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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

L'era dei massacri e la tregua breve - PARTE I
di Cristiano Zepponi

 

Il primo a coniare la definizione che fa da titolo a questo lavoro è stato uno dei più grandi storici del secolo: Eric J. Hobsbawm, nel classico “Il secolo breve” (titolo originale: “Age of Extremis; the Short Twentieth Century 1914-1991”); con essa, lo studioso tedesco intendeva tracciare una cesura notevole, e non solo cronologica, tra l’inizio di quella che chiamiamo Prima guerra mondiale e la fine della Seconda, all’ombra del fungo atomico. In pochi anni, nel corso quindi di una sola generazione, l’umanità intera conobbe tanti e tali cambiamenti da doverli isolare dalla fase precedente, che assunse allora il valore di un ricordo vago, idealizzato e perfetto, riassumibile con una sola parola: pace.

Non che i decenni, ed i secoli precedenti, non avessero conosciuto conflitti, più o meno vasti e crudeli: e questi a volte comportarono massacri e distruzioni perfettamente all’altezza di quelli novecenteschi: trecento anni prima la “guerra dei trent’anni” causò la scomparsa anche di un terzo della popolazione, in alcune regioni tedesche. Ma un elemento fondamentale era variato, tra le pieghe del tempo: la guerra, diversamente dalle precedenti, cominciò ad avere allora obiettivi illimitati. Fu questa l’epoca della guerra totale (con l’appendice della “resa incondizionata”). Non si trattava dunque più dell’Alsazia-Lorena, o del predominio marittimo, di qualche fazzoletto di terra in Friuli o degli arcipelaghi hawaiani.

A questi elementi, in più, vanno aggiunte altre considerazioni: cominciarono infatti ad assumere un ruolo centrale le ideologie (anche se in misura incomparabilmente maggiore dopo la “grande guerra”) degli attori in campo. Nonostante il declino della storiografia marxista, che in questi anni viene attaccata oltre i propri limiti, è opportuno rilevare come i tre maggiori attori mondiali abbracciassero sistemi politici e culturali differenti, e inconciliabili: il comunismo sovietico in URSS, il capitalismo individualista negli USA, il nazionalsocialismo in Germania.

Ne è prova l’assurda ostinazione di Hitler, negli ultimi giorni, nell’attesa che crollasse l’”innaturale alleanza” dei suoi maggiori avversari.

Il mondo che si avvicinava allo scontro, quasi con leggerezza, veniva da quasi duecento anni di progresso ininterrotto, e senza precedenti nella storia dell’umanità, che autorizzava ogni speranza nel futuro.

La Gran Bretagna, innanzitutto, rimase ai vertici della tecnologia, e della ricchezza, per tutto questo periodo: nel 1750 il suo reddito pro-capite era quattro volte superiore a quello dell’India della metà del ‘900, due secoli dopo. Il Paese beneficiava dell’accumulo di ricchezze dal Medioevo, di una situazione politica favorevole all’iniziativa individuale (la testa di Carlo I cadde molto prima di quella di Luigi di Francia..), di una classe dirigente ormai egemonizzata da una borghesia dinamica, e attiva, di una produzione agricola che permetteva il sostentamento del nascente apparato industriale. Ma tra 1850 e 1870, nel corso di quella che in seguito è stata battezzata II rivoluzione industriale, alcune nazioni occidentali cominciarono a raggiungere lo stesso livello di sviluppo e benessere, grazie a tre nuovi settori merceologici: acciaio, elettricità, chimica pesante. Da una prospettiva di libera concorrenza tra piccole industrie, per lo più a conduzione familiare, si giunse ad una suddivisione oligopolistica della produzione. Perse così di valore il mercato (“la mano invisibile”), spartito tra cartelli, trusts, organizzazioni verticali e orizzontali.

I nuovi Paesi si fecero così avanti, mettendo sul piatto la loro giovane intraprendenza: la neonata Germania, in particolare, arrivò in fretta a vantare forni grandi una volta e mezzo quelli inglesi, e passò da una produzione d’acciaio inferiore della metà (nel 1870) a superiore del doppio (nel 1910); oltre a ciò, i suoi prodotti divennero molto più competitivi, con prezzi inferiori mediamente del 20/25% rispetto ai “vecchi” rivali. Proprio in questo periodo, al contempo, la Germania Guglielmina cominciò a sviluppare la convinzione di essere privata dello “spazio vitale” (a livello di sbocchi commerciali, mercati, materie prime) da parte di una società capitalistica più matura (già spostata sul terziario, sulla finanza, sulle assicurazioni, sulla marineria) preoccupata di difendere il suo status.

Oltre a questa, gli USA, usciti dal loro più grande trauma collettivo prima di Pearl Harbour, ovvero la Guerra Civile; il Giappone dei militari; ed un folto gruppo di altri Stati (“ritardatari”) tra cui quelli del Nord Europa, e poi Russia, Francia, Italia, Austria.

A questo quadro si aggiunse allora la rivoluzione dei trasporti, in particolare navali e ferroviari; e da ciò derivò la crisi agraria, con cui ancora oggi conviviamo, per la concorrenza feroce dei grani russi e americani, ormai a costi accessibili. Insieme al contemporaneo fenomeno della modernizzazione, ciò comportò un notevole incremento dell’instabilità sociale, soprattutto nelle campagne, sostenuta dalle prime associazioni di mutuo soccorso, agrarie ed operaie, e dalla diffusione delle ideologie socialiste, nelle sue differenti interpretazioni nazionali.

Il quadro internazionale si frammentò, totalmente: le relazioni internazionali si fecero più complesse, avvolte in clima di sfiducia e accompagnate dallo sviluppo della scienza biologica evoluzionista, con principi traducibili nella formula della “lotta per la sopravvivenza”, a livello individuale e collettivo.

In questo caso, mutuando una definizione rinomata, “la guerra fu la prosecuzione dell’economia con altri mezzi”, dato il ruolo centrale ricoperto dall’agguerrita concorrenza economica nella diffusione di un’atmosfera di terrore, e reciproco sospetto: “Non avevamo alcuna intenzione di fare una politica estera aggressiva” scrisse Von Bülow, cancelliere tedesco del periodo, “Volevamo soltanto proteggere i vitali interessi da noi acquisiti nel mondo nel corso naturale degli eventi”.

E’ certo che nessuna potenza, prima del 1914, avrebbe desiderato un conflitto, seppur locale, con altre grandi nazioni, e lo dimostrarono ampiamente tutti gli accomodamenti, a partire dal Congresso di Berlino del 1878, sulle sorti dei deboli (e “pittoreschi”) Paesi africani ed asiatici. Francesco Giuseppe, annunciando la guerra ai suoi sudditi, nel 1914, si espresse chiaramente: “Ich habe es nicht gewollt”, “Io non l’ho voluta”.

D’altra parte, dal 1815 non c’erano state guerre che avessero coinvolto tutte le grandi nazioni europee, e dal 1871 non si registravano scontri tra le potenze del Continente.

Anzi, a fine secolo il timore della guerra diede origine ai Congressi Mondiali della Pace (il 21° si sarebbe dovuto svolgere a Vienna nel settembre 1914), ai premi Nobel per la pace (1897), alla prima conferenza della Pace dell’Aia (1899).

Solo in pochi, nel campo della fanta-narrativa, arrivavano ad immaginare la possibilità di un conflitto futuro; oltre a loro, solo Friedrich Engels aveva analizzato la possibilità di una guerra mondiale, a differenza di Nietzsche che plaudiva alla crescente militarizzazione dell’Europa e profetizzava una guerra che dicesse “sì al barbaro e anzi alla belva che è dentro di noi”.

Ad un certo punto, specialmente dopo il 1910, la guerra sembrò però così inevitabile, che ognuno ritenne di dover almeno scegliere il momento più opportuno per la propria “volontà di potenza”, e l’unico dubbio riguardò solo la scintilla scatenante.

Gli eserciti, allora, avevano una “funzione prevalentemente civile” (Hob., “l’Età degli Imperi”, pag. 348): la leva era diffusa tra tutte le potenze (escluse quelle anglosassoni), nonostante le classi dirigenti fossero piuttosto restìe ad armare proletari potenzialmente rivoluzionari. E serviva ad assicurare l’obbedienza e l’entusiasmo di tutti coloro i quali avrebbero potuto essere traviati dai neonati movimenti di massa, allietandoli con le onnipresenti sfilate militari.

Per Tuchman “i generali combattono sempre la guerra precedente”; ed infatti, con lungimiranza, si dedicarono per lo più allo studio di campagne brevi, d’impostazione napoleonica, preparando psicologicamente la popolazione ad un clima favorevole allo scontro. E la voce degli armaioli, ed il conseguente spaventoso accumulo di materiali militari, fecero la loro; finché ci fu un momento in cui la gara degli armamenti impedì di recedere dal conflitto, e formò una voragine in cui tutto cadde, per forza d’inerzia.


Spesso la cultura si è schierata, compatta, contro la guerra, come nel recente caso iracheno. Ma allora non fu così: prese il via anzi una rivolta generazionale contro la classe dirigente liberale (in Italia, Giolitti), e contro l’ottocento stesso. Quando scesero in piazza, a migliaia, i giovani universitari credevano di opporsi ad un mondo considerato statico, borghese, individualista, inneggiando alla guerra idealizzata, eroica, comunitaria.

“Noi vogliamo la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore” (F.T. Marinetti, Manifesto del futurismo, 1909) .

Tentarono, in breve, di soppiantare una classe dirigente vecchia, proponendosi come nuova elìte di governo, giovane e nazionalista; lo sterminio di questi ragazzi, delle loro abilità, accelerò il declino del Vecchio Continente.

La prima grande crisi si ebbe ai confini dell’Europa, nei Balcani, con l’insurrezione anti-turca della Bosnia-Erzegovina. La citata Conferenza di Berlino del 1878, cui parteciparono Germania, Austria, Inghilterra, Turchia, Francia, Italia, riuscì per un po’ a rasserenare gli animi: la “Grande Bulgaria” fu privata della Macedonia e dei territori prossimi a Costantinopoli, assegnati alla Turchia, e divisa tra un principato autonomo e tributario (la Bulgaria propriamente detta) a nord, e la Rumelia orientale, sotto l’autorità politica e morale del Sultano; la Macedonia rimase turca, la Bosnia-Erzegovina rimase sotto dominio turco ma fu, di fatto, occupata e amministrata dall’Austria-Ungheria; fu inoltre riconosciuta l’autonomia di Romania, Serbia e Montenegro, accresciuto di Antivari e del suo litorale; la Russia riconquistò la Bessarabia e la riva sinistra del delta del Danubio dalla Romania, cui furono cedute le isole nel delta stesso e la Dobrugia; gli stretti (Dardanelli e Bosforo) furono chiusi alle marine da guerra. In breve ne beneficiarono molto Inghilterra (che aveva precedentemente ottenuto Cipro) ed Austria-Ungheria, molto meno l’Italia.

Ne derivò che l’Austria andò avvicinandosi sempre più alla Germania, la Russia insoddisfatta alla Francia.

Si proseguì poi con lo scramble of Africa, l’assalto all’Africa, colmo di sperequazioni nella divisione dei territori potenzialmente forieri di gravi conseguenze: nell’ultimo decennio dell’Ottocento l’Impero britannico acquisì 5 milioni di miglia quadrate, la Francia 3 milioni e mezzo, l’Italia (Libia, Dodecaneso) e la Germania (Tanganika, Togo, Camerun) avviarono un’opera di colonizzazione tardiva.

L’atteggiamento comune alla vecchia Europa si potrebbe definire la “cultura della differenza”: la Russia si adeguò in fretta a questo clima, rimilitarizzando il Mar Nero prima di ricevere l’approvazione internazionale e vivendo lo sviluppo del panslavismo, un movimento di pensiero atto a segnalare le divergenze con l’Europa occidentale in genere, ed il modello tedesco in particolare. E la Francia, preoccupata dall’ingombrante vicino e tesa nella sua parte di “paladina della cristianità”, visse un rigurgito di nazionalismo frustrato, in attesa dell’occasione opportuna; l’Inghilterra, già negli anni Settanta, passò ad una politica di “splendido isolamento” dagli affari del continente europeo, voltando piuttosto lo sguardo ai territori sotto la sua diretta sovranità. Il suo passaggio all’imperialismo, a differenza degli altri casi, fu quindi piuttosto “armonico”, e naturale; la Germania abbracciò un pangermanismo derivante dal suo indubitabile primato; e l’Italia sviluppò un protonazionalismo (“nazionalismo della povera gente” per Robert Michels) accennato, ma visibile, verso il Mediterraneo ed il Mar Rosso.

Verso il 1890 il sistema internazionale crollò: le alleanze europee andarono stringendosi in fretta, e gli attori politici si mossero, timorosi de ritrovarsi isolati. Fino al 1902, nonostante tutto, i due protagonisti sul continente - Germania e Francia - risultarono più impegnate in ambito extraeuropeo, che a preparare gli schieramenti.

Invece, questo fu il decennio dei valzer delle tre potenze - Russia, Francia, Impero tedesco - e della danza particolare di una nazione alla ricerca di grandeur, l’Italia. Innegabilmente, queste si trovarono a cooperare, in più occasioni, per limitare la sterminata influenza coloniale inglese; e questa cominciò a risentire degli impegni d’oltreoceano, sempre più gravosi, arrivando ad abbandonare l’ “isolamento” per ricercare un appoggio continentale, inizialmente individuato nella Germania, e poi, definitivamente, nella Francia stessa, negli USA, nel Giappone.

Il processo di divisione dell’Europa in due blocchi ostili durò quindi un quarto di secolo: ovvero il periodo che va dall’elaborazione del patto noto come Triplice Alleanza (1882) alla definitiva elaborazione dell’accordo chiamato Triplice Intesa (1907). Fra il 1871 ed il 1889 la chiave della controllabilità del “sistema”, come sapeva Bismarck, era la limitazione degli obiettivi, e l’impossibilità di giungere ad un irrigidimento degli schieramenti, fino a farli divenire permanenti. Questo fu proprio ciò che accadde, spesso contro il volere dei singoli protagonisti.

Il “sistema” s’incrinò nei primi anni novanta, subito dopo l’allontanamento del suo creatore; l’ascesa al trono di Guglielmo II portò ad un raffreddamento dei rapporti con la Russia di Alessandro III, fino ad arrivare al rifiuto tedesco di rinnovare il “Patti di Rassicurazione” con lo zar del 1887 (in cui le due potenze si promettevano benevola neutralità in caso di scontro armato, con alcune eccezioni: erano esonerati eventuali conflitti franco-tedeschi e austro-russi) con la motivazione che i “patti” costituivano una slealtà sia verso l’Austria sia verso la G.B.. Come conseguenza, lo zar, superando la sua avversione per i regimi repubblicani, si avvicinò alla Francia, con cui concluse nel 1891 un accordo presto trasformato in un impegno di reciproca assistenza; la Francia, in questo modo, uscì dalla qurantena cui l’aveva costretta il “sistema bismarckiano”, ancora alla ricerca di un’opportunità di revanche dopo la batosta del 1870 (con conseguente perdita dell’Alsazia-Lorena).

Il primo attrito anglo-tedesco si ebbe a proposito della Turchia, nel 1892: “Improvvisamente da Berlino arrivò una specie di ultimatum con il quale ci si chiedeva di smettere di contendergli le concessioni ferroviarie in Turchia”, ricorda Grey. Quattro anni dopo, il Kaiser dimostrò altrettanta miopia proponendo al gabinetto di dichiarare il Transvaal “protettorato tedesco”, prima di accontentarsi di mettere in dubbio la sovranità britannica su quel territorio.

Il riarmo tedesco peggiorò le cose; e la Weltpolitik ( politica mondiale) Guglielmina l Kaiser comportò l’immediata e analoga risposta di G.B. e USA soprattutto in campo navale.

Bismarck, infatti, aveva tentato per vent’anni di evitare atti ostili: tra questi, il più importante era non incrementare troppo velocemente la kriegsmarine (la marina tedesca), il cui sviluppo decollò nel 1897, per evitare una diretta sfida alla Royal Navy (inglese), sapendo che la presenza della marina germanica davanti ai porti inglesi avrebbe costretto la R.N. all’immobilità, con gravi ripercussioni diplomatiche, strategiche, politiche.

Proprio per questo, il 1897 fu un anno di svolta: nelle parole del Kaiser “dobbiamo avere in pugno il tridente”, nella decisione di affidarne la fabbricazione (piano di riarmo navale) all’ammiraglio Tirpitz, nella proclamazione di un protettorato “su tutti i maomettani del mondo” (annunciato da Guglielmo durante una visita a Damasco), si manifestò una “tacita equazione” fra illimitata crescita economica e potenza politica;

in più, la tendenza a fondare comunità nazionalmente compatte di oriundi tedeschi in Stati extraeuropei, e a criticare le ipoteche coloniali di molti Paesi europei contribuirono rendere la situazione sempre più pericolosa..

In più, a corollario, la Germania rigettò ogni offerta inglese, avanzata da Chamberlain, tra il 1898 ed il 1901, in particolare per la silenziosa influenza di Holstein, mediocre figura di funzionario del ministero degli Esteri; costrinse gli inglesi ad umilianti concessioni quando si affrontarono i problemi delle colonie portoghesi, di Samoa e della Cina, mettendo in luce la grave posizione di debolezza della G.B, del gabinetto di Lord Salisbury e dei suoi dirigenti, dei “perfetti imbecilli” a detta del Kaiser.

Ma i “perfetti imbecilli”, nonostante il grande quantitativo di oltraggi necessari per farli rinsavire, cominciarono finalmente a prendere coscienza della situazione: “Il periodo dello splendido isolamento inglese è terminato.. Noi preferiremmo avvicinarci alla Germania ed aderire alla Triplice Alleanza. Ma se ciò risulterà impossibile, contempleremo anche la possibilità di un riavvicinamento alla Russia e alla Francia” (Chamberlain, 1898-1901). Fu così che, mentre Holstein a Berlino continuava a bollare le intenzioni inglesi come “soliti raggiri”, la G.B si mosse.

Il primo passo fu stipulare nel 1902 un’alleanza con il Giappone; due anni dopo, nel 1904, cominciarono anche i colloqui con la Francia, portati avanti da Lansdowne e Paul Camion, ambasciatori dei due Paesi; eliminati gli storici motivi d’attrito (riconoscimento reciproco del possesso di Egitto e Marocco, incidente di Fashoda del 1899), la visita di Edoardo VII a Parigi contribuì alla creazione di un’atmosfera favorevole all’accodo. I tentativi, tardivi, della Germania di inquinare le acque, e sciogliere l’accordo noto come entente cordiale naufragarono in fretta: come quando Guglielmo ottenne la firma dello zar ad una bozza d’accordo, nel luglio 1905; ma, poiché appariva incompatibile col trattato franco-russo, finì presto nel dimenticatoio.

Il riavvicinamento tra la G.B. ed il suo tradizionale avversario, la dispotica Russia, avvenne il 31 agosto del 1907, specie grazie all’opera di Landsowne che riuscì ad eliminare gli elementi d’attrito con lo zar (delimitando le sfere d’influenza nell’altopiano iranico e nei Balcani). Se è vero che la vecchia prerogativa di indipendenza nella politica estera britannica era crollata, è altrettanto veritiero che l’ingresso “informale” nella Triplice Intesa contribuì ad indebolire il “blocco” degli avversari, a rendere l’Italia (che vi era entrata nel 1882, ottenendo però una clausola in base alla quale in nessun caso l’alleanza sarebbe stata diretta contro la G.B.) un alleato alquanto dubbio, a spingere la Germania guglielmina ad avvicinarsi sempre più all’unico alleato rimastole, l’Austria segnata dai nazionalismi, con cui il Reich aveva stabilito da tempo (1879) un’alleanza difensiva. La politique d’encerclement (politica d’accerchiamento) di Delcassè, e della Terza Repubblica francese in generale, arrivò quindi a compimento: la Germania era sola o quasi, una volta dilapidato il capitale diplomatico bismarckiano, con dilettantesca noncuranza.

I tentativi di spezzare l’unità dei blocchi, con accordi bilaterali (Germania - Inghilterra, Germania – Russia, Germania – Francia, Russia – Austria) fallirono miseramente: a partire dal 1905, le tre maggiori crisi internazionali vennero risolte sempre più con una politica di “rischio calcolato” (Hob., “L’Età degli imperi”, pag. 366), ovvero attraverso la minaccia della guerra: quell’anno la Germania recedette ad Algeciras soprattutto per l’appoggio inglese alla Francia, nel 1908 l’Austria potè beneficiare, nell’occupazione effettiva della Bosnia, dell’appoggio tedesco, necessario per neutralizzare il pericolo russo; nel 1911, infine, il tentativo germanico di occupare il porto di Agadir, durante la crisi marocchina, fu sventato dalla ferma risolutezza britannica nella difesa del protettorato francese, anche a rischio di una guerra. Ogni divergenza, era evidente, avrebbe ora portato, con tutta probabilità, al conflitto; per questo le grandi potenze si astennero dall’intervenire nella guerra italo – turca del 1911, e nelle guerre balcaniche (1912-1913).

La situazione nei Balcani si era fatta molto problematica già nel 1908, quando l’Austria-Ungheria, come detto, aveva trasformato la sua “amministrazione temporanea” in occupazione militare, approfittando della crisi interna dell’Impero Ottomano e provocando un inasprimento nei rapporti (già precari) con la Serbia e la sua grande protettrice, la Russia. La situazione potè essere risolta solo con l’appoggio tedesco: una vittoria diplomatica fu così pagata con un peggioramento delle relazioni internazionali e una radicalizzazione del nazionalismo degli “Slavi del Sud”.

Il quadro peggiorò con la vittoria italiana sulla Turchia del 1911: l’ennesima sconfitta turca stimolò le aspirazioni degli staterelli balcanici (Serbia, Montenegro, Grecia, Bulgaria), che, incoraggiati dalla Russia, strinsero una coalizione nell’ottobre del 1912; riuscirono così ad espellere la Turchia dall’Europa (eccetto lembi della Tracia), mentre un nuovo Stato prendeva forma sulle coste dell’Adriatico, il principato di Albania, voluto da Italia e Austria per impedire alla Serbia lo sbocco al mare.

L’alleanza fra gli Stati balcanici si ruppe però al momento della spartizione dei territori conquistati: nel giugno 1913, ritenendosi sacrificata, la Bulgaria attaccò improvvisamente Grecia e Serbia. Contro la Bulgaria si formò quindi una nuova coalizione: oltre alle nazioni assalite, si aggiunsero la Romania e la stessa Turchia.

La Bulgaria, rapidamente sconfitta, dovette cedere alla Turchia una parte della Tracia e una striscia di territorio sul Mar Nero alla Romania.

Le due guerre balcaniche terminarono così con un bilancio largamente sfavorevole agli Imperi centrali: il loro maggiore alleato, l’Impero turco, era stato praticamente cacciato dall’Europa, la Bulgaria, lo stato a loro più legato della regione, aveva subito una dura batosta, e la Serbia, duramente ostile all’Impero asburgica, aveva quasi raddoppiato il suo territorio.


Allora, in molti circoli dirigenti austriaci, si fece sempre più forte l’idea di “liquidare” il problema serbo, una volta per tutte.

In definitiva, non furono gli armaioli, ad accelerare gli eventi; la responsabilità non ricadde neanche sui capitalisti (Standard Oil, Deutsche Bank, De Beers Diamonds Corporation), né sui generali e gli ammiragli; è un errore credere che nel 1914 i governi si “precipitarono in guerra per disinnescare le loro crisi sociali interne” (Hob, “L’età degli Imperi”, pag. 371), o che gli Stati l’abbiano favorita con un atteggiamento assai poco “pacifisti”.

Ma i venditori di armi ebbero la loro parte nel convincere generali ed ammiragli dell’indispensabilità dell’ultimo modello di mitragliatrice (Vickers fu fatto baronetto per i servigi resi agli Alleati), e questi, a loro volta, nell’accumulo di giganteschi parchi d’armamenti, e negli scarsi tentativi di fermare la macchina bellica che si andava scaldando; i capitalisti, pur senza desiderare il conflitto (che avrebbe solo danneggiato i loro lucrosi affari), destabilizzarono le strutture tradizionali della politica mondiale, attuando una feroce concorrenza nella caccia ad obiettivi potenzialmente illimitati (se è vero che la ricerca di questi obiettivi illimitati, in campo coloniale, portò solo a crisi locali, incapaci di generare un grande conflitto generale, è anche vero che queste promossero la formazione dei “blocchi” multinazionali poi coinvolti nel conflitto - come abbiamo visto, quello anglo-franco-russo prese le mosse dall’Intesa cordiale, o “Entente cordiale”, tra G.B. e Francia del 1904, in cui la prima prometteva appoggio alla seconda riguardo il problema marocchino, ottenendo in cambio la rinuncia all’Egitto).

I governi, poi, si trovarono a dover gestire un’ondata di patriottismo inaspettata, e totale, e spesso se ne fecero trascinare; e se non furono gli arsenali a far precipitare la situazione, la loro ingombrante presenza (la tecnologia dell’uccidere aveva fatto giganteschi passi avanti a partire dal 1880-1890: si pensi alle armi leggere, all’artiglieria, alle turbine ed alla corazza a piastre per le navi da guerra, all’aviazione) ed il ricordo del loro costo (le spese militari rimasero stabili per gran parte dell’ ‘800, ma crebbero enormemente nell’ultimo decennio e, ancor più, nei primi anni del nuovo secolo: per esempio, in G.B. crebbero dai 32 milioni di sterline del 1887 ai 44 del 1898 agli oltre 77 del 1913-1914, con conseguenze immaginabili sulla pressione fiscale e l’indebitamento inflazionistico del Paese) non contribuirono certo a rasserenare la situazione.

Tutti insieme, questi attori influenzarono dunque l’andamento degli eventi: ma non lo fecero con intenti ‘deterministi’ (far scoppiare la guerra), né volontariamente, trovandosi spesso ad agire contro la volontà personale.

La radice del conflitto andava ricercata prima di tutto nella politica internazionale, in una regione agitata ed in un impero morente.

Lo svelò al mondo un ragazzino chiamato
Gavrilo Princip.


 

 

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