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N. 52 - Aprile 2012 (LXXXIII)

la parabola di Gneo Pompeo il Magnus
Dalla gloria dei trionfi alla solitudine della fuga

di Paola Scollo

 

«Mi è caro il figlio del padre che odio» (TGF fr.201 Nauck). Con questo verso, tratto dal Prometeo liberato di Eschilo, Plutarco sintetizza il sentimento (pathos) che il popolo romano nutre nei confronti di Gneo Pompeo Magno.

 

Infatti, spiega nell’incipit della Vita di Pompeo, «i Romani non mostrarono nei confronti di alcun altro generale un odio più tenace e violento di quello riservato a Strabone, il padre di Pompeo […]. Viceversa, nessun Romano godette più di Pompeo da parte del popolo di una benevolenza così grande, che così presto si manifestasse, crescesse coi successi e rimanesse inalterata nonostante le sconfitte» (Pomp. I).

 

Plutarco pone alle origini dell’odio per Strabone l’insaziabile desiderio di ricchezze, laddove la semplicità del tenore di vita, l’abilità militare, l’eloquenza, la lealtà del carattere, l’affabilità nei rapporti umani, la capacità di donare senza alterigia e di ricevere con dignità vengono considerate le molteplici cause dell’amore (agape) verso Pompeo. Qualità che, peraltro, vanno ad aggiungersi alla bellezza fisica, che «contribuì in modo considerevole a guadagnargli consensi ancor prima di aprire bocca».

 

Nell’immagine di Plutarco, il successo di Pompeo deriva dalla capacità di proporsi quale paradeigma per i suoi concittadini grazie a un modus operandi ispirato ai boni mores.

 

Figlio del generale Gneo Pompeo Strabone, senatore nell’89 a.C., sin da giovanissimo Pompeo partecipa, al seguito del padre, a numerosi conflitti, acquisendo ottime capacità in campo militare.

 

Quando Silla sbarca a Brindisi, ne diviene sostenitore. Nell’80 a.C. in Africa, dove è stato inviato per combattere contro i seguaci di Mario, viene accolto dai soldati con l’appellativo di Magnus, Grande, il solo dopo Alessandro. Nel 79 a.C., a 29 anni, celebra a Roma il suo primo trionfo. Ed è proprio a partire da questo momento che i rapporti con Silla iniziano a deteriorarsi.

 

Spiega, infatti, Plutarco: «Silla si amareggiava vedendo a quale punto di fama e di potenza Pompeo stesse innalzandosi ma, avendo ritegno a opporsi, non prese alcuna iniziativa, eccetto in un caso, e cioè quando costui, con la forza e contro il suo volere, impose Lepido come console, sostenendone la candidatura e procurandogli il favore del popolo grazie al proprio credito» (Pomp. XV).

 

In seguito al ritiro di Silla dalla scena politica, Pompeo è impegnato in vari conflitti, per cui può fare ritorno a Roma soltanto nel 71, dopo sei anni di assenza. Nell’Urbe gli viene decretato un secondo trionfo, dopo quello del 79, per aver contribuito alla riaffermazione della dignità del tribunato della plebe attraverso la lex Aurelia iudiciaria, proposta da Cotta. Ma i successi non esaltano Pompeo: per natura (physei) è saggio e moderato nei desideri. Nel corso dello stesso anno, mettendo da parte ogni contrasto, stringe un’alleanza con Crasso al fine di ottenere l’elezione al consolato per il 70.

 

I due sostenitori di Silla vengono eletti consoli con un programma popolare. Sin da subito promuovono riforme volte a sottrarre alla nobilitas, incapace di amministrare la res publica, l’auctoritas che le era stata accordata da Silla. In generale, Crasso esercita maggiore influenza sul senato, laddove Pompeo gode di maggior favore presso il popolo. Al termine dell’incarico, Pompeo si mostra raramente in pubblico.

 

Secondo Plutarco, «pensava di dover preservare la propria dignità da contatti e da rapporti pubblici. Il portare la toga -osserva il biografo- rischia, in verità, di eclissare la gloria di coloro che hanno acquisito fama in guerra e che male si adattano all’uguaglianza della vita democratica: essi pretendono di eccellere nella vita civile come in quella militare, mentre gli altri, che meno si sono distinti in quest’ultima, non accettano di non primeggiare almeno nella prima» (Pomp. XXIII).

 

Pompeo rimane in attesa dell’evoluzione degli eventi e, in effetti, l’occasione propizia non si fa attendere. L’eccellenza raggiunta dall’organizzazione delle forze dei pirati è motivo di forti preoccupazioni per Roma. I pirati penetrano con estrema facilità in tutto il Mediterraneo, attaccando e assediando numerose città. Stando alle fonti, quattrocento città sarebbero state prese, isole come Delo ed Egina devastate, città e templi depredati.

 

In Italia le coste maggiormente esposte al pericolo pirateria sembra siano state quelle di Brundisium, della Campania e dell’Etruria. Nonostante l’iniziale opposizione del senato, viene approvata la lex Gabinia de piratis persequendi con cui vengono affidati a Pompeo poteri proconsolari illimitati, per una durata di tre anni, da esercitare su tutto il Mediterraneo e sulle zone costiere, per un totale di 50 miglia dal mare in profondità. Stando a Plutarco, il giorno previsto per la votazione della legge, Pompeo si ritira in campagna. Informato della ratifica, ritorna a Roma di notte, temendo di essere oggetto di invidia. Il giorno seguente, compie un sacrificio, si reca in assemblea e ottiene il doppio dei mezzi, ossia 20 legioni, una flotta di 500 navi e 6.000 talenti.

 

La campagna militare ha inizio nella primavera del 67 a.C. e, dopo soli quaranta giorni, Pompeo riesce a liberare i mari occidentali dai pirati. Resa sicura Roma, si volge quindi all’Oriente, offrendo, ancora una volta, dimostrazione di eccellenti abilità tattiche e strategiche. Con un notevole dispiegamento di forze, divide il Mediterraneo e il Mar Nero in tredici settori, ognuno dei quali è affidato al controllo di un suo legato. In tre mesi riesce a sottrarre ai pirati l’isola di Creta, le coste della Cilicia, della Panfilia e della Licia. Provvede poi ai sopravvissuti, disponendo di farli trasferire in regioni interne e in città spopolate. Infine, affida a Cecilio Metello la gestione dei pirati cretesi, in quanto si prepara a un’impresa più ardua: la continuazione della guerra contro Mitridate e Tigrane, la cui gestione era stata affidata da tempo a Lucullo.

 

Di fronte ai clamorosi successi di Pompeo, il tribuno della plebe Manilio avanza una proposta di legge, la cosiddetta Pro lege Manilia de imperio Cnei Pompei, in base alla quale il generale avrebbe ottenuto i paesi e gli eserciti sottoposti a Lucullo, la Bitinia e il comando della guerra contro i re Tigrane e Mitridate, con a disposizione la flotta e il potere sul mare. In sintesi, secondo Plutarco, «lo Stato romano veniva affidato al governo di un solo uomo: infatti, le uniche province che, in base alla legge precedente, sembrava gli fossero sfuggite, ovvero Frigia, Licaonia, Galazia, Cappadocia, Cilicia, Colchide Superiore e Armenia, gli venivano tutte affidate insieme agli eserciti e al potere di cui aveva disposto Lucullo nelle sue campagne contro Mitridate e Tigrane» (Pomp. XXX).

 

Nel giudizio di Plutarco, i senatori non si rammaricano per la sostituzione di Lucullo al comando della guerra: nutrono, piuttosto, il timore che l’imperium di Pompeo possa costituire una seria minaccia per la libertas dello Stato, degenerando in una vera e propria tirannide. Tuttavia, al momento di decidere, per timore del popolo i senatori rimangono in silenzio. Soltanto Catulo inizia a gridare dalla tribuna, «sollecitando i senatori a cercare, come i loro antenati, un monte e una rupe scoscesa per trovarvi riparo e salvare la libertà» (Pomp. XXX).

 

La legge viene approvata e Pompeo riceve «quasi tutti i poteri che aveva ottenuto Silla impadronendosi di Roma con la forza delle armi» (Pomp. XXX). In breve tempo, il Magnus vanifica l’operato di Lucullo, soltanto per gelosia e per dimostrare ai sostenitori di averlo ridotto all’impotenza. Lucullo è maggiore per età e per dignità consolare, ma Pompeo gode di un prestigio superiore grazie ai due trionfi. L’inasprimento dei rapporti induce Pompeo e Lucullo a concordare un incontro in Galizia.

 

Come spiega Plutarco, nel corso dei colloqui i due non riescono a trovare punti di incontro; anzi, arrivano agli insulti perché Pompeo rimprovera a Lucullo la sua cupidigia e Lucullo a Pompeo la sete di potere. Lucullo riparte. Pompeo, dopo aver posto sotto il controllo della flotta il mare compreso tra la Fenicia e il Bosforo, si dirige contro Mitridate, che dispone di un esercito di trentamila fanti e duemila cavalieri, senza tuttavia attaccare battaglia (XXXII). Pompeo priva gradualmente Mitridate dell’appoggio dei suoi alleati, a partire da Tigrane. Nel 64 a.C., dopo aver sconfitto le ultime resistenze di Iberi e Albani, conquista il Ponto, che diviene provincia romana. Lo straordinario successo consacra Pompeo quale erede di Lucullo, l’uomo chiamato dal destino a difesa della res publica.

 

Successivamente, riprende il viaggio «ormai con maggiore solennità», dando prova della sua grandezza d’animo. A Mitilene concede libertà, per rispetto di Teofane, e prende parte al certame poetico in onore delle sue gesta; a Rodi ascolta i sofisti e dona loro un talento come premio; ad Atene ascolta i filosofi e dona cinquanta talenti alla città per i lavori di restauro. Dopo aver sconfitto quattordici nazioni, aver offerto un nuovo assetto alle province d’Oriente e aver fondato numerose città, Pompeo decide di ritornare in Italia, con la speranza di presentarsi come il più illustre degli uomini.

 

Tuttavia, scrive Plutarco, «quel dio (daimon), che ha sempre cura di mescolare una parte di infelicità ai grandi e splendidi doni della fortuna, gli teneva in serbo già da tempo un ritorno doloroso». Il generale sbarca a Brindisi nel dicembre del 62 e, a dispetto di ogni previsione, scioglie l’esercito. Questa decisione gli procura molte simpatie. Un cospicuo numero di Romani si riversa sulle strade per accoglierlo: «erano una massa di persone superiore agli effettivi del suo esercito, così che, se allora avesse pensato di rovesciare il governo e di fare la rivoluzione, non avrebbe avuto bisogno delle sue truppe» (Pomp. XLIV).

 

Il senato lo saluta con l’appellativo di Magnus e decreta in suo onore un trionfo per il 29 settembre del 61. Si tratta del terzo trionfo. A dire il vero, come nota Plutarco, anche altri in passato avevano ricevuto tre trionfi, ma Pompeo, «avendo trionfato per la prima volta sull’Africa, la seconda sull’Europa e, infine, sull’Asia, sembrava aver sottomesso in qualche modo, con i tre trionfi, il mondo intero (oikoumene)» (Pomp. XLV). Le celebrazioni proseguono per due giorni, «un tempo insufficiente rispetto all’importanza» (Pomp. XLIV). Le insegne indicano Paesi e popolazioni sottomessi: Ponto, Armenia, Paflagonia, Cappadocia, Media, Colchide, Iberi, Albani, Siria, Cilicia, Mesopotamia, Fenicia, Palestina, Giudea, Arabia. A ciò occorre aggiungere mille fortezze, quasi novecento città e ottocento navi strappate ai pirati, oltre che la fondazione di trentanove città e svariati tributi e trofei. In ricordo dello straordinario evento, viene avviata la costruzione nel Campo Marzio del primo teatro permanente in pietra con un tempio dedicato a Venere Victrix.

 

Il confronto con Alessandro Magno è inevitabile, così come inevitabile si configura l’amara osservazione di Plutarco: «Quanto avrebbe guadagnato a concludere la sua vita allora, quando aveva la fortuna di Alessandro! Gli anni successivi, infatti, gli recarono invidiabili successi, ma anche sventure irrimediabili» (Pomp. XLVI).

 

Nella sua corsa verso il dominio, Pompeo trascura un aspetto decisamente importante. Un nuovo personaggio si affaccia sulla scena politica di Roma: Caio Giulio Cesare. Infatti, è proprio grazie all’appoggio di Pompeo che Cesare riesce a conquistare il potere. Una volta rientrato dalla trionfale spedizione in Gallia, che gli era valsa grandi consensi, Cesare aspira al primo consolato. Per questa ragione, decide di sfruttare le tensioni politiche interne alleandosi, in un primo momento, sia con Pompeo sia con Crasso. Si tratta del primo triumvirato della storia di Roma.

 

L’alleanza tra Pompeo e Cesare si rafforza quando nel 59 a.C. Pompeo sposa Giulia, figlia di Cesare, ottenendo così il governo della Spagna Ulteriore. Tuttavia, a partire dal 56 a.C., i rapporti fra i triumviri cominciano a incrinarsi. Nel corso di una riunione segreta a Lucca, Cesare decide di rinnovare il consolato di Crasso e Pompeo per il 55. Cesare ottiene in tal modo il prolungamento del potere proconsolare per altri cinque anni, Crasso il governo della Siria e Pompeo il governo in absentia della Spagna.

 

Nonostante gli accordi, la situazione è critica: l’ipotesi della guerra civile è ormai concreta realtà. Dapprima, Pompeo crede di poter sconfiggere Cesare. In effetti, stando a Plutarco, all’età di cinquantotto anni è ancora perfettamente in grado di combattere a piedi armato, di montare a cavallo, di sguainare la spada in scioltezza, imprimendo velocità al cavallo, e di deporla con destrezza. Rivela poi molta precisione nel lancio del giavellotto e, soprattutto, grande capacità nel raggiungere distanze difficili da superare anche per i giovani.

 

Re e principi stranieri affollano il suo campo e lo stesso Cicerone pare si sia vergognato di non figurare nella schiera di coloro che affrontavano il pericolo per la patria (Pomp. LXIV). L’atteggiamento di Pompeo in battaglia infonde coraggio ai soldati che, esaltati dai successi iniziali, cercano di affrettare lo scontro. Ma, quando nella primavera del 49 a.C. Cesare oltrepassa il Rubicone, Pompeo ordina alle sue truppe di fuggire: preferisce evitare lo scontro diretto, limitandosi a inseguire, assediare e logorare il nemico con la mancanza di rifornimenti.

 

I pompeiani raggiungono Brindisi, da dove salpano per l’Oriente. Pompeo riesce a conquistare Dyrrachium, ma non è capace di sfruttare favorevolmente la situazione. Come afferma lo stesso Cesare, citato da Plutarco, «il nemico avrebbe vinto, se avesse avuto un comandante che era un vincitore» (Pomp. LXV). Lo scontro decisivo avviene a Farsalo, in Grecia, nel 48. Le sorti della battaglia appaiono chiare a Pompeo in un sogno premonitore: «[…] gli sembrava di entrare nel suo teatro fra gli applausi della folla per ornare con molte spoglie il tempio di Venere Vittoriosa.

 

Tale visione, se da una parte lo incoraggiò, dall’altra lo angustiò, perché gli sembrava di essere lui stesso la causa di fama e di gloria per Cesare, la cui stirpe risaliva a Venere. Un subbuglio, indizio di panico, che pervadeva il campo, lo svegliò. Invece, al di sopra del campo di Cesare, dove regnava la massima tranquillità, al cambio della guardia del mattino risplendette una gran luce, da cui si levò una fiamma ardente che andò ad abbattersi sul campo di Pompeo. Lo stesso Cesare afferma di aver visto questo prodigio mentre passava in rassegna le prestazioni di guardia» (Pomp. LXVIII).

 

Una volta dato il segnale di combattimento, pochi Romani, i migliori secondo Plutarco, e alcuni Greci, estranei al combattimento, vedendo avvicinarsi il momento fatale, riflettevano «su come la smania di prevalere e l’ambizione avessero trascinato l’impero sino a quel punto. Infatti -prosegue il biografo- si trovavano di fronte armi ed eserciti dello stesso sangue e della stessa razza, insegne comuni, tante truppe valorose e possenti di una stessa città, che se ne serviva per rivolgerle contro se stessa. Ciò sta a dimostrare che la natura umana, quando è dominata dalla passione, è cieca e folle» (Pomp. LXX).

 

Il combattimento viene avviato con colpi di spada. Le perdite sono numerose. I seguaci di Pompeo cercano di circondare il nemico ma, proprio mentre procedono all’accerchiamento, non riescono a sostenere l’urto: vengono travolti e cadono essi stessi vittime della manovra. Plutarco afferma di non essere in grado di stabilire con certezza quali pensieri affollassero la mente di Pompeo in quei terribili attimi dello sfondamento, laddove la disfatta della cavalleria doveva apparire certa.

 

Con ogni probabilità, il suo aspetto doveva essere «quello di un folle e di un forsennato che non si ricordava neppure di essere Pompeo Magno». Con questa espressione, il generale doveva procedere a passi lenti, di nascosto, indossando «un abito adatto alla sventura del momento» (Pomp. LXXII). Per la prima volta, dopo trentaquattro anni di dominio incontrastato e di vittorie, Pompeo fa esperienza della sconfitta.

 

I trionfi sono ormai arcano ricordo. E, in questa dimensione di precarietà, non vi è più nulla in lui dell’antica magnitudo: improvvisamente, si rivela un essere piccolo, insignificante. Nel momento della difficoltà, quando non è più assiso sul currus triumphalis, quando la Venere Victrix non ne asseconda e sostiene l’azione, il Magnus si ritrova solo, abbandonato da tutti. Ed è costretto a darsi alla fuga. A bordo di una nave raggiunge Anfipoli, quindi Mitilene per prendere con sé la moglie Cornelia. Alla vista del marito, pare che Cornelia abbia affermato: «Io ti vedo, marito mio, per opera non già della tua fortuna ma della mia, sbattuto in quest’unica imbarcazione, tu che, prima di sposare Cornelia, navigavi su questo mare con cinquecento navi! Perché sei venuto a trovarmi e non hai abbandonato al suo triste destino colei che ha colmato anche te di tanta sventura? Che donna fortunata sarei stata se fossi morta prima di sapere che Publio, il mio primo marito, era caduto combattendo contro i Parti, e come sarei stata saggia se, dopo di lui, avessi rinunciato alla vita come ero sul punto di fare! L’ho conservata soltanto per causare la rovina di Pompeo Magno!».

 

La risposta di Pompeo non si fa attendere: «Tu conoscevi, dunque, Cornelia, solo una parte della mia fortuna, la migliore, ed essa ti ha ingannato, forse perché è durata più a lungo del solito. Ma noi dobbiamo sopportare anche questo, perché siamo uomini, e tentare di nuovo il destino. Non si deve disperare di tornare dalla condizione presente a quella passata, se da quella si è passati a questa» (Pomp. LXXIV). Di fronte alla drammaticità degli eventi e ai sensi di colpa di Cornelia, Pompeo continua a mostrare coraggio e fiducia nel futuro, mantenendo inalterata la grandezza propria dei magni viri. Con la moglie e alcuni amici prosegue il viaggio, alla ricerca di un approdo sicuro. Sceglie l’Egitto e mai scelta si rivelò essere per lui più funesta. Infatti, alla corte di Tolemeo, «quel dio (daimon), che ha sempre cura di mescolare una parte di infelicità ai grandi e splendidi doni della fortuna» gli avrebbe sferrato l’estremo fatale colpo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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