteriormente l’esercizio del potere di costrizione al matrimonio, poiché essere illibate significa non avere alcuna esperienza di vita e quindi incapacità ad essere titolari di interessi personali e patrimoniali che sono parti fondamentali del nikāh. Tuttavia il potere di costrizione è stato eliminato dalle moderne legislazioni, anche il Regno del Marocco, che all’articolo 4 del proprio codice di famiglia manteneva l’igbar (potere di costrizione) nel caso di condotta impropria da parte della donna, ha eliminato tale istituto l’8 marzo 2004.

 

Se è vero da un lato che la donna non può essere più costretta al matrimonio, è anche vero, dall’altro lato, che non le è ancora stato concesso, ad oggi, di contrarre le nozze autonomamente senza l’assistenza del wali, la volontà del quale concorre, parallelamente a quella della donna, alla scelta del coniuge. Quindi possiamo dedurre come la donna non abbia potere decisionale e come la figura femminile sia sempre un grado inferiore rispetto a quella dell’uomo, anche se il Corano ha, per alcuni aspetti, rivalutato la donna soprattutto sul piano religioso. Se pensiamo infatti al matrimonio preislamico, dove la donna veniva considerata un oggetto concesso dal padre al marito dietro compenso e dove la poligamia non aveva limiti e la prostituzione era imposta, allora la rivalutazione della donna diventa palese.

 

Non solo, le attuali riforme matrimoniali hanno ulteriormente modificato, migliorandola, la condizione della donna rispetto al diritto musulmano classico. Per quanto concerne la forma del consenso è sufficiente che il wali utilizzi la formula “Io ho dato mia figlia in matrimonio”, e che lo sposo, o chi la rappresenta, dichiari di accettare. Le dichiarazioni, così come il consenso della sposa, devono essere sempre chiare, dirette e manifeste.


Alla capacità delle parti e al consenso delle stesse fa seguito, come abbiamo potuto già mostrare, un altro elemento essenziale, ovvero l’intervento del wali, frutto di una remota usanza araba, che consiste appunto nel rappresentare il consenso della donna, concedendola al marito. Un altro elemento fondamentale, che trae origine dall’epoca preislamica, è il mahr o sadāq, ovvero un corrispettivo che si pagava ai congiunti della sposa per ottenere il consenso all’unione.


Tuttavia con il Corano, il mahr ha acquisito un’altra funzione, facendo compiere un progresso a favore della figura femminile, poiché il donativo nuziale, il cui ammontare è solitamente indicato nel contratto, viene attribuito direttamente e obbligatoriamente alla donna, divenendo proprietà della stessa, la quale ne può disporre a suo piacimento. Il donativo, la cui mancanza è causa di nullità matrimoniale, sta ad indicare l’impegno coscienzioso dello sposo e la serietà delle sue intenzioni. La sua determinazione può essere rimessa al marito, alla moglie oppure ad un terzo.


Nel caso in cui il mahr non venga citato a livello contrattuale, o nel caso in cui le parti non riescano ad accordarsi circa il suo ammontare, la sposa potrà rivolgersi ad un giudice, affinché le venga assegnato un mahr equivalente (mahr al-mithl). Il donativo, che consiste in cose determinate, o rimesse alla scelta della sposa, deve essere pagato alla conclusione del contratto, anche se solitamente una parte viene remunerata al momento della stipulazione, l’altra alla scadenza. Tale parte di mahr prende il nome di kali, che significa appunto credito a termine della moglie verso il coniuge. Ovviamente, al fine di un corretto rispetto delle clausole contrattuali, il negozio giuridico deve indicare il termine entro il quale il kali deve essere pagato. Nel caso in cui tale scadenza venga omessa il contratto diverrebbe rescindibile, fino all’avvenuta consumazione del matrimonio. Viceversa, nel caso in cui la consumazione fosse già avvenuta, sarà il giudice ad assegnare al marito un termine entro il quale effettuare il previsto pagamento.


La determinazione non solo deve essere definita nel contratto, ma deve avere per oggetto un bene lecito e quantificabile economicamente. Tuttavia, secondo quanto recita un versetto del Corano, non è mai stato possibile fissare un limite massimo all’ammontare del donativo e, a tal proposito, i giuristi hanno sempre sostenuto di non pretendere doti troppo elevate. Come è già stato detto in precedenza, il donativo nuziale, una parte del quale consiste in denaro, deve essere pagato alla sposa, che lo deve impiegare per l’acquisto del corredo. Lo sposo ha inoltre il diritto di accertarsi che quella parte di mahr sia stata utilizzata per il fine suddetto.


Ma, al di là della definizione di dote e del suo ammontare, vi è un caso dove il diritto della donna al mantenimento diviene atto di sottomissione ai voleri del coniuge, infatti, affinché la donna possa rivendicare il diritto al proprio sostentamento non solo deve essere la parte di un contratto validamente stipulato, ma deve aver consumato le nozze, o meglio, deve essersi messa a disposizione del proprio coniuge, piegandosi all’autorità maritale. Quindi l’apparente protezione economica, che il Corano sembra concedere alla donna, nasconde ancora una volta lo stato di inferiorità della figura femminile rispetto a quella dell’uomo.

 

Quindi se la donna vuole godere dei propri diritti deve obbedire, ovvero acconsentire ai rapporti sessuali, coabitare col marito, uscire o ricevere visite solo con il suo consenso, seguirlo nei suoi viaggi lavorativi (salvo clausole contrarie stabilite nel contratto) ed infine non deve mostrarsi in pubblico senza velo. Nel caso in cui la donna non rispettasse i suoi doveri, l’uomo può privarla degli alimenti o ancora ricorrere al ripudio. Tuttavia la moglie ha il diritto di negarsi al coniuge nel caso in cui sia malata o incinta, si trovi in pellegrinaggio, o in periodo mestruale, ed infine nel caso in cui il marito non abbia pagato il dono nuziale. Da qui si deduce che, qualora il marito venga meno ai suoi doveri, contravvenendo così agli obblighi previsti dal nikāh, la sposa possa ricorrere al giudice affinché egli versi la nafaqah.

 

Se l’uomo continuasse ad essere inadempiente, il suo patrimonio sarà sottoposto ad esecuzione forzata. Gli effetti del matrimonio non riguardano soltanto i rapporti personali, ma anche quelli patrimoniali. Il matrimonio islamico, infatti, non presume la comunione dei beni, tanto che ogni coniuge è proprietario dei beni posseduti prima delle nozze e di quelli acquistati in seguito, disponendone a suo piacimento. Le nozze sono anche fonte di vincolo ereditario, facendo del coniuge rimasto vedovo il legittimo erede, ad eccezione però dei seguenti casi: quando il matrimonio è nullo, quando, nonostante la validità dell’unione, la donna non sia musulmana e infine nel caso in cui il matrimonio divenga definitivo per essere trascorso il termine del ritiro legale (idda). Gli effetti del matrimonio continuano quando i coniugi divengono genitori, assumendo distinti diritti e doveri nei confronti del figlio sin dalla sua nascita.


La madre ha un diritto di custodia per i maschi fino alla pubertà e per le femmine fino alla conclusione del matrimonio. Al padre invece spetta l’educazione del figlio, la tutela legale e il suo mantenimento, fino alla pubertà per i maschi e fino al matrimonio per le femmine, esercitando parità di trattamento a prescindere dal sesso. Il padre, però, non è tenuto al sostentamento della figlia ripudiata o vedova e neanche a quello del figlio pubere e incapace all’attività lavorativa. Infine non sono dovuti gli alimenti ai nipoti e ai figli avuti dalla prima moglie. Il padre è esentato da tali doveri in caso di ristrettezza economica e quando il figlio sia capace di provvedere autonomamente al proprio mantenimento. La madre quindi non è tenuta al sostentamento del proprio figlio, salvo il caso in cui egli sia impubere e il padre non sia presente, morto o inadempiente.


Il padre rappresenta di conseguenza la figura predominante sia al cospetto della propria donna che a quello dei propri figli, ma, nonostante ciò, vi sono clausole assimilabili al nikāh. Il loro contenuto va dalla possibilità per la moglie di esercitare una professione alla clausola monogamica con cui il marito si impegna a non contrarre altri vincoli matrimoniali. Si tratta di clausole risolutive espresse, il cui mancato adempimento comporta la richiesta di divorzio da parte della moglie.


Infine un'altra clausola paragonabile al contratto matrimoniale è l’istituto della mut’ah o più precisamente al-nikāh al- mut’ah, che significa matrimonio di piacere, contratto per un periodo di tempo determinato al fine di legittimare rapporti sessuali, che altrimenti sarebbero considerati illeciti. La pratica del matrimonio temporaneo se da alcuni viene vista come emancipazione sessuale della donna, da altri viene considerata una forma di prostituzione. Non solo, in alcuni casi, secondo quanto prescritto da alcuni testi giuridici, la mut’ah prevede un termine speciale che fa della donna un oggetto da affittare (musta’jara).

 

La donna ancora una volta diviene oggetto di sottomissione anche se, come già sottolineato, il Corano ha per certi aspetti rivalutato la donna. Basti pensare al versetto del Corano che legittima la poligamia, ma al contempo sancisce l’obbligo di equità e giustizia verso le proprie spose. Il Libro Sacro recita (IV, 3): “E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti”. A tale versetto può esserne accostato un altro (IV, 129): “non potete mai essere equi con le vostre mogli anche se lo desiderate. Non seguite però la vostra inclinazione fino al lasciarne una in sospeso […].

 

Ed è proprio sulla base di questi versetti che i giuristi musulmani sono arrivati ad affermare l’interdizione della poliginia, ovvero il diritto di arrivare a sposare fino a quattro mogli diacronicamente (l’una a distanza dell’altra). Tuttavia la poligamia è stata abolita in Turchia nel 1926 e in Tunisia nel 1956 con l’adozione del Codice dello Statuto Personale (CSP), dove si afferma, all’art. 18, che l’istituto in questione costituisce una fattispecie delittuosa. Alcuni legislatori hanno riconosciuto inoltre alla donna il diritto di inserire, all’interno del contratto matrimoniale, quella clausola monogamica (cosiddetta limitazione convenzionale), il cui mancato rispetto legittima la moglie al diritto di chiedere il divorzio.


Il divieto della poligamia sfocia però in un sempre più frequente ricorso al ripudio della propria donna per sposarne un’altra. Il ripudio costringe la donna, per motivi spesso finanziari, a tornare presso la famiglia di origine e, una volta trascorso il periodo di ritiro legale (idda), essa perde ogni diritto successorio e al mantenimento. E nel caso vi siano figli può perderne la custodia.


Il talāq per il diritto islamico rappresenta lo scioglimento del matrimonio tra sposi viventi e si può realizzare in tre modi: l’annullamento (tafrīq) davanti ad un qādī per gravi motivi (sterilità, impotenza e maltrattamenti), il divorzio per mutuo consenso (kuhl’) ed infine il ripudio unilaterale (talāq), previsto dal Corano e che può essere revocabile (raj’ī) o definitivo (bā’in). Ciò dipende dalla formula pronunciata dal marito. Il ripudio non richiede la presenza della moglie e può essere esercitato anche da terzi con apposito mandato. Si tratta di un atto unilaterale non ricettizio.

 

L’Islam ha limitato a tre il numero dei ripudi e al terzo esso diviene definitivo. Tuttavia il Corano prevede una conciliazione di tipo arbitrale: “E se temete una rottura fra marito e moglie, nominate un arbitro della parte di lui e uno della parte di lei, e se i coniugi desiderano riconciliarsi, Dio metterà armonia tra loro, poiché Dio è sapiente e di tutti ha notizia” (IV, 35). In tal caso i moderni legislatori hanno introdotto una norma la quale prevede che, in caso di istanza di divorzio, la donna debba essere informata del ripudio che prende validità solo con la sua registrazione. Oltre alla classica forma di ripudio ne è stata prevista un’altra, che può essere pronunciata dall’uomo quando la donna è in periodo mestruale, dopo aver avuto rapporti sessuali con lei e durante il periodo di ritiro legale (idda).

 

 Il tutto tramite un’unica formula senza ricorrere a quel triplice rituale intervallato da lunghi lassi temporali. Esso viene definito laico, poiché non è previsto dal Corano ed è il frutto delle decisioni dei moderni legislatori. Non è valido, inoltre, il ripudio esercitato dall’ubriaco, dall’infermo di mente e da colui che è alterato emotivamente. È stato inoltre proibito il ripudio sottoposto al verificarsi di un dato evento o sottoposto a termine. Al giudice spetta poi definire gli obblighi che derivano dallo scioglimento ed eventualmente stabilire il risarcimento del danno a carico del ripudiante, nel caso in cui la donna sia stata danneggiata dal ripudio stesso.

 

Il risarcimento non è da confondersi con il dono di consolazione (al-mut’ah) e neanche con il matrimonio di piacere. Da sottolineare, infine, che ogni scioglimento di matrimonio consumato comporta un periodo di ritiro legale (idda), che la moglie dovrà osservare prima di contrarre nuove nozze. Il ritiro legale della donna in gravidanza dura fino alla nascita del bambino; nel caso in cui la donna non sia in stato interessante dura quattro mesi e dieci giorni; per i casi restanti (anche quello in cui la donna abbia avuto un rapporto sessuale al di fuori del matrimonio) dura l’arco di tre cicli mestruali. Invece, se la donna non è mestruata il periodo di continenza dura tre mesi.


Il ripudio (al-tālaq) è da tenersi distinto dal divorzio (al-tatliq), che indica invece lo scioglimento del matrimonio, richiesto al giudice su istanza di uno dei due coniugi e che si contrappone quindi al potere unilaterale dell’uomo di ripudiare la moglie. Una causa di divorzio è il mancato pagamento previsto per il mantenimento, ma ciò vale per la scuola malikita, sciafiita, hanbalita, ma non per quella hanafita, che non concede alla donna il diritto di agire in giudizio per ottenere lo scioglimento del matrimonio, nel caso in cui sia impossibile condurre una normale vita coniugale a causa di malattie psichiatriche invalidanti la salute del coniuge. Inoltre si ha diritto al divorzio in caso di assenza prolungata del marito, che cagiona alla donna non tanto un deficit economico o la mancanza di un supporto affettivo anche per i figli, quanto la possibile esposizione della sposa a tentazioni adulterine. Infine l’ultima causa di divorzio è il mancato pagamento della parte di donativo da versarsi al momento della stipulazione contrattuale e prima che il matrimonio venga consumato.


Quindi, affinché il matrimonio islamico sia valido, non solo devono sussistere elementi essenziali, ma entrano in gioco anche elementi religiosi, giuridici, sociali e morali senza i quali il matrimonio risulta invalido. Inoltre il ripudio, il divorzio, la mancanza di un elemento essenziale incidono sulla corretta fattispecie del contratto in questione, come la presenza di impedimenti permanenti o temporanei.


I primi sono la parentela, l’affinità e l’allattamento, che crea tra la nutrice e il lattante un rapporto pari a quello tra madre e figlio. I secondi riguardano: 1) la disparità di religione, poiché la donna non può sposare un non musulmano, mentre il musulmano può sposare una non musulmana, purché ebrea o cristiana; 2) il triplice ripudio, ovvero l’uomo non può contrarre nozze con la donna che ha ripudiato tre volte, a meno che la donna non si sia sposata di nuovo, abbia consumato tale matrimonio oppure si trovi libera dal vincolo in seguito alla morte del marito, al ripudio o al divorzio; 3) infine l’assenza di uno “stato di libertà” per il quale è proibito ogni matrimonio con una donna che si trova ancora sotto la tutela matrimoniale, matrimonio non sciolto oppure ritiro di continenza (idda).

 

Il matrimonio islamico è volto quindi all’armonia familiare anche se come sintesi di un rapporto dialettico tra uomo e donna, che tuttavia trova la sua realizzazione nella procreazione e nel mantenimento della specie. L’aborto, quindi, è teoricamente proibito, salvo i casi in cui la vita della madre è in pericolo e quando il contesto sociale e personale della stessa non favoriscano la prosecuzione della gravidanza. In Tunisia l’aborto è consentito non solo nel caso in cui la gravidanza possa mettere a repentaglio la vita della madre o quando non vi siano situazioni economiche favorevoli, ma anche quando la gestazione sia la conseguenza di una violenza sessuale o di un incesto. In Algeria e Marocco la pratica è permessa al solo fine di garantire la salute fisica e mentale della madre. L’interruzione di gravidanza è comunque possibile fino al quarto mese. Dopo tale termine l’aborto viene considerato un omicidio.


Conseguentemente, anche la contraccezione rientra nelle azioni proibite, dal momento che l’unione di uomo e donna è indirizzata alla creazione, tuttavia l’Islam riconosce che l’atto sessuale non è soltanto finalizzato alla riproduzione, ma anche al piacere.

 

Con il tempo, sono stati considerati leciti tutti i sistemi contraccettivi temporanei e severamente proibiti quelli irreversibili come la sterilizzazione.



 

 

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