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N. 48 - Dicembre 2011 (LXXIX)

ANALISI dell’Inquisizione Romana

UNA STORIA CINQUECENTESCA - PARTE I
di Roberto Rota & Nicola Ponticiello

 

Con il termine “Inquisizione romana” ci riferiamo esclusivamente a quella congregazione cardinalizia nata a metà del 1500 dopo lo scoppio dello scisma protestante ad opera di Lutero. Essa, dunque, non va confusa con le altre Inquisizioni, nate precedentemente. Ci riferiamo in particolare a quella medioevale, quella spagnola e quella portoghese.

 

La prima nasceva nel 1179 con il concilio Lateranense III indetto da papa Alessandro III, durante il quale si stabilì, tra le altre cose, la necessità e la possibilità delle punizioni corporali nella lotta contro l'eresia (soprattutto ci si riferiva all'eresia catara e a quella valdese). Se, in un primo momento, tale inquisizione fu, soprattutto, di competenza vescovile, con la bolla Excommunicamus (1231) di Gregorio IX il compito passò a giudici nominati dallo stesso pontefice che potevano, all’occorrenza, deporre i vescovi che si erano dimostrati non all’altezza dei loro compiti o che erano essi stessi sospetti d’eresia.

L’inquisizione spagnola, invece, dipendeva direttamente dai sovrani di Spagna e fu istituita dal papa Sisto IV nel 1478 dopo le insistenti pressioni di Ferdinando II d'Aragona e Isabella di Castiglia. Il tribunale portoghese, invece, nacque nel 1536 su richiesta del re Giovanni III e, come quello spagnolo, aveva competenze non solo nella penisola iberica, ma anche nelle colonie.

Quindi, l’inquisizione iberica, nel suo complesso, aveva un campo d’azione vastissimo che andava dal sud America all’estremo oriente.

A fronte di una situazione iberica profondamente riorganizzata e centralizzata, in Italia l’inquisizione, subito dopo la riforma di Lutero (1517), era del tutto impreparata a combattere la nuova eresia (la situazione era allarmante soprattutto a Modena, Lucca e Napoli). Il sistema italiano manteneva un’incerta ripartizione tra competenze vescovili (i tribunali episcopali) e quelle degli inquisitori, provenienti soprattutto dall’Ordine dei domenicani e quello dei francescani.

Si trattava, quest’ultima, di una situazione dove le competenze si accavallavano, in quanto i giudici non erano autonomi ma dipendevano direttamente dai propri ordini di appartenenza, per cui la loro area di giurisdizione coincideva con quella del proprio convento o istituto. Essi non erano molto attivi (se si esclude la caccia alle streghe che alcuni esponenti dell’ordine domenicano portarono avanti all’inizio del ‘500) e molto spesso le cariche restavano vacanti. Tale situazione era, inevitabilmente, fonte di forti preoccupazione per i pontefici in quanto la solidità e l’unità della chiesa erano messe in pericolo dall’eresia protestante e quegli organi che avrebbero dovuto combattere e limitare tale pericolo erano inefficienti e disorganizzati.

Alcuni tentativi furono fatti, ma bisogna sempre ricordare che, in fin dei conti, essi avevano una validità soprattutto per la penisola italiana e non per le inquisizioni iberiche. Il 4 gennaio 1532 il pontefice Paolo III (Farnese) nominò l’agostiniano Callisto Fornari inquisitore unico per tutta l’Italia. Anche se tale provvedimento non ebbe conseguenze, era comunque la prova che la disorganizzazione dei tribunali italiani preoccupa profondamente le autorità romane. Dopo il fallimento dei Colloqui di Ratisbona (in particolare del primo nel 1541) la situazione diventava sempre più critica e da più parti forti erano le pressioni per un rafforzamento dell’apparato inquisitoriale. Dopo le proteste del governatore di Milano, Alfonso d'Avalos d'Aquino Marchese di Vasto, Paolo III affidò ai cardinali Carafa e Aleandro la cura universale dell’inquisizione, ma anche questo provvedimento si rivelò insufficiente. Si arrivò così al 21 luglio 1542, quando, con la bolla Licet ab initio, Paolo III istituì la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, nota anche come Inquisizione Romana (e, in seguito, come Sant’Uffizio). Il compito primario e principale del nuovo organismo, era quello di sconfiggere la piaga ereticale e sebbene, teoricamente, la sua competenza doveva essere universale, essa fu un organismo quasi esclusivamente italiano. Era composta da sei inquisitori generali (cardinali) i quali avevano competenze giuridiche amplissime, potevano incriminare anche gli altri cardinali.

L’istituzione rimase, nei primi decenni di vita, centralizzata nella sua sede romana e questo non era, necessariamente, il frutto delle solite debolezze organizzative. Se il compito primario era sconfiggere l’eresia era meglio farlo dal centro e non relegando poteri a vescovi o inquisitori che, in un periodo così delicato, potevano essi stessi esser sospettati di eresia. Quando poi, a partire dagli anni ’70, l’eresia sarà debellata, si comincerà a rafforzare l’apparato dei tribunali locali.

L’azione dei nuovi inquisitori era fortemente ostacolata dalle autorità secolari, in quanto anch’esse avevano competenze circa tutta una serie di delitti che venivano considerati contro d’ortodossia, come per esempio la bigamia, la sodomia e la simonia. In questo contesto si devono segnalare soprattutto due tribunali secolari: i Savi all’eresia a Venezia (1547) e l’Offizio sopra la religione a Lucca (1545). Gli ostacoli maggiori, però, l’Inquisizione Romana li incontrò nel Regno di Napoli (governata da un viceré spagnolo dal 1503) dove il popolo, come dimostrò con i tumulti del 1547, non avrebbe mai accettato la presenza di delegati romani o spagnoli. Si cercò di raggiungere un compromesso affidando la cura dell’inquisizione ai vicari pro tempore dell’arcivescovo e poi nominando, nel 1585, dei ministri residenti nella capitale del Sant’Uffizio e istituendo, in seguito, dei tribunali delegati.

Ma, in realtà, il sistema fu sempre molto debole e dove funzionò (come nella capitale Napoli) rimase competenza dei Vescovi e non degli inquisitori (bisogna ricordare che a differenza della capitale che rifiutò l’inquisizione spagnola essa era attiva e ben radicata in Sicilia). Al nord della penisola la situazione era nettamente migliore, infatti se in un primo momento la difesa dell’ortodossia rimase nelle mani dei vescovi, ben presto l’Inquisizione Romana riuscì ad affermarsi grazie anche alla presenza di personalità del calibro di Carlo Borromeo (dal 1564 al 1584 arcivescovo di Milano) e Ludovico Madruzzo (Principe vescovo di Trento dal 1567 al 1600). Paradossalmente, un caso simile a quello del Regno di Napoli lo ritroviamo nel Lazio e in altre zone dello stato pontificio, dove la vicinanza della Curia Romana e degli inquisitori generali rendeva superflua la presenza di un forte apparato di tribunali locali.

A fronte di una situazione che, nella periferia, stenta a decollare prima degli anni ‘60/’70 (anche per scelte ponderate, come abbiamo visto), la Congregazione dell’Inquisizione, in quanto organismo della curia, diventa ben presto un formidabile centro di potere. Al suo interne, ben presto, si delineò un gruppo di uomini, i cosiddetti zelanti o intransigenti, capeggiati dai cardinali Gian Pietro Carafa e Michele Ghislieri, che riuscirono a guidare i conclavi del 1549-50 (che portò al soglio pontificio Giulio III) e i due del 1555 (in cui furono eletti Marcello II e poi lo stesso Carafa con il nome di Paolo IV) contro gli “spirituali”. In questo modo evitarono la nomina del cardinale inglese Reginald Pole uno dei maggiori esponenti del circolo degli Spirituali, seguace, quindi, delle idee del mistico spagnolo Juan de Valdés (facevano parte dello stesso gruppo illustri personaggi come il cardinale Giovanni Morone, Michelangelo Buonarroti, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, le gentildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga). La congregazione, quindi, era diventata un centro di potere fondamentale per gli equilibri della curia grazie alla sua capacità di influenzare ed orientare sia i conclavi sia gli orientamenti teologici e culturali.

Sebbene fondata da Paolo III, il vero padre dell’inquisizione è sicuramente Paolo IV Carafa salito al soglio pontificio nel 1555. Non solo stabili la preminenza della Congregazione dell’Inquisizione su tutte le altre magistrature ecclesiastiche, ma ne allargò notevolmente le competenze, a dispetto del suo iniziale compito di lotta contro la riforma. Entrarono per la prima volta nelle competenze del tribunale la lotta contro gli omosessuali, i bestemmiatori, i simoniaci, crebbe il controllo sulle comunità greco-ortodosse e l’intolleranza antiebraica. Paolo IV stabilì anche la pena di morte per i colpevoli di eresie particolarmente gravi e in assenza di recidiva, anche se tale decisione, del tutto estranea alla prassi romana (come vedremo), non ebbe esiti. L’intransigenza del pontefice era sentita come un vero e proprio sopruso da parte del popolo abituato ad una chiesa poco repressiva e molto tollerante, e infatti la sua morte, avvenuta nel 1559, sarà “salutata” dal popolo romano con l’assalto alle carceri del Sant’Uffizio, l’incendio del suo archivio e la decapitazione della statua del pontefice, situata in Campidoglio.

Con il Concilio di Trento (1545-1563) che si avviava verso la fine e con i germi della riforma protestante ormai debellati dalla penisola molti cominciarono a dubitare dell’opportunità di mantenere in vita un organismo nato dall’eccezionalità del momento il cui unico scopo, almeno quello iniziale, era stato raggiunto. Ma la congregazione, ormai, si era trasformata in un vero centro di potere. Si pensava che il Concilio avesse potuto risolvere i problemi contro i quali era stata creata (momentaneamente) l’Inquisizione Romana, ma in verità fu quest’ultima a prendere il controllo dell’alto consesso orientandone i lavori. I delegati papali riuscirono a manovrare il concilio e a zittire le richieste dei vescovi che chiedevano una riforma della curia romana, ogni volta che quest’argomento veniva ripresentato i delegati minacciavano di affrontare, a loro volta, il problema dei privilegi e dei soprusi vescovili. Così il Sant’Uffizio sopravvisse al Concilio di Trento ma, in un’Italia ritornata all’unità religiosa, esso doveva ridefinire i suoi obiettivi.

Il “secondo padre” dell’Inquisizione romana fu sicuramente Pio V (1566 - 1572). Fu lui, dopo la parentesi più tollerante di Pio IV (Giovanni Angelo Medici), a riorganizzare le competenze della congregazione. Fermo restando che la priorità restava la lotta all’eresia protestante e l’apostasia, in un paese dove tale problema era stato debellato, ci si orientò anche verso nuove competenze quali il controllo della circolazione libraria, il controllo sulle arti figurative e sulle rappresentazioni teatrali, la lotta alle pratiche magio-diaboliche. Quest’ultima competenza era una vera e propria rivoluzione. La competenza in questo campo era stata sempre delle mani delle autorità secolari, soprattutto nei casi di danni di natura diabolica contro terzi. Nel caso di semplici pratiche di magia (“superstizione semplice”) la competenza era, invece, dei vescovi. In questi anni, invece, l’inquisizione cominciò a reclamare la propria giurisdizione in tutti quei casi sospetti d’eresia e visto che spettava alla stessa inquisizione stabilire se ci fosse stata violazione, o meno, dell’ortodossia, essa cominciò a monopolizzare tutti i casi.

Con la bolla Coeli et terrae di Sisto V (1586) la chiesa condannava definitivamente l’astrologia e la magia rinascimentale e stabiliva la definitiva competenza degli inquisitori anche nelle superstizioni semplici. Bisogna giustamente ricordare, però, che in Italia la lotta alla stregoneria non si trasformò in caccia alle streghe indiscriminata. Tali pratiche, molto limitata nella penisola, furono soprattutto appannaggio del nord Europa e del mondo protestante. Questo non vuol dire che tali fenomeni sono assenti in Italia o in Spagna (si pensi alla caccia alle streghe portata avanti dal Borromeo in Val Mesolcina nel 1583) ma nella penisola si affermarono tutta una serie di procedure giudiziare atte ad evitare processi a catena deleteri per il tessuto sociale. L’inquisizione Romana, per esempio, nel 1588 vietò di processare tutte quelle persone che erano state accusate, dalle presunte streghe, di aver partecipato insieme a loro alla pratica del Sabba. Tali accuse, poiché frutto delle suggestioni del demonio, non dovevano esser considerate veritiere.

Lo stesso si fece, nel 1613, per tutte quelle persone indemoniate, le quali accusavano qualcuno di averle affatturate. Tali testimonianze non erano affidabili poiché vi era il sospetto che fossero il frutto delle suggestioni del maligno per coinvolgere degli innocenti. Si afferma così un “garantismo” inquisitoriale il quale, però, sebbene fosse il frutto di un’accuratezza giuridica ben presente a Roma, non metteva minimamente in discussione la veridicità degli affatturamenti, delle streghe, del sabba e delle possessioni diaboliche. Si necessitava, esclusivamente, di maggiore cautela, anche perché il demonio era sempre in agguato pronto ad accusa e a coinvolgere innocenti.

Nuove competenze del Sant’Uffizio riguardavano la simulata santità, le canonizzazioni e il controllo sul consumo dei cibi proibiti. Ma sicuramente l’ambito in cui gli inquisitori consumarono il maggior numero di energie (dopo la lotta all’eresia protestante) fu il controllo dei libri proibiti. Tale attività era cominciata alquanto presto, sotto la direzione del Carafa, prefetto della Congregazione del Sant'Uffizio, con il compito di coordinarne l'azione. Sotto il suo impulso fu redatto il primo indice, quello Veneziano del 1549, ma il suo progetto fu coronato dalla creazione dell’Indice Paolino, il 30 dicembre 1558 proprio durante il suo pontificato. Tale indice prevedeva tre categorie: gli autori non cattolici e tutte le loro opere (anche non religiose), autori di cui venivano proibite solo alcune opere e, infine, le opere anonime. Venivano elencate 45 edizioni proibite della Bibbia e tutti i libri di astrologia e magia. Opere di illustri personaggi venivano messe al bando come il De Monarchia di Dante Alighieri, il Decamerone di Giovanni Boccaccio e le opere di Nicolò Machiavelli. Eventuali permessi e licenze per la lettura di opere proibite potevano essere concesse solo dagli inquisitori e non più dai vescovi, inoltre una particolare Instructio, redatta per definire più dettagliatamente l’applicazione dell’indice, escluse dalle licenze tutte le donne e gli ecclesiastici.

L’Indice Paolino fu riformato e moderato da Pio IV il quale affidò tale compito al Concilio riunitosi a Trento. Nasceva, così, l’Indice Tridentino (Index librorum prohibitorum a Summo Pontifice) il quale, sebbene non modificasse i divieti del precedente, lo moderava attraverso l’inserimento di dieci regole generali. Fu riconcesso ai vescovi la possibilità di concedere licenze di lettura per libri proibiti (soprattutto Bibbie in volgare rigorosamente proibite) ma soprattutto si introdusse il principio dell’espurgazione, grazie al quale le opere “ripulite” dai passaggi sconvenienti potevano essere pubblicate e lette. La tolleranza introdotta durò poco poiché il nuovo pontefice Pio V rimise mano all’indice.

Prima di tutto concentrò la pratica espurgatoria nelle mani del Maestro del Sacro Palazzo e stabilì che le opere depurate potessero esser stampate esclusivamente presso la Stamperia Vaticana. Inoltre fu creata una commissione con il compito di rivedere l’indice tridentino: era nata la Congregazione dell’Indice, formalizzata dalla bolla papale Ut pestiferarum opinionum. Il suo compito principale era quello di aggiornare l’indice e controllare le espurgazioni, ma spesso, in questi compiti, entrava in conflitto con l’Inquisizione a causa dell’accavallarsi delle competenze. Sempre in quest’ambito, nel 1559 sotto Paolo IV, l’Inquisizione stabilì la non assoluzione in confessione per i possessori di libri proibiti e la revoca di tutte le licenze di lettura concesse dalla Penitenzieria Apostolica.

 

Tale provvedimento, valido inizialmente solo per la Spagna e poi allargato all’intero mondo cattolico, obbligava il colpevole non solo a consegnare i libri per ottenere l’assoluzione ma lo costringeva a denunciare anche eventuali complici o, comunque, a dare informazioni su altri trasgressori.



 

 

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