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N. 73 - Gennaio 2014 (CIV)

GUERRA SIRIANA
TRA RIVOLUZIONE E QUESTIONE PALESTINESE

di Filippo Petrocelli

 

Il conflitto siriano è molte cose insieme. È una guerra civile fra ribelli e governo di Assad, un conflitto religioso fra sunniti e sciiti, una guerra per procura in cui si scontrano gli interressi dell’asse Siria-Iran- Hezbollah contro quelli di Turchia, Paesi del Golfo e potenze occidentali.

 

In questo bagno di sangue iniziato nella primavera del 2011 sono state trascinate tutte le minoranze nazionali del paese.

 

La Siria infatti è uno degli stati mediorientali in cui è stato più forte il miscuglio di genti, razze, religioni e culture. Un difficile equilibrio che si è incrinato con lo scoppio della guerra che ha costretto, spesso per sopravvivenza, queste comunità a prendere posizione ed a schierarsi.

 

Curdi, Palestinesi, Armeni, Greco-Ortodossi hanno dovuto scegliere, almeno velatamente, da che parte stare. Inizialmente alcune di queste comunità avevano appoggiato le richieste di cambiamento e democratizzazione provenienti dalla cosiddetta “rivoluzione siriana”, ma successivamente, soprattutto in seguito all’egemonia acquistata dai gruppi jihadisti, salafiti e qaedisti ed alla degenerazione in scontro confessionale, queste hanno iniziato a parteggiare per il regime, professando una sorta di “neutralità interessata”.

 

In ogni caso la frammentazione esistente all’interno della Siria si è ripercossa anche internamente alle singole comunità: è possibile trovare lealisti e ribelli persino all’interno della stessa famiglia. Emblematico il caso dei curdi, la più consistente delle minoranze, circa 3 milioni, il 15% della popolazione totale che inizialmente chiedevano a gran voce cambiamento e fine del regime.

 

Oggi invece sono ufficialmente neutrali e il PYD (Democratic Union Party – compagine siriana del PKK) in cambio di un’autonomia della zona a nord della Siria, ha scelto di appoggiare il regime scontrandosi ferocemente contro Jabhat al Nusra, Al-Qaeda ed altri gruppi jihadisti a ridosso del confine con la Turchia.

 

Armeni, Greco-Ortodossi e in generale la maggioranza dei cristiani, sono tradizionalmente più vicini al regime essendo stati coinvolti nella gestione del potere e oggi appoggiano più marcatamente Assad.

 

La comunità palestinese invece resta la più frammentata. Dopo il 1948, circa 500.000 profughi palestinesi sono stati accolti in Siria. La diaspora di questo popolo ha interessato molti paesi arabi ma qui più che altrove, hanno beneficiato di alcuni diritti, contrariamente a Giordania e Libano dove i palestinesi sono stati trattati come cittadini di serie B, subendo discriminazioni e violenze.

 

Il regime baathista degli Assad ha sempre considerato l’appoggio alla causa palestinese come una delle fonti della sua legittimazione ed ha offerto a molte organizzazioni di resistenza - soprattutto quelle antagoniste di al-Fatah e contrarie al processo di pace - libertà di movimento, soldi e uffici a Damasco.

 

Ci sono anche stati momenti di tensione e scontri duri, come la cosiddetta guerra dei campi - uno dei mille rivoli della guerra civile libanese - quando lo spirito di fratellanza tra siriani e palestinesi sembrava annegare nel sangue, ma ancora oggi, questi due popoli si considerano fratelli.

 

Attualmente sono dodici i campi profughi palestinesi presenti in Siria, ed è ancora una volta in mezzo a questi campi, al fango, alla polvere e alle costruzione fatiscenti, che si è consumata la tragedia di questo popolo senza terra, finito schiacciato fra due fuochi: l’esercito siriano ed i ribelli.

 

I gruppi ribelli hanno inizialmente cercato di fare proseliti nei campi palestinesi ed hanno sfruttato questi luoghi come retroterra per le incursioni contro le truppe lealiste, scatenando le rappresaglie dell’esercito.

 

Questo ha generato una forte tensione fra popolazione e gruppi ribelli, aggravata anche da una pesante frattura interna alle organizzazioni palestinesi - pro e contro Assad - che ha favorito la degenerazione ed il proliferare degli scontri. In alcuni campi profughi l’arrivo dei ribelli è stato visto come un’occupazione e spesso alcuni gruppi, soprattutto quelli jihadisti, si sono abbandonati a violenze indiscriminate.

 

Se non c’è certezza di quanti siano i palestinesi oggi in Siria, sicuro è il numero di palestinesi morti dall’inizio del conflitto: 1.800.

 

La posizione ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese rispetto alla guerra civile siriana è di neutralità. La dirigenza palestinese teme che ogni dichiarazione, anche solo verbale, possa avere ripercussioni sul campo. Sebbene Fatah, che resta l’azionista di maggioranza dell’ANP, abbia sempre avuto un rapporto conflittuale con il regime siriano, ha da poco siglato un accordo segreto in cui la leadership palestinese si è impegnata a garantire che nessuna organizzazione sosterrà i ribelli siriani.

 

La realtà sul campo però è ben diversa. Hamas, l’altra metà della società palestinese, si è schierata dalla parte di chi combattente contro Assad, sganciandosi dalla sua storica alleanza con il regime baathista. Il movimento di resistenza islamico aveva le sue basi a Damasco ed ha beneficiato per anni di soldi ed aiuti siriani, ma il fatto che l’ossattura dell’opposizione ad Assad fosse composta da Fratelli Musulmani - di cui Hamas stessa è emanazione - ha imposto ai vertici del partito islamista di fare una scelta di campo netta.

 

Questo ha significato anche beneficiare delle generose sponsorizzazioni del Qatar, che è diventato il nuovo padrino del partito guidato da Khaled Meshal. Tuttavia il movimento resta spaccato perché la sua ala militare, le brigate Izz-al-Din-al-Qassam, vorrebbe riallacciare i rapporti con Hezbollah e l’Iran e tornare quindi ad appoggiare Assad per non perdere la preziosa assistenza militare di Teheran.

 

Il FPLP di George Habbash, la principale organizzazione della sinistra palestinese, ha invece espresso una posizione critica verso i ribelli che considera uno strumento in mano agli imperialisti ed ha quindi scelto una posizione di non ingerenza nelle vicende siriane e una neutralità che favorisce di fatto i lealisti.

 

Stessa posizione attendista assunta dalla Jihad Islamica, che forte delle sue relazioni con Damasco a Teheran, ha optato per non schierarsi, nonostante sia un’organizzazione espressamente islamista.

 

Una costola del FPLP, il FPLP-comando generale di Ahmed Jibril, da sempre su posizioni filo-siriane appoggia senza mezzi termini Bashar Al-Assad combattendo al fianco dell’esercito. Proprio questo gruppo è stato protagonista di una serie di scontri nel campo profughi di Yarmuk, contro miliziani jihadisti.

 

Da quanto al-Nusra e ISIS sono diventati predominanti nello schieramento ribelle, molto palestinesi hanno capito che Assad era il male minore ed hanno fatto fronte comune contro il pericolo di un nuovo Iraq, dove gli odi settari hanno distrutto un paese.

 

Nel complesso esistono quindi diverse posizioni all’interno della resistenza palestinese ma l’atteggiamento che predomina è quello di “neutralità interessata”, che favorisce inequivocabilmente il regime.

 

Unanime è soprattutto la condanna delle ingerenze straniere e almeno in questo la leadership palestinese sembra aver imparato dai suoi errori passati. Troppe volte i palestinesi sono stati il capro espiatorio di guerre che non erano le loro.



 

 

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