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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

L'era dei massacri e la tregua breve - Parte II
di Cristiano Zepponi

 

Gli anni immediatamente precedenti lo scoppio del conflitto furono caratterizzati da una climax ascendente di incidenti di frontiera, minacce, dicerie e discorsi bellicosi, oltre che da una buona dose di fatalismo; la vecchia Europa correva veloce, con rassegnazione, verso il disastro: “La Francia non vuole la guerra” diceva il presidente francese Poincarè “ma neppure la teme”. E per dimostrarlo, il suo Paese prolungò a tre anni la ferma militare, nel tentativo evidente di raggiungere la parità numerica con i rivali tedeschi.

Proprio per questo il colonnello House, uomo di fiducia del presidente americano Wilson, lasciò Berlino “con la convinzione che i militari fossero decisi ad approfittare della prima occasione favorevole per scatenare un conflitto e avrebbero costretto il Kaiser ad abdicare se si fosse opposto ai loro desideri” (B.H. Liddell Hart, “La prima guerra mondiale, 1914-1918”, pag. 40).

Era questo il clima che si viveva già da anni, specie al confine austro/serbo. L’endemico malcontento dei sudditi serbi e croati e della minoranza rumena in Transilvania preoccupava da tempo, e non poco, la dirigenza austro-ungarica, già alle prese con un evidente declino politico, economico e militare: e quel residuo del feudalesimo si stava da tempo consumando da sé, smembrato dalle spinte autonomistiche del mosaico di nazionalità che conteneva e dominava.

Per questo, nei circoli influenti di Vienna, si parlava con sempre maggior forza di usare la forza, o quel che ne rimaneva, per eliminare il problema alla radice, unitamente all’idea di impiegare lo stesso metodo contro lo stato straniero che faceva da punto di raccolta, morale ed attivo, di tutte le forze di opposizione interne: la Serbia.

Allo stesso modo la Russia e la Germania, alle prese la prima con decennali disordini popolari (la rivoluzione del 1905 era un ricordo fresco) e la seconda con le grandi manifestazioni anelanti al suffragio universale, guardavano allo scontro come valvola di sicurezza per sfogare le tensioni interne.

La scintilla incendiò la polveriera un giorno d’estate, il 28 giugno 1914, a Sarajevo, capitale della Bosnia amministrata dall’Austria a partire dal Congresso di Berlino del 1878. Per ironia del destino i nazionalisti slavi che attentarono alla vita dell’arciduca Francesco Ferdinando riuscirono ad uccidere l’unico austriaco autorevole che stesse dalla loro parte, e che sognasse un legame federativo tra i popoli dell’Impero asburgica.

Ma poiché volevano assassinare un simbolo, non si curarono d’altro.

I giovani cospiratori si avvalsero dell’aiuto della “Mano Nera”, società segreta formata in gran parte da ufficiali dell’esercito serbo che, a quanto si disse, annoverava tra i suoi membri le guardie di confine che, allertate del pericolo, chiusero un occhio complice sul pericolo.

Allo stesso modo sembra che anche le autorità austriache fossero state avvisate; ma manifestarono un’incredibile negligenza nella protezione dell’arciduca. Si distinse in negativo Potiorek, governatore militare della Bosnia e futuro comandante dell’offensiva contro la Serbia, che “non avrebbe potuto fare di più per agevolare il compito degli assassini se fosse stato loro complice; e ciò induce a sospettare che in realtà egli lo fosse” (B.H. Liddell Hart, op.cit., pag. 41).

Fallito il primo tentativo, mentre l’arciduca si avvicinava al municipio, riuscì il secondo, facilitato dalla negligenza di Potiorek che fece in modo che l’auto si fermasse durante il percorso. Due colpi spezzarono la vita dell’arciduca, e di buona parte d’Europa. Francesco Ferinando morì alle 11.

La Serbia aveva tutto l’interesse a mantenere la pace, calcolando che doveva consolidare i guadagni delle guerre balcaniche e, soprattutto, rimaneva largamente inferiore al potenziale avversario sul piano militare. Ma la stampa nel Paese fece ben poco per dissimulare il proprio compiacimento, al contrario di ciò che accadeva negli stessi giorni nel resto del continente, mentre il governo mantenne una posizione stranamente apatica, senza premurarsi di svolgere od organizzare un indagine.

Ugualmente lenta fu l’inchiesta della polizia austriaca, guidata da Wiesner; e questi, dopo due settimane, riferì che mentre appariva chiara la complicità di funzionari e gruppi serbi, non sussisteva “alcuna prova della complicità del governo serbo…Al contrario, esistono elementi che inducono a ritenere che esso sia totalmente estraneo alla questione”.

L’Austria colse al volo l’occasione di risolvere il problema alla radice: il giorno dopo l’attentato, il conte Berchtold, ministro degli esteri asburgico, dichiarò al suo Capo di Stato maggiore generale Conrad von Hötzendorf che “era venuto il momento di sistemare la Serbia una volta per tutte”; ed è facile immaginare come queste parole suonassero dolci alle orecchie del vecchio soldato, che le aveva proferite più volte.

Ma l’Austria sapeva che qualsiasi iniziativa necessitava dell’appoggio dell’alleato germanico per controbilanciare la forza della potenza più influente nei Balcani: “Prima di tutto dobbiamo chiedere alla Germania se è disposta a guardarci le spalle contro la Russia”, rispose infatti Conrad al conte.

La Germania, allo stesso modo, non necessitava di appelli come quelli inviati dall’imperatore austriaco, per schierarsi; ignorando allegramente gli appelli scritti dell’ambasciatore tedesco Tschirschky agli austriaci, affinché pesassero bene i pro e i contro di un conflitto, il Kaiser, dopo averlo apostrofato con parole dure, scarabocchiò una nota sul documento diplomatico: “Noi dobbiamo sbarazzarci dei Serbi, e subito”.

Forse per amicizia personale con il conte assassinato, forse per non essere tacciato di debolezza, forse per fedeltà all’alleato, il 5 luglio garantì all’ambasciatore austriaco, il conte Hoyos, che il suo Paese poteva “contare sul completo appoggio della Germania […] se si arrivasse a una guerra tra Austria-Ungheria e Russia, l’Austria può essere certa che la Germania si schiererebbe al suo fianco”. Diede così carta bianca ad un branco di guerrafondai in declino.

La Germania si sentiva pronta per una guerra, mentre riteneva che la Russia, alle prese con la mobilitazione di un mastodontico apparato militare, non lo fosse; o almeno questo pensava il Kaiser, che, per non dare nell’occhio, partì il 17 per una visita in Norvegia già stabilita, non senza aver attuato una serie di misure precauzionali.

Ma i venti di guerra cominciarono a soffiare sempre più forti: “Io resterò qui, pronto al gran balzo; siamo tutti pronti” disse il vice capo di Stato maggiore tedesco, Waldersee, in quei giorni. Al tempo stesso, la Germania si mosse per assicurarsi l’appoggio di Bulgaria, Romania, Turchia e soprattutto Italia, cui gli austriaci avrebbero dovuto offrire un buon prezzo. Ma questi erano impegnati soprattutto nei preparativi: “Bisogna simulare intenzioni pacifiche”, disse Conrad.

La guerra, per alcuni, era già decisa.

L’ultimatum da presentare alla Serbia fu oggetto di molte discussioni: per assurdo, ci furono difficoltà nel trovare clausole tanto esagerate da risultare inaccettabili. “Un successo diplomatico non servirebbe a niente” fu la risposta di Berchtold alle timide voci degli oppositori, “la Germania non capirebbe una nostra eventuale negligenza nel lasciarci sfuggire questa occasione per sferrare un colpo”. L’Austria, ormai, era in gioco, e con essa la Germania: nessuno poteva più arrestarsi.

L’ultimatum, comunque, riuscì nell’intento di dimostrarsi inaccettabile: la Serbia avrebbe dovuto non solo reprimere ogni forma di propaganda anti-austriaca, ma anche subire l’imposizione da parte del potente vicino di propri funzionari in Serbia, esonerando a propria discrezione, se necessario, qualsiasi funzionario serbo.

Il termine posto fu di 48 ore.

Prospettando la perdita della sovranità e dell’indipendenza serba, e superando a dire il vero la soglia della decenza, le richieste asburgiche furono come un fulmine a ciel sereno per i dirigenti dello Stato balcanico: il primo ministro serbo, al momento della consegna (le sei del mattino del 23 luglio), risultava addirittura assente. E così l’ambasciatore russo a Vienna, rassicurato dalle dichiarazioni distensive degli Imperi centrali.

Ma qualcuno, in Austria, sembrava rendersi conto di ciò che il documento significava: “La Russia non può accettarlo…Ciò significa una guerra generale”, osservò profeticamente il vecchio imperatore.

Il giorno seguente, senza neanche aver preso visione del testo, il governo tedesco, manifestando la consueta incapacità negli affari diplomatici, inviò note a S.Pietroburgo, Londra e Parigi in cui difendeva le richieste dell’alleato (“moderate e giuste”), proferendo vaghe minacce di “incalcolabili conseguenze” in caso di eventuali interferenze, da una parte suscitando viva indignazione, e dall’altra spingendo i tre Paesi uno nelle braccia dell’altro.

Due minuti prima della scadenza dell’ultimatum, la Serbia rispose: senza leggerla, l’ambasciatore austriaco ruppe le relazioni diplomatiche e lasciò Belgrado.

Fu a quel punto che la Germania si rese conto che andava incontro ad una grossa sconfitta morale, nell’opinione pubblica: quando cioè ci si accorse che la Serbia aveva accolto tutte le richieste austriache, eccetto quelle che ne violavano platealmente la sovranità nazionale. “Se l’Austria continua a respingere ogni proposta di mediazione o di arbitrato, agli occhi del popolo tedesco il biasimo generale per la responsabilità di una guerra mondiale ricadrà sul governo tedesco”, dato che, stando così gli eventi, “svanisce ogni pretesto per una guerra” secondo il Kaiser. Ma gli eventi avevano accelerato, e la Germania era rimasta indietro. Il 23 era già cominciata una parziale mobilitazione in Austria, Serbia e Russia, il 24, dopo la nota tedesca, la Russia aveva già incassato l’appoggio francese, e la Gran Bretagna si affrettava a fare lo stesso.

L’ultimo tentativo di evitare la guerra fu attuato dal gabinetto inglese, incerto sulla posizione del gabinetto e dell’opinione pubblica inglese, e preoccupato di favorire gli ambienti guerrafondai in caso di appoggio diretto a Russia e Francia. Prima, il 24, il ministro degli esteri Grey tentò di prorogare l’ultimatum attraverso Berlino, da cui non ricevette il benché minimo appoggio: ed il tentativo fu immediatamente respinto da Vienna. Nei giorni seguenti avanzò proposte nella direzione di una mediazione congiunta (Germania, G.B., Francia, Italia): forse, osservando i tentativi di pacificazione anglosassoni, il Kaiser ritenne che la Gran Bretagna avrebbe optato per la neutralità. Ma sbagliò i suoi conti.

Il governo tedesco passò quindi le proposte inglesi all’Austria, ma specificò anche che “non ci si identifica affatto, ma al contrario si oppone decisamente a che vengano prese in considerazione; ce le comunica soltanto per dare una soddisfazione agli inglesi…Il governo tedesco si comporta in questo modo perché ritiene della massima importanza che per il momento l’Inghilterra non faccia causa comune con Russia e Francia”, secondo le parole dell’ambasciatore austriaco.

Alle 11 del mattino del 28 luglio 1914 la dichiarazione di guerra austriaca fu consegnata alla Serbia, dopo essere stata firmata dall’imperatore, convinto da Berchtold che le truppe asburgiche fossero state attaccate (naturalmente, non era accaduto nulla di simile). Nonostante essa andasse contro ogni dettame militare (l’esercito non sarebbe stato pronto prima del 12 agosto), i segnali provenienti dalla Germania incitarono all’immediata apertura delle ostilità, nella paura che il grande alleato facesse marcia indietro.

Da quel momento, entrarono in scena i generali, il cui solo pensiero era quello di mettere in moto le loro pachidermiche macchine belliche, per guadagnare qualche secondo o qualche ora. Inderogabili “necessità militari” impedirono qualsiasi serio tentativo di pacificazione, in ogni Paese: prima in Austria e Germania, dove la guerra vinse attraverso l’inganno; poi in Russia, dove lo Stato Maggiore generale decise autonomamente di obbedire solo al secondo di due ukase dello Zar, quello di mobilitazione generale, ignorando l’altro, di mobilitazione parziale, nonostante gli sforzi di Sazanov, ministro degli esteri.

Qui il parere dei militari finì come sempre per essere rinforzato dalla miopia tedesca: un messaggio recapitato proprio a Sazanov, il 28, specificava che “se la Russia continuerà ad attuare le sue misure di mobilitazione anche la Germania mobiliterà, e mobilitazione significa guerra”, concludendo poi candidamente: “Non si tratta di una minaccia, ma di un parere amichevole”. Peccato però che in Russia lo considerasse assai più simile ad una minaccia persino Sazanov.

I colloqui che la Germania instaurò frettolosamente con la G.B., temendo che l’avventatezza austriaca gli costasse la neutralità inglese e l’alleanza italiana, naufragarono presto. L’offerta tedesca di barattare la neutralità inglese con la rinuncia al territorio francese (ma non alle colonie..) fu rifiutata; e se miglior sorte sembrarono avere i contatti con lo Zar, in cui il primo proponeva di “deferire la vertenza austro-serba alla Corte dell’Aia”, il solito commento a fianco del Kaiser (“Sciocchezze”) dimostra quanto anche questi tentativi fossero improbabili.

A partire dal 30 luglio, come previsto, la voce delle armi fu l’unica ascoltata, ed i pezzi di carta tra gli statisti persero definitivamente ogni valore: in Germania, il capo di Stato Maggiore Moltke scrisse ai suoi colleghi austriaci di “declinare le nuove proposte della G.B. per il mantenimento della pace. Una guerra europea è l’ultima possibilità che si offre per salvare l’Austria-Ungheria. La Germania è pronta a sostenere l’Austria senza riserve”. Non pago, scrisse ancora: “Mobilitate subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Convincete l’Italia, offrendole un compenso, a fare il suo dovere di alleata”.

Ancora, due ultimatum furono inviati a Russia e Francia.

Nel primo si chiese quale posizione avrebbe assunto il Paese in caso di guerra russo-tedesca. Nel caso fosse stata disponibile ad una neutralità, avrebbe dovuto fornire alla Germania l’inaccettabile garanzia delle fortezze di Verdun e Toul. Avendo la Germania preparato per decenni una guerra su due fronti, bisognava a tutti i costi accertarsi che ciò avvenisse per non modificare il progetto originario: nella sua demenza, il ragionamento aveva un senso.

Il 1° agosto la Francia rispose che “si sarebbe comportata in modo conforme ai propri interessi”, ordinando la mobilitazione.

Oculatamente, però, le forze di frontiera erano state ritirate di 10 km già dal 30, con il duplice scopo di evitare incidenti di frontiera (altamente probabili quando si vuole giustificare un conflitto) e di manifestare buona volontà; perciò, il 3 agosto, al momento della dichiarazione di guerra tedesca, la Germania non potè addurre altri motivi all’aggressione rispetto al fatto che un aviatore francese “aveva sganciato bombe sulla linea ferroviaria in prossimità di Karlsruhe e Norimberga” (!).

Nel secondo invece si imponeva di sospendere qualsiasi preparativo bellico entro dodici ore. Sazonov, e lo Zar, risposero che non era tecnicamente possibile (“necessità militari”..), ma che non avrebbero attaccato fino alla conclusione dei negoziati.

Scaduto il termine, nel tardo pomeriggio del 1° agosto, la Germania consegnò però la sua dichiarazione di guerra alla Russia; “Bisogna sfruttare la situazione insolitamente favorevole per colpire”, aveva sentenziato Moltke, senza specificare quali elementi lo inducessero a valutare positivamente il quadro, e neanche il Kaiser poteva ormai fermarlo.

L’indecisione in cui versava il gabinetto inglese, e che causava tanti timori in Francia, fu risolta dall’ennesimo disastro diplomatico tedesco: in linea con n piano di guerra vecchio di decenni, un ultimatum con la richiesta di diritti di passaggio per le proprie truppe fu presentato dai tedeschi al Belgio la sera del 2 agosto. Di fronte al rifiuto categorico del governo belga, l’invasione cominciò il 4.

La Gran Bretagna presentò lo stesso giorno un ultimatum, l’ennesimo, in cui si ingiungeva il rispetto della neutralità belga, accolto con sorpresa dall’ambasciatore tedesco Bethmann-Hollweg che non riteneva ciò possibile “proprio per un pezzo di carta”.

“Per un pezzo di carta”, quando l’ultimatum scadde, ovvero alle 11 di sera del 4 agosto 1914 la Gran Bretagna entrò in guerra.

“I lampioni si stanno spegnendo su tutta l’Europa”, disse Edward Grey, ministro degli esteri inglese mentre osservava le luci di Whitehall quella notte, “Nel corso della nostra vita non le vedremo più accese”.


 

 

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