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N. 77 - Maggio 2014 (CVIII)

L’Inquisizione e gli ebrei
Un rapporto controverso

di Paolo Paolucci

 

Quando ci si occupa dei rapporti tra l’Inquisizione e gli ebrei, il primo interrogativo a cui si deve cercare di dare una risposta è il seguente: come è possibile che un’istituzione quale era il Sant’Uffizio, nata nel 1542 con la bolla Licet ab initio di papa Paolo III per occuparsi principalmente di eresia e di eretici, si interessava anche degli ebrei? Essi infatti, in quanto infedeli, non sarebbero dovuti rientrare nella giurisdizione inquisitoriale.

 

Gli ebrei però, pur non essendo cristiani, potevano ugualmente risultare colpevoli di contemptus fidei ossia del reato di offesa nei confronti della fede cattolica, reato che rientrava tra quelli su cui il Sant’Uffizio aveva giurisdizione.

 

L’attenzione del tribunale si rivolse inizialmente sui libri ebraici, su uno in particolare, il Talmud, accusato di contenere attacchi ed insulti contro la religione cristiana.

 

Questo testo era stato preso di mira dai cristiani fin dal XIII secolo, ma allora la politica di Roma aveva oscillato tra la necessità di distruggerlo e quella di emendarlo, e fu solo durante il pontificato di Giulio III che si giungerà a vietare definitivamente il Talmud e a bruciarlo pubblicamente a Campo dei Fiori il 9 settembre 1553.

 

Pochi anni dopo, nel 1557, l’Inquisizione vieterà agli ebrei di possedere libri in ebraico diversi dalla Bibbia e nel 1559 il Talmud sarà incluso nel primo Indice dei libri proibiti. Il Talmud era il libro della vita, delle pratiche rituali e quotidiane degli ebrei; togliendogli questo testo, si sperava di dare loro una spinta alla conversione al cattolicesimo, a cui la Chiesa aspirava da sempre e, per cercare di favorire e incentivare il loro passaggio alla religione cristiana, nel 1543 Ignazio di Loyola aveva fondato a Roma la casa dei catecumeni, destinata ad accogliere gli ebrei ed altri infedeli, in particolare musulmani, che desideravano diventare cristiani.

 

Se inizialmente l’attenzione era rivolta solamente ai libri ebraici considerati eretici, nei decenni successivi, in particolare alla fine del XVI secolo, l’attenzione degli inquisitori incominciò a spostarsi dall’eresia dei libri a quella delle persone.

 

La bolla papale di Clemente VIII del 1596 Cum ebreorum malizia ampliava di molto i poteri inquisitoriali nei confronti degli ebrei: da quel momento essi potevano essere inquisiti e processati per reati di magia, stregoneria, astrologia e per pratiche di comportamento offensive verso la religione cristiana, quali bestemmie ed altre ingiurie. La caccia al Talmud si trasformò così in una caccia all’ebreo.

 

Oltre al già citato caso di contemptus fidei, gli ambiti di intervento della Congregazione comprendevano anche i giudaizzanti, ossia i neoconvertiti al cristianesimo che erano accusati di ricadere nell’errore e di mantenere credenze, riti o norme di vita caratteristiche del giudaismo; inoltre la Congregazione aveva anche potere di intervento sulla stessa comunità ebraica e poteva vigilare sull’applicazione delle leggi sugli ebrei.

 

Ma la storia dei rapporti tra cristiani ed ebrei non è solo storia di persecuzioni: è anche una storia di rapporti, di interazioni, di scambi istituzionali, sociali e culturali che, per quanto vietati e denunciati come pericolosi dalle istituzioni religiose e secolari, erano di fatto diffusi e quotidiani.

 

Non si tratta neanche di una storia di separazione: dal ghetto gli ebrei uscivano ed entravano e, nel corso delle loro attività quotidiane, frequentavano strade, piazze, osterie e botteghe di cattolici, penetrando nelle chiese e persino nei monasteri. Ciò che esce fuori è un mondo sorprendente di contatti, di scambi, di frequentazioni e di fiducia reciproca.

 

Gli stessi ebrei dimostravano di avere fiducia nel Sant’Uffizio e si rivolgevano a lui, anziché ai tribunali vescovili, perché lo consideravano più garantista; un esempio a tal proposito ci è stato offerto dagli ebrei polacchi, i quali ricorsero più volte al papa e alla stessa Inquisizione nel corso del XVI e del XVIII secolo contro le accuse di omicidio rituale (in cui erano accusati di assassinare, solitamente nella Settimana Santa, un bambino in spregio alla religione cristiana per utilizzare il suo sangue a scopi rituali, medicinali o magici) mosse contro di loro dai cristiani. L

 

e varie suppliche che le comunità polacche rivolsero a Roma, per vedersi riconosciuta la propria innocenza contro questa terribile accusa, a cui facevano solitamente seguito persecuzioni da parte dei cristiani, stavano a testimoniare che gli ebrei erano tutt’altro che passivi di fronte alle violenze subite e nutrivano fiducia nell’Inquisizione.

 

In particolare nel 1758, in seguito all’intensificarsi del già diffuso sentimento antisemita, con violenze nella diocesi di Luck, la comunità ebraica polacca inviò un suo rappresentante a Roma nella persona di Jacob Selig, con il compito di presentare a Benedetto XIV un memoriale contro le vessazioni subite da parte dei cristiani; il papa, ricevuto il documento, lo girò al Sant’Uffizio.

 

La risposta fu affidata a Ganganelli, il futuro papa Clemente XIV, che nel suo rapporto negò l’accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei (eccetto due casi citati espressamente da papa Benedetto XIV) ed attribuì la persistenza di questa accusa infamante ad antichi e radicati pregiudizi mai suffragati da dati di fatto e da testimonianze certe.

 

Approvato con tempestività il documento dalla Congregazione, il Ganganelli stesso, divenuto intanto cardinale, fu incaricato di fornire adeguate istruzioni al nunzio a Varsavia per ottenere dal re di Polonia, Federico Augusto III, l’impegno per una maggior tutela delle numerose comunità ebraiche presenti in Polonia.

 

Nell’Europa moderna l’ebreo era considerato come servus camera regis; a partire dal XII secolo, essi erano ritenuti servi dei sovrani e quindi anche i loro stessi patrimoni erano sottoposti all’arbitrio del re, che poteva disporne liberamente in cambio della sua protezione accordata alla minoranza giudaica.

 

D’altronde era opinione diffusa che gli ebrei avessero accumulato le loro ricchezze a scapito dei cristiani, poiché i loro patrimoni erano il frutto di un’anomalia giuridica, in quanto essi, come infedeli, erano esentati dal pagamento della decima alla Chiesa e questo denaro doveva essere recuperato in qualche modo. A questo riguardo la posizione della Chiesa era molto più aperta rispetto a quella dei sovrani secolari, come dimostra l’istruzione rivolta da papa Alessandro VII al Sant’Uffizio sul destino dei patrimoni degli infedeli, in particolare degli ebrei, che si convertivano al cattolicesimo.

 

Che cosa fare di questi patrimoni?

 

Secondo il pontefice, per incentivare le conversioni, essi potevano essere mantenuti e non dovevano essere restituiti alla comunità cristiana, a meno che non si trattasse di patrimoni accumulati attraverso l’usura. Alessandro VII si dimostrò quindi più comprensivo e disponibile verso gli ebrei, pur di facilitare ed incentivare la loro conversione, rispetto ai monarchi secolari.

 

Ma i rapporti tra ebrei e Sant’Uffizio non si limitavano solo a queste importanti questioni, ma investivano anche aspetti più concreti della vita di tutti i giorni, in particolare il problema della casa, che gli ebrei non potevano possedere in qualità di proprietari ma potevano abitare solamente in affitto, secondo lo ius casaca. Si trattava di un particolare diritto di affitto che era ad perpetuum, ossia per sempre, per di più con un canone di affitto che rimaneva stabile nel tempo.

 

Inoltre, nonostante i contratti prevedevano che sarebbe spettato ai proprietari cristiani pagare le ristrutturazioni delle abitazioni, molte volte erano gli ebrei a sostenerne le spese, perchè interessati a modificare le case per poterle subaffittare ad altri israeliti.

 

Così i prezzi dei subaffitti aumentarono progressivamente e gli ebrei più poveri furono costretti a ricorrere più volte al Sant’Uffizio per vedersi riconosciuti i loro diritti. Un caso emblematico fu quello di Ancona, dove la Congregazione (nel 1784-1785) prese in mano la questione e, per risolvere il problema della carenza di abitazioni nel ghetto marchigiano e dell’aumento insostenibile dei prezzi dei subaffitti, convinse papa Pio VI ad ampliare il ghetto con la costruzione di nuovi edifici.

 

Si è già messo in evidenza la capacità degli ebrei di scivolare tra le varie giurisdizioni a cui erano sottoposti, ed in particolare a sottrarsi a quella vescovile in favore di quella inquisitoriale, ritenuta più garantista e rispettosa dei loro diritti.

 

A riprova di ciò possiamo citare anche il continuo ricorso degli ebrei alla spontanea comparitio: essi si presentavano spontaneamente davanti all’inquisitore e si autoaccusavano del reato commesso vedendosi così ridotta sensibilmente la loro pena.

 

Questa preferenza degli ebrei nei confronti del Sant’Uffizio provocò il risentimento dei vescovi, generando dei conflitti tra l’Inquisizione e i poteri vescovili per il riconoscimento della giurisdizione sulla minoranza ebraica.



 

 

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