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N. 30 - Giugno 2010 (LXI)

L'Iran tra democrazia e regressioni autoritarie
democratizzazione incompiuta

di Lidia Giglio

 

Negli ultimi anni numerosi studi hanno reinterpretato il percorso politico attraversato dall’Iran nel corso del XX secolo come un processo di democratizzazione incompiuto. Tale chiave di lettura si basa sull’idea che lo sviluppo politico iraniano, dalla rivoluzione costituzionale del 1906 ad oggi, sia stato accompagnato da una forte spinta verso la democratizzazione e dal tentativo di modificare l’equilibrio di potere tra stato e società civile.

 

Il risultato di questo processo è stata la creazione di un regime fortemente contraddittorio, basato sulla compresenza di elementi formalmente democratici (come l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e del Parlamento) accanto ad aspetti indiscutibilmente tipici di un regime autoritario.

 

Tali contraddizioni sono il risultato dell’alternarsi tra periodi di relativa apertura democratica e rispettive regressioni autoritarie, che puntualmente hanno vanificato, anche se mai completamente, gli esperimenti di apertura del regime.

 

Il caso iraniano riveste un certo interesse per alcuni fattori di unicità: innanzitutto perché i limiti al processo di democratizzazione sono stati una conseguenza del processo di state-building e delle esigenze di rafforzamento delle istituzioni ad esso legato.

 

In secondo luogo, per il ruolo giocato dagli interessi stranieri nel determinare le fortune della democrazia. Le reiterate sfide all’integrità territoriale iraniana hanno comportato una sorta di delegittimazione del modello democratico, percepito in contrasto rispetto alla sopravvivenza stessa del Paese.

 

Ma i principali ostacoli alla transizione democratica iraniana sono legati soprattutto alla formazione di meccanismi statali altamente centralizzati, all’assenza di organizzazioni partitiche indipendenti e ben strutturate e alla centralità attribuita agli strumenti di coercizione per la soppressione del dissenso e dell’opposizione.

 

Questi fattori, lungi dall’essere confinati alla contemporaneità, costituiscono una sorta di leit-motiv del fallimento democratico in Iran, una chiave di lettura applicabile alle diverse congiunture storiche.

 

La dialettica tra aspirazioni democratiche e consolidamento delle istituzioni statali ha raggiunto il suo apice durante il regime dello Scià Pahlavi (1941-1979).

 

Il fallimento dell’esperimento democratico di Mossadegh (1951-53) ha segnato un ritorno autoritario, “arricchito” dei caratteri inediti di un regime sultanistico. La gestione del potere fortemente personalistica e l’alienazione dello stato dalla società civile sono gli aspetti che più hanno inciso a lungo termine sulle potenzialità di sviluppo democratico.

 

L’instaurazione della Repubblica Islamica nel 1979 ha segnato una radicale trasformazione rispetto al regime monarchico, con la redazione di un nuovo testo costituzionale e l’affermazione di una cultura politica basata sul diritto/dovere dei cittadini a partecipare al processo politico.

 

Tuttavia, la tendenza degli Scià Pahlavi ad assottigliare il gruppo di personalità politicamente rilevanti ha continuato ad approfondirsi in seno alla Repubblica Islamica.

 

Nella nuova costituzione, infatti, gli elementi democratici sono vanificati dall’esistenza di istituzioni non elettive che mantengono il potere de facto all’interno del regime, prima tra tutte la Guida Suprema. La previsione di sistemi che filtrino l’espressione della volontà popolare, attraverso “sofisticate” procedure di selezione dei candidati ammessi alle elezioni può essere quindi considerata come una versione aggiornata dell’ipocrisia costituzionale di Pahlavi.

 

La recrudescenza autoritaria, avvenuta con la vittoria dei conservatori guidati da Ahmadinejad alle elezioni del 2005, ha inserito ulteriori elementi di complicazione dimostrando la presenza di limiti legati al comportamento dell’elettorato. La scelta di eleggere l’ala hardliner del conservatorismo ha dimostrato la prevalenza degli aspetti economico-sociali su quelli democratici al momento dell’espressione del voto.

 

Rimane, tuttavia, un dato incontestabile: la crescente importanza rivestita dal processo elettorale quale momento imprescindibile della vita politica iraniana nonché mezzo di istituzionalizzazione ed aggregazione degli interessi presenti a livello di massa.

 

Le elezioni del 2005, pur avendo segnato una regressione autoritaria apparentemente confermata dalle contestate elezioni del giugno 2009, hanno dimostrato l’esistenza di tendenze positive per le prospettive future di apertura democratica: l’alto livello di opposizione e dissenso e l’assimilazione da parte dell’élite politica della logica elettorale.

 

Gli eventi di contestazione attuale dimostrano la progressiva delegittimazione del regime, che tuttavia gode ancora del supporto di forze militari e paramilitari.

 

Tuttavia, le sfide provenienti da un’opposizione assai dinamica rivelano l’esistenza di fratture che alla lunga potrebbero essere incapaci di contenere la spinta che da tempo preme per il cambiamento. 

 



 

 

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