.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 64 - Aprile 2013 (XCV)

l'Hitler di Joachim Fest

1973-2013: il capolavoro compie quarant'anni
di Paolo Amighetti

 

Sul conto di Adolf Hitler si è scritto e si seguita a scrivere molto. I primi a farne menzione furono i giornali tedeschi all’indomani della Grande guerra: quando ancora occupava i trafiletti dei fogli bavaresi, Hitler vi era descritto come una macchietta, un caporale in congedo con il pallino della violenza e l’estro del demagogo.

 

Un pericolo pubblico del quale, tutto sommato, non ci si doveva preoccupare poi tanto. Negli anni della sua “resistibile ascesa”, il Völkischer Beobachter (organo ufficiale del Partito nazionalsocialista, N.d.A.) prese a dipingerlo come l’uomo della Provvidenza, appioppandogli il titolo di Führer e l’appellativo di Redentore della Germania; ma altre testate, come il Münchener Post, si domandavano se nella forma del naso del “Redentore” non si celassero le sue origini ebraiche, e se nelle sue vene non scorresse “sangue mongolo”. Il trionfo del NSDAP mise a tacere la stampa di opposizione in tutta la Germania, e per dodici anni di Hitler non si scrissero che elaborate agiografie condite di fanatismo e piaggeria.

 

Durante la seconda guerra mondiale, al personaggio fu sottratto ogni tratto umano: i media angloamericani e sovietici ne restituirono un’immagine demoniaca, il Propagandaministerium (Ministero della propaganda, n.d.A.) di Goebbels ne fece un semidio illuminato destinato all’eternità. Quando, suicidandosi, Hitler abbandonò la cronaca per entrare nella storia, la disciplina storiografica cominciò a dare i suoi giudizi su di lui.

 

Se per Hugh Trevor-Roper (1914-2003) fu un capopopolo sincero e un demagogo ispirato dalle più salde convinzioni personali, secondo Alan Bullock (1914-2004) non fu altro che un saltimbanco, un uomo privo di scrupoli ma pieno di ambizione e intuito. Idealista o opportunista?

 

Lo scontro infiammò i due studiosi negli anni Cinquanta e Sessanta, e ancora oggi il dibattito divide gli esperti. Nel 1973, nel bel mezzo di tale e simili altre controversie accademiche, uscì “Hitler. Una biografia” di Joachim Fest (1926-2006). Rileggerlo oggi significa prendere in mano un vero classico della storiografia. Un volume ponderoso che coniuga l’ambizione al rigore: l’intento di narrare un’esistenza piena di contraddizioni e colpi di scena e lo scrupolo di farlo avvalendosi di una bibliografia sterminata, comprendente documenti ufficiali e innumerevoli opere monografiche su Hitler, la guerra, i fascismi.


Ciò che Fest desidera comprendere è il lato psicologico del nazionalsocialismo: come il suo ideatore lo sviluppò (quanto organicamente?) e come le masse lo percepirono e lo fecero proprio, fino al punto di consegnarvisi o arrendervisi.

 

L’autore perciò ripercorre minuziosamente la vita del dittatore, ritraendo via via un bambino introverso, un ragazzo in lite con il padre, un giovane bohémien, un venticinquenne spiantato e deluso che si fa soldato, un caporale sul fronte occidentale, un reietto, un demagogo, un politico raffinato e finalmente il Führer della Germania, poi tiranno dell’Europa intera.

 

Per chiudere riassumendo con piglio quasi cronachistico il declino rovinoso (e completo: politico, psico-fisico, militare) di un uomo la cui fine ha trascinato nel suo crollo mezzo mondo. In più di novecento pagine emergono così qualità e difetti, virtù e vizi di un personaggio che pazzo non era, ma le cui doti convivevano con un carattere infantile, a tratti volubile, a tratti indiscutibilmente feroce.


Benché nella sua vita abbia imboccato le strade più disparate, rileva Fest, nel suo intimo Hitler rimase sempre l’adolescente che si era tuffato nel mondo di fine Ottocento: “Hitler era una natura profondissimamente arretrata, attaccato alle immagini, alle norme, agli impulsi soprattutto del XIX secolo [...]. Non si sentiva affatto sedotto dalla storia, ma lo era unicamente dalle proprie esperienze formative, dai tremiti di felicità e di angoscia della pubertà”.

 

La crudezza a cui, già cancelliere, ricorreva nelle conversazioni intime vicino al camino dimostra come il suo vocabolario più naturale fosse rimasto quello del giovane accattone; il suo ossessivo odio per gli ebrei, allo stesso modo, rimase sempre fossilizzato all’immagine dei ricordi della gioventù, alle “figure in caffettano” a cui accenna in “Mein Kampf”.

 

Ma l’inossidabile cristallizzazione hitleriana, che lo legava fortemente al diciannovesimo secolo che l’aveva formato, non gli impedì di trascinare la Germania nel ventesimo: travolgendo nel corso della sua dittatura le spoglie dell’Impero tedesco, le sue tradizioni e nello specifico l’influenza del ceto militare aristocratico dei generali prussiani. E, ciò che è più significativo, adeguando le esigenze della politica a quelle della società di massa che si stava facendo largo tra Otto e Novecento.


Agli anni centrali della sua vita, allietati da travolgenti successi ottenuti grazie a uno spiccato senso della realtà e dell’equilibrio delle forze in campo, oltre che al suo intuito vincente, si contrapposero una gioventù e un rapido invecchiamento segnati da un cocciuto allontanamento dalla realtà.

 

Capitò così che lo stanco prigioniero del bunker si dedicasse anima e corpo ai modelli degli edifici che sperava venissero realizzati nella capitale del Reich, esattamente come in gioventù aveva passato le notti a schizzare progetti per abbellire Linz o Vienna; o che si ostinasse a credere in un ribaltamento di fronte e nella vittoria finale mentre già l’artiglieria russa distruggeva Berlino, come quando, confinato ventenne in un ospizio per diseredati, sognava di risiedere in ville magnifiche.

 

Fest evidenzia l’ambivalenza del carattere di Hitler mettendo inoltre a confronto il suo rapporto con la massa e i suoi legami privati: l’idolo incontrastato delle folle tedesche, da queste osannato e inebriato, a tavola o in poltrona era cupo e taciturno, o loquace fino alla logorrea. A pranzo, o i commensali chiacchieravano tra di loro e il Führer si chiudeva in un ostinato mutismo, o questi attaccava con lunghissimi monologhi e tutti gli altri dovevano ascoltare. Insomma, con Hitler non si poteva fare conversazione.

 
Come già accennato, con il suo lavoro Fest sembra deciso, tra le altre cose, a smentire il fortunato luogo comune che pretende che Hitler fosse mentalmente instabile; coloro che seguitano a ripeterlo, sostiene, sono incapaci di coniugare la morale chiaramente corrotta alle capacità e alle doti che il dittatore sfoggiò in varie occasioni prima e dopo lo scoppio del conflitto. Senza contare, poi, che per molti studiosi offrire a Hitler l’alibi della malattia lo solleva da molte responsabilità, alle quali è invece necessario inchiodarlo.

 

Tanto più che secondo la ricostruzione di Fest i famosi accessi di furia, almeno negli anni d’oro tra il 1933 e il 1940, lungi dal tradire la sua instabilità, fossero abilmente inscenati o perlomeno pilotati dall’intelligenza tattica del Führer: “Anche i celebri scoppi di collera di Hitler erano non di rado, con ogni evidenza, manifestazioni volontarie accuratamente dosate. Uno dei più vecchi Gauleiter [funzionari del Partito nazista deputati al controllo dei Länder, n.d.A.] ha lasciato una descrizione di Hitler in preda a un accesso di collera tale che la bava gli colava dagli angoli della bocca lungo il mento, sì da farlo sembrare del tutto fuori di sé dall’ira; e in pari tempo le argomentazioni conseguenti, che continuava a esporre con lucida perfetta continuità, smentivano in pieno l’immagine esteriore”.


Fest dedica poco spazio al culmine della supposta follia hitleriana, alla “soluzione finale del problema ebraico”: lo si può giustificare ammettendo che una trattazione esauriente di tale questione avrebbe fornito materiale sufficiente a riempire un secondo volume, o ancor meglio ricordando come, paradossalmente, l’élite nazionalsocialista che deliberò lo sterminio ne rimase pudicamente alla larga, quasi volesse “lavarsene le mani” una volta ordinatolo: sembra che Hitler non si sia mai recato presso alcun Lager, e che Himmler, alla vista di una fucilazione di massa, si sia sentito male.

 

La biografia di Fest si sofferma anche su queste debolezze: su come Hitler, benché facesse la faccia cattiva, fosse molto più emotivo di un Goering o di un Heydrich, e fosse continuamente sottoposto a stress tali da fiaccarne le energie; o su come a una ricercata freddezza nelle decisioni facesse da contraltare una certa debolezza di nervi e una costante inquietudine.


Alcuni critici hanno individuato nel lavoro di Fest un tentativo malsano di attribuire alla figura di Hitler una forza tale da segnare, da sola, un’epoca: trascurando i fattori che hanno avuto un’influenza determinante sul suo successo, le cui radici erano lontane dalla sua personalità o dal carattere o dalle scelte sue proprie.

 

Sono giudizi taglienti. Ma il libro di Fest si intitola “Hitler: una biografia”, e non può che incentrarsi sul peso specifico del personaggio sulla scena del suo tempo.

 

A ogni buon conto, l’autore è limpido nel riconoscere ai fattori estranei al suo protagonista un’importanza decisiva: “Soltanto una coscienza che abbia volutamente distolto lo sguardo dai mali del suo tempo, potrà definire Hitler il figlio di un’unica nazione, rifiutandosi di riconoscere che in lui ha trovato il proprio culmine una possente tendenza dell’epoca, quella sotto il cui segno si è svolta tutta intera la prima metà del secolo. [...] Per avviarla [l’Europa, N.d.A] verso l’abisso, occorreva l’incomparabile radicalismo di Hitler, le sue visioni, la febbrile certezza della sua missione e, sulla scia di tutto questo, un’esplosione di energie senza precedenti. D’altro canto, è innegabile che, a ben guardare, Hitler non avrebbe potuto distruggere l’Europa senza la cooperazione dell’Europa stessa”.

 

Ecco, forse, il segreto del successo di Fest: gli è bastato raccontare una vita per descrivere, parallelamente, un mondo e un’epoca.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.