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N. 22 - Ottobre 2009 (LIII)

L’INVASIONE FRANCESE DELL’ITALIA
Progressi, speranze, saccheggi e delusioni (aprile 1796, ottobre 1797)

di Cristiano Zepponi

 

Il “Governo del Direttorio” vide la luce nel 1795, fondandosi sulla più durevole delle varie Costituzioni repubblicane, quella dell’anno III, che, nonostante la svalutazione di cui sarebbe stato oggetto, seppe realizzare importanti acquisizioni legislative (come l’attivazione di un sistema nazionale di istruzione pubblica) e politiche, con l’inizio della pratica della democrazia rappresentativa, incentivata da stampa, voto, gruppi politici. Toccò proprio a questa nascente istituzione il difficile compito di traghettare il conflitto politico stesso entro i confini della legalità.


A tutto ciò, inoltre, si deve aggiungere l’incombente minaccia di un’invasione straniera, tesa a soffocare l’eco rivoluzionario che, com’è noto, si temeva potesse diffondersi nel continente.


Contro la Francia si ergeva allora minacciosa la seconda coalizione, orfana della Prussia (che, esausta, aveva firmato la pace il 5 aprile 1795), della Spagna (22 luglio) e delle Province Unite (16 maggio) ma comunque temibile, essendo composta da Austria, Napoli, Baviera, Regno di Sardegna e da vari principati italiani e tedeschi. Proprio l’Austria aveva sostituito la Spagna nel ruolo di potenza egemone in Italia (un settore naturalmente molto sensibile per gli interessi francesi), ereditandone i territori nel 1713, in seguito alla guerre di successione spagnola (con i conseguenti trattati di Utrecht e Rastadt) e in misura minore polacca (1733-1738).


In questo settore fu inviato un giovane artigliere còrso, che si era fatto un nome nella repressione della rivolta di Tolone ed era stato considerato molto vicino a Robespierre ed ai giacobini:il giovane generale Buonaparte (come ancora si faceva chiamare, all’italiana) assunse il comando dell’Armata d’Italia il 27 marzo 1796 succedendo a Schèrer, sperimentato ma dimostratosi poco competente. La sua nomina destò sorpresa: non aveva pratica di alti comandi, e subito i maligni insinuarono che dovesse il suo posto ai favori resi a Robespierre prima (il cui appoggio era stato conquistato con un semplice opuscolo politico, “Le super de Beaucaire”, che condannava la disobbedienza al governo giacobino delle zone ostili della Francia meridionale) ed in seguito, nei fatti del Vendemmiaio, a Barras, potente membro del Direttorio, oltre che alla relazione con la futura imperatrice Josèphine Beauharnais, la bella creola che tanti contatti altolocati continuava a coltivare.


L’Armata d’Italia (titolo altisonante, che suscitava non poche ironie negli avversari) aveva, nell’ambito della strategia del Direttorio, il solo scopo di contenere austriaci e piemontesi, mentre il ruolo principale sarebbe spettato a Jourdan e Moreau nell’Europa centrale. Anche per questo, era, nella migliore delle descrizioni, un eterogeneo, disordinato e raccogliticcio insieme di uomini, più vicini all’ammutinamento che ad una seppur vaga immagine di soldati.


Il morale, di conseguenza, ne risentiva: uomini sporchi, più somiglianti a briganti che a soldati, privi anche delle loro misere razioni accumulate da speculatori nelle retrovie. La paga era in ritardo di mesi, le divise lacere. La forza effettiva assommava a 38000 uomini, quasi tutti sull’orlo della diserzione per la propaganda sotterranea di agenti realisti. A molti battaglioni mancavano scarpe e persino baionette, possedevano solo 200 muli, i cavalli erano da un anno a mezza razione.

Uno sfacelo.


Lo riconobbe lui stesso nel primo proclama: “Soldati, voi siete nudi, mal nutriti. Il governo vi deve molto, esso non può darvi nulla”. Capì presto, quindi, che l’offensiva sarebbe stato l’unico modo per evitare la disgregazione dell’armata. Gli argomenti che usò per animare la truppa ne indicano il morale: “Voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo; ricche province, grandi città saranno in vostro potere”. Gli rispose un’acclamazione ammirata: la prima manifestazione di un rapporto destinato a diventare magnetico. Si avvalse di subordinati sperimentati e un po’ invidiosi, che ritenevano, ognuno, di meritare il posto del piccolo ventisettenne.


Tra questi il parigino Augerau e Massèna di Nizza, un ex-contrabbandiere, e Victor, già conosciuto all’assedio di Tolone. La sua “eminenza grigia”, come la definisce Chandler, era Berthier, un uomo poco fantasioso ma eccezionale nel lavoro direttivo. E poi un gruppo di talenti giovanissimi: Murat alla cavalleria, che suppliva ad una certa debolezza intellettuale con slancio e coraggio, e Junot, artigliere e amico di vecchia data. Dovevano affrontare Jean-Pierre Beaulieu, vecchio generale austriaco di 45 anni più anziano di Bonaparte, e sotto di lui Argentau, Melas, Wukassovich, Liptay, Sebottendorf, comandanti di un’armata asburgica inevitabilmente di composizione multinazionale, comprendente elementi serbi, croati, austriaci, ungheresi. Ad affiancarli, le forze del Regno di Sardegna, addestrate secondo i canoni austriaci da apposite missioni imperiali, e guidate proprio da un austriaco, Colli, e dal principe di Carignano. Questi comandanti, in futuro molto criticati, erano inoltre figli di un’altra generazione, dell’700, di Federico il Grande, di un mondo che non capì, né poteva, le forze scaturite dalla Rivoluzione.


“Le petit caporal” (come sarà affettuosamente apostrofato), come detto, doveva attaccare. Per il morale, per la fiducia, per mangiare e vestirsi. E poi i coalizzati apparivano diffidenti l’uno con l’altro, divisi, pieni di mutua sfiducia. La campagna, prevista per il 15 aprile, dovette essere inaugurata con quattro giorni d’anticipo per l’inatteso attacco austriaco contro Voltri. Torino era stanca della guerra, si sapeva, e quindi, nonostante il parere contrario del Direttorio, i Francesi attaccarono proprio in quella direzione.


Il 12 aprile a Montenotte gli austriaci furono battuti. Fu la prima vittoria del giovane Bonaparte nella campagna: i soldati imperiali si videro piombare addosso da ogni parte le truppe di Massèna, forti di baldanza ed entusiasmo; e così avvenne a Dego due giorni dopo portando alla morte del generale Causse e alla promozione di Lannes, che un giorno sarà maresciallo dell’Impero. Il 21 Sèrurier trionfò a Mondovì, caricando coraggiosamente davanti alle sue colonne, il 23 cominciò l’avanzata su Torino, con i vari elementi dell’armata a un giorno di marcia l’uno dall’ altro.


Quella stessa sera Colli, alla guida dei Piemontesi, dopo aver perso 5000 uomini, i cannoni e le bandiere, ed aver capito che i soldati col tricolore tenevano la posizione centrale tra lui e gli austriaci, chiese una tregua, che sarebbe passata alla storia con la denominazione di “armistizio di Cherasco”. Il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, lo approvò ufficialmente il 28, e, subito, Murat corse a riferirlo al Direttorio. In dieci giorni il Piemonte fu piegato. Torino, peraltro, piacque al conquistatore al punto tale che ordinò la costruzione di un nuovo ponte a cinque arcate e di numerose strade, nelle vicinanze.


”Annibale” disse in quei giorni ”ha attraversato le Alpi. Noi le abbiamo aggirate.” Prendeva, rapidamente, coscienza di se’. E presuntuoso, quello, lo era anche col Direttorio: ”L’esercito ha approvato il trattato di pace”, affermò, con spaventoso abuso di potere. Nessuno aveva mai parlato in modo tanto spavaldo al suo governo; avrebbero voluto fucilarlo, all’interno del governo, né lo nascosero: nelle reazioni alle sue vittorie lo spavento per l’ardimento del ragazzo fu sempre superiore alla gioia.


Lui si concentrò sul suo mestiere: Beaulieu evacuò Alessandria, ai primi di maggio passò il Po e lì lo attese, il quale, basandosi su una clausola del trattato col Piemonte, credeva che i Francesi sarebbero passati a Valenza. Massèna glie lo fece credere. Scrisse il giovane isolano: ”Beaulieu casca continuamente nelle trappole che gli tendiamo”. I francesi passarono il Po a Piacenza il 7 e 8 maggio, sul lato nord. Qui fu firmata una tregua col duca di Parma, che fruttò quadri e milioni per la traballante economia d’oltralpe. Importante è notare, con radici che affondano nella perenne crisi economica in cui si dibatteva la Francia (la quale spiega, in parte, la stessa Rivoluzione), che non era il Paese a nutrire l’armata, ma il contrario, e non per l’ultima volta: anche il duca di Modena ne sarebbe stato presto vittima.


L’armata francese mosse allora compatta alla caccia degli imperiali, schierati ora lungo la riva sinistra dell’Adda. Bonaparte (come si nota è cambiata anche la firma; ora che si trovava in guerra con l’Italia, non voleva nulla che lo riportasse al suo paese d’origine), ebbe allora un’idea che rasentava la follia: forzare il passaggio del ponte di Lodi. Lo difendevano diecimila moschetti e trenta cannoni, tutto quello che si riuscì a trovare nelle ultime, concitate ore. I granatieri, contro ogni previsione, attraversarono il ponte urlando e rovesciarono la prima linea nemica. Lodi non fu una vittoria, fu un simbolo.
In quella carica, l’Europa vide la Rivoluzione.


Conclusa quella giornata memorabile (era il 10 maggio 1796) disse al suo aiutante Marmont: ”Sento che mi sono predestinate azioni di cui questa generazione non ha presagio”. Si era, definitivamente, convinto della propria grandezza.


Non dovette certo difendersi solo dagli austriaci: il suo governo voleva dividere l’Armata e affiancargli Kellermann. Ne avevano capito l’ascendente sulla truppa; ma lui rifiutò, trattando da pari a pari con tutti, definendo “impolitico” dividere il suo esercito, e la spuntò. Anche il duca di Parma aveva, il 9 maggio, ceduto ad un armistizio che lo vedeva costretto a pagare un’alta indennità di guerra, a consegnare grano, cavalli, bestiame e numerose opere di celebri personalità artistiche, tra cui un Correggio, un Raffaello, un Tiziano (“l’incoronazione di spine”) e un Salvator Rosa; lo stesso accadde al ducato di Modena, costretto a versare circa altri venti capolavori. Lunghi convogli li trasportarono oltralpe, tra la silenziosa rabbia delle popolazioni, e la denuncia, da parte di alcuni intellettuali – tra cui Pietro Verri – della rapacità dell’Armata.


”Il 15 maggio 1796 il general Bonaparte entrò in Milano alla testa del giovane esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrava al mondo come dopo tanti secoli Alessandro e Cesare avessero un successore”, scrisse Stendhal, nella Certosa di Pavia, al culmine dell’entusiasmo. Con buona dose di esibizionismo, furono mandati avanti i prigionieri, secondo l’uso degli imperatori romani; poi promesse di libertà, indipendenza, protezione: magari le parole costano poco, o magari, come qualcuno ha suggerito, vi era ancora idealismo, in lui. Chissà. Lo stesso giorno, col trattato di Parigi, il re di Sardegna riconobbe la cessione di Nizza e della Savoia.


A Milano i giovani ufficiali dell’esercito rivoluzionario toccarono l’apice della gioia. Scrisse ancora Stendhal: “Se i milanesi erano pazzi di entusiasmo, i francesi erano pazzi di felicità”. Dopo allora, l’entusiasmo dei “liberati”, già scarso, per la verità, agli esordi, diminuì sensibilmente: al punto che appena lasciata la città dai conquistatori (il 22 maggio), questa e Pavia si ribellarono, provocando la resa della guarnigione nella seconda.


La posta era politica: se i due centri avessero resistito, si sarebbe detto che l’Italia fosse con gli austriaci. La prospettiva fu però presto scongiurata, pur continuando nel contempo l’inseguimento degli avversari. Il giovane generale rischiò nel periodo la vita più volte (al punto di creare le Guide, la sua scorta personale che un giorno diverranno gli chasseurs-à-cheval della Guardia Imperiale), senza risparmiarsi, continuando a mostrarsi in prima linea per spronare i soldati, che attraversavano un periodo particolarmente duro.
La guarnigione di Mantova continuò a resistere testardamente per otto mesi (l’assedio comincia il 3 giugno), e gli eserciti austriaci tentarono più volte di soccorrerla. Venezia, nel frattempo, fu costretta ad accettare un diktat pesante, dovendo fornire ai francesi viveri e vettovaglie. Profetizzando, i due inviati della Serenissima scrissero al governo il 5 giugno: “Quest’ uomo avrà un giorno grande influenza sulla sua patria”.


In luglio altre due armate sotto il comando di Quasdanovich e Wurmser sbucarono dalle Alpi per soccorrere Mantova con 50000 uomini: quest’ultimo era un vecchio sordo, lento, prevedibile. Ma i suoi uomini costituivano l’elite imperiale. E un prete italiano si stupì, al punto da scrivere: “È sorprendente come questi uomini morenti di fame, pochi, piccoli, deboli, logorati da fatiche e privazioni, senza vestiti né scarpe – uomini che si prenderebbero per i relitti di una popolazione decimata – possano distruggere l’esercito austriaco, composto di veterani di grande altezza, robusti e rotti alla guerra”.


I francesi, frattanto, si occuparono anche del Papa, assaltando il forte Urbano nei pressi di Castelfranco Emilia e mettendo in subbuglio la Toscana. Il 29 giugno, almeno, cade il Castello Sforzesco di Milano: una preoccupazione in meno.


L’assedio di Mantova fu interrotto per contrastare la poderosa calata austriaca il 31 luglio. Ma Wurmser era lento, troppo lento, e pur in superiorità di 2 a 1 permise al còrso di recuperare la prediletta posizione centrale tra le due armate austriache e di combattere, come scrive Gerosa (“Napoleone”, pag. 107), la lotta di “Orazio contro i Curiazi”.


Prima se la prende con Quasdanovich, sconfitto a Lonato, mentre Augerau tenne a bada Wurmser presso Castiglione (di cui sarà fatto duca: ma non da Napoleone, beansi da Luigi XVIII). Poi, il 4 agosto, solo, fu costretto a decidere se ritirarsi verso Milano o rischiare l’azzardo. Prevalse il secondo: il 5 agosto l’esercito francese si schierò a Castiglione. Allora Wurmser, attaccato di fronte da Augerau e sul fianco da Sèrurier, si ritirò. Morivano così le speranze di Venezia e dell’Italia in genere, che avevano vissuto la calata imperiale come una liberazione. Gli orgogliosi soldati dell’imperatore fuggirono verso Trento.


Il secondo blocco di Mantova cominciò così il 24 agosto. A settembre, per l’ennesima volta, Wurmser calò in Italia e, ancora, divise l’esercito. Il 4 l’Armata d’Italia affrontò Davidovich, cui era stata affidata una delle due ali, a Rovereto, e dopo averlo sconfitto entrò a Trento, e poi a Bassano, dove si rifugiava Wurmser. Lento ma indomito, l’austriaco: si chiuse alfine a Mantova, dove rimase bloccato dal primo ottobre. Marmont corse allora a Parigi a portare le bandiere catturate. E Bonaparte, nominato con affetto sergente dai suoi fanti, pensava (o fingeva di pensare…) all’unità d’Italia, ad un congresso da tenersi “a Modena e a Bologna”per “decidere una federazione tra i comuni, l’organizzazione di una Legione Italiana, l’invio di deputati locali a Parigi per chiedere libertà ed indipendenza”.


Il Direttorio era, e rimase, sordo all’argomento, ma i patrioti fondatori le neonate Repubbliche Cispadana e Transpadana erano, comunque, incoraggiati. Era questo solo un pensiero, però. Le sue Repubbliche lo furono solo di nome, e per breve tempo.
Ora le preoccupazioni erano altre.


La guerra in Germania andava male, Moreau e Jourdan erano l’uno in ritirata e l’altro sconfitto a Würzburg. In più, Alvinczy si staccò dall’armata vittoriosa dell’arciduca Carlo per raccogliere i resti delle armate sconfitte precedentemente e insieme liberare Mantova. Massèna lo ributtò sulla riva sinistra del Brenta, poi sorsero difficoltà. L’ultima, disperata mossa francese fu di passare attraverso le paludi dell’Adige e attaccare Alvinczy alle spalle, ma per farlo c’era prima un altro ponte che sarebbe passato alla storia: quello di Arcole, dove il futuro imperatore guidò i suoi ad infruttuosi, ma epici assalti (durante i quali, con poco eroismo cadde dentro la palude sottostante).


Dirà poi: “Era un canto dell’Iliade!” ripensando alla giornata. In quei giorni di novembre arrivò anche a inventare espedienti fantasiosi per ingannare l’avversario: un ufficiale nero (che, guarda caso, si chiamava Ercole) con 25 Guide e 4 trombe finse, inscenando un fracasso infernale, un attacco sul fianco e ottenne il risultato voluto; gli austriaci sbandarono e si ritirarono verso Vicenza. Anche Davidovich rinunciò all’impresa, mentre la consapevolezza della catastrofe si diffondeva lentamente anche in Austria.


Dopo il riposo milanese che accompagnò la fine di quel lungo anno Alvinczy ci riprovò: ma a Rivoli le cariche di Leclerc e Vassalle, e i rinforzi di Massèna, lo punirono di nuovo. Merezkovskij annotò che, stavolta, solo per il sangue freddo del piccolo caporale una sconfitta divenne vittoria. E Provera, ultimo spiraglio di luce per Mantova assediata, fu raggiunto a San Giorgio (dopo una marcia inumana di 24 ore) e sconfitto. Furono venti, terribili giorni del gennaio 1797. Wurmser, ancora asserragliato a Mantova, offrì la resa a Sèrurier: e, favorendo la nascita di un’aneddotica assai diffusa, Bonaparte partecipò al colloquio con l’emissario imperiale incaricato di trattarlo fingendosi un ufficiale qualsiasi, per poi rivelarsi e dettare le sue condizioni.


Mantova capitolò il 2 febbraio 1797, e il giovane vincitore si rivelò magnanimo con lo sconfitto. Per riguardo all’anzianità, si direbbe. E col suo operato conquistò tutti, anche Wurmser stesso, che gli svelò un attentato in preparazione ad opera del Papa; il casus belli col papato fu un malaccorto tentativo di alleanza antifrancese con l’imperatore.


La guerra fu breve, e anche la S.ta Sede fu presto costretta alla pace (firmata a Tolentino il 19 febbraio 1797), dopo aver rinunciato alle Legazioni Pontificie di Bologna e Ferrara e le Romagne. Ma lui evitò di entrare in Roma (né la vide mai), ma ottenne soldi, manoscritti, la Trasfigurazione, L’Apollo del Belvedere, il Lacoonte. Disse bene affermando che “un’opera d’arte resta nei secoli, un milione è presto speso”.


Paul-Luis Courier scrisse, nelle “Lettres de Rome”: “Tutto ciò che apparteneva ai Certosini, a Villa Albani, ai Farnese, agli Onesti, al museo Clementino, al Campidoglio è stato portato via, saccheggiato, perduto o venduto. Una squadra di soldati, entrati nella Biblioteca Vaticana, ha, fra le altre rarità, distrutto il famoso “Terenzio” del Bembo, per prendere le poche dorature di cui il manoscritto era adorno. La “Venere” di Villa Borghese è stata colpita ad una mano; all’Ermafrodito hanno rotto un piede”.


A marzo fu inviato a sbarrare la strada alla marcia francese l’arciduca Carlo, anch’egli giovane e promettente, ma invano; la sua era una truppa raccogliticcia e sfiduciata.
Il Tagliamento fu passato il 16, il 30 l’Armata era già a Klagenfurt, sulla via di Vienna, il 31 offrì la pace: il suo fu un proclama molto ben riuscito, ma questa venne però rifiutata dall’imperatore. Era, per dirla come Norvins, “condannato a vincere”. A Judenburg, 90 leghe dalla capitale, si mostrò duro con gli emissari imperiali, affermando: “Il vostro governo mi ha mandato contro quattro armate senza generali e stavolta un generale senza armata”, con freddezza e ironia.


Ma quando essi si accorsero che l’armistizio fosse l’unica soluzione per salvare la monarchia, e, soprattutto, che il golpe di Barras, Rewball e La Revellière-Lèpeaux (il “secondo Direttorio” per gli storici) aveva prevenuto quello di Pichegru, Carnet e Francois Barthèlemy e portato alla distruzione della destra realista in Francia, sondarono il terreno per la sospensione delle ostilità.


Fu una pace particolare, in cui entrambi i contraenti si sforzarono di non tirare troppo la corda. Le condizioni preliminari furono firmate il 18 aprile. Il 15 maggio, intanto, dopo vari massacri e scaramucce, era caduta la Serenissima, rimpiazzata da una municipalità repubblicana. Pesaro, capo del governo, che aveva precedentemente invitato tutti a massacrare gli “invasori” (che caddero, in effetti, a centinaia), fu ora punito. ”Vogliamo sangue”, scriveva infuriato Napoleone al Direttorio. Soliti indennizzi artistici per i vincitori: è la regola, in Italia. Tiziano, Tintoretto, persino i leoni di bronzo di S. Marco, e poi la flotta e Corfù, l’isola, secondo Omero, di Nausicaa, passarono ai transalpini.


Genova, altra città dal passato marinaro, insorse il 31 maggio e fu subito occupata. La Repubblica Ligure sorse dove moriva il governo della nobiltà, e successivamente, il 9 luglio, fu creata la Repubblica Cisalpina, fondendo la Transpadana e la Cispadana, cui il 24 si aggiunse la Romagna grazie al trattato di Tolentino.


A Milano in settembre l’Amministrazione Generale della Lombardia, istituita alla fine dell’agosto 1796, dietro invito dei conquistatori bandì un concorso in cui i patrioti italiani furono invitati ad esprimersi su “Quale dei governi liberi meglio convenga all’Italia”: e l’esito fu la generale richiesta, da ogni parte della penisola, di un governo repubblicano indipendente, in forme unitarie.


Ma i “giacobini”, appellativo dei patrioti rifugiati a Milano, per perseguire l’obiettivo unirono alle forme legali anche attività cospirative; fu proprio per questo che dai francesi furono invece appoggiati in seguito i “moderati”, reclutati tra i ricchi borghesi e le vecchie aristocrazie, favorevoli all’uguaglianza giuridica ma terrorizzati dalle idee di uguaglianza sociale e di regolamentazione dell’attività economica. Il “triennio giacobino” (1796-1799), e il suo tentativo di applicare i principi più genuini dell’”’89” francese, costituì comunque un’esperienza importante, rompendo col clima politico riformista degli anni ’80 e favorendo la nascita di una generazione imbevuta di ideali unitari, purtroppo destinata a delle cocenti, profonde delusioni politiche.


Quella che sarebbe divenuta nota col nome di Pace di Campoformio aveva nel frattempo avuto una lenta gestazione, per essere poi definitivamente ratificata il 17 ottobre 1797.


L’Imperatore d’Austria cedette i Paesi Bassi austriaci (Belgio), l’occupazione della riva sinistra del Reno e delle Isole Ionie e riconosceva la nuova Repubblica Cisalpina. In cambio, ricevette l’appena occupata Repubblica di Venezia, con le sue basi e dipendenze in Istria, Dalmazia e Friuli e nel Levante.


Come si disse, il trattato lasciò “..indifferenti i francesi, felici gli austriaci e disperati gli italiani..”.
La Francia aveva riscosso un successo dove nessuno se lo sarebbe aspettato. Ma, di riflesso, la forza militare diventava essenziale per il potere politico, che dimostrava l’incapacità di risolvere i suoi conflitti interni nel quadro della legalità costituzionale.
Si lasciò però, con rara miopia politica, che l’Impero tenesse un piede in Italia, a garanzia di futuri, ulteriori scontri. Si sacrificava Venezia, con un trattamento tanto doloroso da riflettersi nella letteratura contemporanea, con le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo, che, con tono amaro e disilluso (“il sacrificio della Patria nostra è consumato..”), denunciano l’inganno vero, le elites patriottiche italiane. E poi con Vittorio Balzoni (“Rapporto sullo stato attuale dei paesi liberi d’Italia e sulla necessità ch’essi siano fusi in una sola Repubblica”) ed anche Vittorio Alfieri (“Misogallo”), che arrivò a scrivere “..infami al pari dei vincitori i vinti”.


Inoltre, le promesse unioni fra i diversi popoli che componevano le varie entità politiche della penisola furono osteggiate dal Direttorio, e rapidamente dimenticate. Presto, quindi, si verificarono ovunque i primi, infruttuosi attentati alla vita del “petit caporàl” (che comunque abbandonò l’Italia, nel novembre 1797, per lanciarsi in una nuova ed esaltante avventura in Egitto), e soprattutto le prime rivolte popolari, spiegate anche dal proseguimento di un continuo, crescente saccheggio del patrimonio, soprattutto artistico, della penisola; politica peraltro caldeggiata sempre dal Direttorio, che ordinava di “fare piazza pulita dell’Italia”, senza essere peraltro soddisfatto dell’espropriazione fiscale che si dimostrava, comunque, propedeutica all’asfissiante situazione delle casse francesi.


Per la prima volta, dunque, l’esercito nutriva il paese, oltre che sé stesso.


Le Repubbliche “sorelle”, peraltro, avviarono, in questi anni e nei successivi, un mutamento radicale nelle vecchie strutture: furono aboliti i diritti feudale ed i titoli nobiliari, incamerati i beni della Chiesa, riformati gli apparati giudiziari; si diffusero la stampa periodica e i club, consentendo una, seppur limitatissima, attività democratica. Ma l’instabilità politica ereditata dal paese-guida, la crisi economica, aggravata dalle requisizioni forzate, ed anche la coscrizione obbligatoria decretata dalla “riforma Jourdan” del ’98, annullarono in buona misura queste novità indubbiamente positive.


In conclusione, possiamo ritenere che il periodo debba essere considerato, per l’Italia, in modo ambivalente: la stessa nascita del tricolore, derivato direttamente dalla bandiera francese, dimostra lo stimolo portato, anche se forse senza una volontà precisa in merito, al sentimento unitario italiano.


Nonostante dalla patria della Rivoluzione, ad esempio, i rivoluzionari di Alba, Cuneo e Asti fossero abbandonati alla feroce repressione sabauda nella prima fase della campagna, da questo momento l’unità d’Italia parve chiaramente conseguibile.


Nonostante la dura disillusione dei giacobini, rimpiazzati nel ruolo di classe dirigente dai moderati, o la triste fine dell’indipendenza veneziana, o la momentanea perdita di tanta parte del nostro patrimonio artistico, infatti, la parabola della Rivoluzione toccò, con conseguenze importanti, il Paese intero, influenzandolo sensibilmente dal punto di vista sociale culturale. Se si può parlare, a buon diritto, dell’ennesima occasione persa per stimolare una rinascita socio-economica (uniforme e costante) della penisola, le nuove strutture amministrative permisero quantomeno di superare il vecchio sistema feudale, l’”ancièn regime” nostrano.


Nonostante i patrioti avessero subito un’altra delusione storica di proporzioni incalcolabili, fu proprio quella delusione a contribuire alla formazione delle future, moderne classi dirigenti.


Gli alberi della libertà, innalzati idealmente in tutta la penisola, piantarono le loro radici in profondità nel tessuto collettivo, e non furono abbattuti, né dalle scuri né dalla Restaurazione.



 

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