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N. 19 - Luglio 2009 (L)

la guerra del futbol

PER UN POSTO AL SOLE... E UNO AI MONDIALI
di Giuseppe Tramontana

 

Dunque, le cose andarono così. Quando il pallone calciato da Wells gonfiò la rete della porta difesa dal portiere Fernandez, Amelia Bolanos, che stava davanti alla tv a guardare la partita, fu sopraffatta dal dispiacere.

 

Così corse al cassetto della scrivania in cui il padre teneva la pistola e si sparò un colpo al cuore. Un modo come un altro per farla finita con quel cane rabbioso che l’aveva azzannata all’improvviso in mezzo al petto.

 

Amelia aveva 18 anni, era salvadoregna e il giorno in cui compì l’insano gesto era l’8 giugno 1969, giorno in cui si giocava l’andata della semifinale tra l’Honduras ed El Salvador.

 

A Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. “La giovane non ha retto al dolore di vedere la sua patria in ginocchio” titolò l’indomani il quotidiano di San Salvador “El Nacional”.

 

E così, la patria grata, le tributò omaggi degni di un’eroina, trasmettendo il funerale in diretta televisiva e proclamando il lutto nazionale. Ma El Salvador, la partita la perse.

 

C’è da dire che quelle erano partite importanti. Almeno per honduregni e salvadoregni.

 

Certo, il resto del mondo probabilmente avrebbe fatto fatica a reperirli sulla carta geografica, questi due paesi. Ma per loro, quella, era l’occasione della vita.

 

L’anno dopo ci sarebbero stati i mondiali in Messico.

 

Ancora gli italiani non sapevano che lì si sarebbe disputata la cosiddetta partita del secolo, cioè Italia-Germania 4-3, ed il Brasile non immaginava, o forse solo lo sperava, di vincere definitivamente la terza Coppa Rimet (battendo in finale proprio l’Italia: 4-1).

 

Non solo. Tutto il mondo civilizzato era con il fiato sospeso per un altro evento davvero epocale. Più ravvicinato nel tempo, ma non nello spazio.

 

L’appuntamento era fissato per il 21 luglio e si trattava nientedimeno che di spedire tre nostri consimili a fare un defilé sulla luna. Niente male, come cosa.

 

Insomma, dell’Honduras e del Salvador, al resto del pianeta, non gliene poteva importare di meno.

 

Durante la fase eliminatoria, le squadre del Centramerica erano state suddivise in quattro gironi di tre squadre ciascuno. Una sola, alla fine, sarebbe andata in Messico.

 

I posti erano due, a dire il vero, ma uno era stato già occupato appunto dalla squadra del paese organizzatore, gli Speedy Gonzalez in maglia verde, appunto.

 

Bene, l’Honduras, nel gruppo 1, fece polpette di Costa Rica e Giamaica: 3 vittorie e un pareggio. El Salvador, nel gruppo 3, pur perdendo una partita, vinse le altre tre e mise in riga Suriname e Antille Olandesi.

 

Gli altri gironi videro la vittoria di Haiti, nel gruppo 2, contro Guatemala e Trinidad e Tobago e Stati Uniti, gruppo 4, contro Canada e Bermude. Si giunse alle semifinali.

 

Ma la questione calcistica era solo l’ultima cicca accesa lanciata nel serbatoio di benzina centramericano.

 

Infatti, tra Honduras ed El Salvador le cose non andavano bene da un po’ di tempo. Dalla metà degli anni ’50 i salvadoregni - un po’ per passione, tanto per miseria, per beata ignoranza, e certamente con divertimento - avevano prolificato come mandrilli.

 

Sicché un decennio dopo il Paese si trovò con un tasso di crescita della popolazione del 3,8%, per un totale di 3,3 milioni di persone su una superficie di circa 21.040 chilometri quadrati, un po’ meno dell’Emilia-Romagna.

 

Ora, considerato che la maggioranza di questa gente era contadina nullatenente e che il governo – dittatoriale – salvadoregno di Fidel Sanchez Hernandez era strettamente collegato ai latifondisti, molti di questi contadini poveri emigravano.

 

Verso dove? Verso l’Honduras, naturalmente.

 

Nel 1967, peraltro, i due governi avevano firmato un trattato per consentire ai salvadoregni di entrare in territorio honduregno e coltivare le terre lasciate abbandonate.

 

300.000 di questi poveretti avevano approfittato dell’occasione. Ma le cose non vanno quasi mai come ci si aspetta.

 

Il governo dell’Honduras, alter ego di quello salvadoregno, dominato dal dittatore Oswaldo Lopez Arellano, salito al potere con non-chalance dopo un colpo di stato, era legato anch’esso ai latifondisti.

 

Ora, se l’emigrazione salvadoregna era provocata dal possesso della terra da parte dei proprietari terrieri, non diversamente accadeva in Honduras, dove il cappio al collo dei contadini lo stringevano gli stessi latifondisti.

 

Honduregni, però. Probabilmente gli honduregni pensavano che, piuttosto che dividere il pane con gli stranieri, era meglio morire per mano di compatrioti. Chissà?

 

Quindi, cos’era successo? Semplice, gli honduregni avevano dapprima mugugnato e poi, tutto considerato, se l’erano presa con apertamente con i salvadoregni.

 

Per carità, l’immigrazione non aiutava certamente. Ma, non è che le loro condizioni fossero tanto migliori prima… Cose che accadono.

 

È come se, per assurdo, la gente se la prendesse con gli immigrati piuttosto che con un governo incapace e favorevole solo ai ricchi.

 

È assurdo che possa succedere. Se non impossibile. Ma a volte è accaduto, accade.

 

Immagina di trovarti in uno stato democratico, occidentale e progredito, che so?, la Svizzera, e di ritrovarti con un governo presieduto da un riccone dal dubbio passato che possiede tutto, proprio tutto, dai centri commerciali alle televisioni, dai giornali alle banche, che si fa le leggi per i comodi suoi, spartisce le risorse tra i suoi sodali, accoliti e lacchè e che deturpa la scuola, la sanità, i trasporti, i servizi assistenziali, la giustizia.

 

Che fa allora? Mica si può dire la verità, che tra l’altro tutti possono vedere.

 

Allora, più o meno surrettiziamente, grazie ai mezzi di comunicazioni accomodanti e controllati pure essi, fa credere alla gente che il vero problema – la causa di ogni disgrazia per i cittadini - non sono lui e la sua banda, ma l’ordine pubblico – ecco la parolina magica: l’ordine pubblico.

 

E quindi gli immigrati che, si sa, dell’ordine pubblico sono i più feroci ed accaniti violatori. Ma queste, si sa, sono solo ipotesi di scuola. Mai potrebbero accadere davvero. Mai in una democrazia sviluppata.

 

Ma, all’epoca, l’Honduras non era né una democrazia né tanto meno sviluppata. E cosa accadde, a questo punto? Semplice: il presidente-dittatore Arellano chiuse le frontiere, cercò di espellere i salvadoregni e fece di tutto per additarli come i veri responsabili della crisi che attanagliava il paese.

 

Che poi l’economia fosse in mano ai latifondisti ed alla cricca del dittatore e che le multinazionali delle banana tipo la United Fruit avessero praticamente instaurato la schiavitù all’interno delle piantagioni, questo non era rilevante.

 

Insomma, il clima era già teso quando il destino mise l’una contro l’altra le nazionali dei due paesi. Come detto, il tiraccio del difensore Leonard Wells, a un minuto dalla fine, aveva regalato la vittoria all’Honduras e la morte ad Amelia Bolanos.

 

Ma, c’era da disputare il ritorno, ancora. Giusto una settimana dopo, il 15 giugno, fu l’Honduras a recarsi a San Salvador, allo stadio Flor Blanca.

 

Così come avevano fatto in occasione della prima partita i salvadoregni, anche i giocatori dell’Honduras arrivarono all’ultimo minuto, per restare il meno possibile in territorio avversario.

 

E così come avevano fatto gli honduregni, durante la notte i tifosi del Salvador fecero di tutto per disturbare il riposo dei giocatori avversari. Con pentole, sassi lanciati alle finestre, clacson e petardi che neanche a capodanno.

 

L’indomani, lo stadio dal suadente nome di Flor Blanca era stragremito. E il Salvador non deluse le aspettative. Sotto gli occhi attenti dell’arbitro antillano Van Rosberg, la squadra di casa andò in vantaggio grazie ad un rigore di Martinez al 27’.

 

Lo stesso Martinez segnò la sua personale doppietta al 41’, nel mezzo il gol del compagno d’attacco Acevedo. 3 a 0 e tutti a casa.

 

Il tecnico degli ospiti, Mario Griffin, dichiarò subito dopo: “I giocatori erano preoccupati di riuscire a uscirne vivi. Per fortuna abbiamo perso.” Contento lui.

 

Ora, c’è da dire che, a quel tempo, il regolamento per le qualificazioni, prevedeva, nel caso di una vittoria per parte, la disputa di una ‘bella’. In campo neutro.

 

Il campo designato fu l’imponente Azteca di Città del Messico.

 

Data della verità: 27 giugno 1969.

 

E, in effetti, alla data stabilita, tutti là si ritrovarono. Comprese migliaia e migliaia di tifosi di entrambe le squadre.

 

Il governo messicano dispose che l’impianto venisse presidiato da 5000 agenti di polizia. Ma, appena dentro lo stadio, le tifoserie riuscirono ad entrare in contatto: l’amore chiama amore, c’è poco da fare….

 

Agli ordini dell’arbitro, il messicano signor Aguilar, le squadre cominciarono con un buon piglio. Si capì subito che l’equilibrio si sarebbe rotto presto.

 

Ed infatti, dopo dieci minuti, il solito Martinez portò in vantaggio i salvadoregni.

L’entusiasmo durò solo nove minuti.

 

Al 19’ il centravanti honduregno Cardona fece vedere i sorci verdi a metà difesa avversaria e siglò il pareggio: 1-1.

 

Poco male: dieci minuti dopo ancora Martinez portò in vantaggio il Salvador: 2-1.

 

Probabilmente, negli spogliatoi, il ct salvadoregno Carrasco – visto che era in vantaggio - disse ai suoi di amministrare la gara con giudizio, senza strafare. Infatti, la sua squadra sembrò scendere in campo un po’ mogia, guardinga, come in attesa di qualcosa.

 

E quel qualcosa arrivò puntuale. Glielo regalò al 50’ la mezzala honduregna Gomez: 2-2.

 

Il resto della gara scivolò via con poche emozioni. Si andò ai tempi supplementari. Ed al 101’ l’ala destra salvadoregna Quintanilla fece piangere Varela, il portiere avversario. 3 a 2.

 

E Salvador in finale. Tutto facile? Macchè.

 

Al fischio dell’arbitro, migliaia di tifosi honduregni si scatenarono contro quelli del Salvador e contro la polizia che tentava di contenerli. Il fuoco divampò anche fuori dalla stadio, investendo la capitale messicana, trasformata in un teatro di guerriglia. Nel giro di poche ore i palazzi del potere dei due Stati seppero tutto e pensarono al mezzo più idoneo per stemperare le tensioni: la guerra.

 

Quando ci sono in giro certe teste, dure e grossolane come granito, c’è poco da fare.

 

E solitamente certe teste ce le hanno coloro che sono convinti di avere sempre ragione e di poter risolvere le questioni con la forza. Se, poi, si è anche dittatori semi o totalmente fascisti, si capisce anche perché si abbiano certe teste.

 

Insomma, la cosa finì male. Il 14 luglio, senza nessuna dichiarazione di guerra, e dopo quasi un mese di campagna di stampa denigratoria contro il paese vicino, il Salvador iniziò le operazioni militari, motivandole con la necessità di difendere i propri cittadini ed i propri confini (per i salvadoregni, infatti, quella è nota ancor oggi come “guerra de legittima defensa”).

 

Le forze in campo, numericamente, non erano di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Il Salvador disponeva di 14 aerei da combattimento, 3 brigate di fanteria e poco altro, comprese 4 navi guardia costa con un equipaggio di quasi 400 membri.

 

L’Honduras poteva contare su 3 battaglioni di fanteria, una marina con 150 marinai e 4 navi di media stazza, ed il fiore all’occhiello che erano 2 batterie di obici da 75 mm. Disponeva, poi, di un centinaio di piloti, ma con soli 12 aerei da combattimento.

 

Ma ciò che fece pendere l’ago della bilancia a favore del Salvador fu certamente l’effetto sorpresa.

 

Gli aerei di Sanchez Hernandez bombardarono le isole honduregne del Golfo di Fonseca, una bomba fu sganciata persino su Tegucigalpa.

 

La sera del 15 luglio le truppe salvadoregne penetrarono per 8 chilometri in territorio dell’Honduras: se avessero continuato con quell’andatura, nel giro di un paio di giorni si sarebbero ritrovate sotto le palme dei Carabi.

 

L’Honduras, da parte sua, dopo lo sbandamento iniziale, reagì vigorosamente andando a bombardare i centri industriali del nemico, colpendo in particolare le industrie belliche che, così, non potevano rifornire quello stesso esercito invasore che sciamava in territorio honduregno.

 

L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), sempre il 15 convocò d’urgenza una sessione per avviare i necessari negoziati.

 

Il Salvador non voleva sentirne: l’Honduras avrebbe dovuto riparare ai torti compiuti verso gli immigrati salvadoregni. Aveva cominciato lui in fondo. Uno Stato – quello honduregno - in mano ad una dittatura, stritolato dai latifondisti e (accusavano i salvadoregni) sostenuto dal destabilizzatore comunista Fidel Castro!

 

L’Honduras, da parte sua, riteneva se stesso il vero aggredito. Ingiustamente e proditoriamente aggredito. A suo dire, avrebbe dovuto essere il Salvador a risarcire i danni, rispondere delle vittime causate e magari chiedere scusa. Il vero colpevole era il Salvador, uno Stato in mano ad una dittatura, stritolato dai latifondisti e sostenuto, lui sì, da quel comunista sobillatore di Fidel Castro.

 

Bene, fu come fu, il 18 luglio l’OSA impose il cessate il fuoco. Ma i diretti interessati non se ne diedero per intesi. Il 20, dopo che l’ultima incursione aerea salvadoregna era stata contrastata efficacemente dalla contraerea nemica, l’Alto Comando di San Salvador ordinò di arrestare l’avanzata. Il suo esercito rimase a fare scampagnata in territorio honduregno fino al 29: ci vollero, infine, le pressioni dell’OSA affinché ritornasse ordinatamente in patria.

 

La guerra finì, ma gli strascichi si protrassero per molto tempo. Solo nel 1980 i due paesi firmarono la pace, mentre si dovette attendere il 1992 perché la Corte Internazionale di Giustizia dirimesse la controversia riguardante i provvisori confini tra i due Stati.

 

Così fu. E pensare che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi.

 

E il calcio, allora? Può essere un’opportunità.

 

Almeno per risolvere qualche questione in sospeso.

 

Ad esempio, avete presente l’Istria? Non avrebbe dovuto essere italiana dai tempi del trattato di Versailles?

 

Bene, oggi è croata. Chissà, magari per le prossime qualificazioni ai mondiali – o agli europei – la Croazia potrebbe far parte dello stesso girone dell’Italia… che ne dite, eh?

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

R. Kapuscinski, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Feltrinelli, Milano, 2002.

E. Galeano, Memoria del fuoco. Il Secolo del Vento, Rizzoli, Milano, 2001.

D. Pompejano, Storia e conflitti del Centramerica. Gli stati d’allerta, Giunti, Firenze, 1991.



 

 

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