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N. 65 - Maggio 2013 (XCVI)

LO STATO DI BOSCHI E FORESTE DOPO L’UNITÀ
SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE ECOLOGICA ATTRAVERSO LA VOCE DI UN TESTIMONE

di Alberto Conti

 

I brevi saggi cui si dedicò Giuseppe Bossi Federigotti, e che apparvero a stampa negli anni immediatamente successivi al compimento dell’Unità d’Italia, si inseriscono nel solco di una non rara pubblicistica fortemente sensibile al diffuso processo di deterioramento di boschi e foreste in atto, ormai da tempo, all’interno della penisola.

 

Sbaglieremmo a rubricarla in una chiave meramente utilitaristica – benché imprescindibile fosse l’esigenza di non privare i monti e i colli di quel robusto tessuto arboreo che ne aveva nei secoli caratterizzato il profilo ambientale (ci torneremo).

 

A ben guardare, spesso esprimevano una chiara coscienza ecologica che, la supponenza dei nostri tempi, vorrebbe attribuire solo ai contemporanei. In realtà, come aveva messo in luce Donald Worster, l’idea di ecologia “ebbe inizio nel XVIII secolo quando essa si configurò come un metodo più ampio per osservare la struttura della vita sulla terra […]”.

 

Proprio la felice nozione di “Economia della natura” si attaglia efficacemente al pensiero del nostro autore, impegnato a fornire una rappresentazione – in bilico tra un’inclinazione scientifica (prevalente) e una filosofica, e in tal guisa sorprendentemente attuale, in relazione ai problemi d’identità che ancora affliggono l’ecologia moderna - delle fatiche di una natura benigna e riparatrice dei guasti provocati dai comportamenti umani.

 

Se ci soffermiamo sul primo trattatelo: “Imitazione della natura nel rimboschimento delle montagne”, è interessante rilevare come la dissertazione – pure informata a criteri non specialistici e debitrice di importanti contributi coevi provenenti dalle scienze forestali – volga chiaramente a rappresentare in chiave sociale la vita delle piante: ovvero comunità legata, in qualche misura, da vincoli solidaristici.

 

Tale prospettiva era, ovviamente, ancora lungi dal prefigurare gli scenari dell’ecologia moderna, anche perché era assente ogni riferimento all’integrazione di vita vegetale e animale. Insomma, una riflessione ecologica al passo con i propri tempi, ma non priva di intuizioni originali.

 

L’ansia di un Federigotti, come di altri osservatori contemporanei – di là dalle rispettive attitudini intellettuali e specialistiche – muoveva dal timore che il processo di spoliazione di boschi e foreste non si arrestasse, con gravi ripercussioni nel tessuto ambientale del Paese.

 

Non è fuori luogo riconoscere, in tale prospettiva, l’esistenza di una questione ambientale che, in verità, le misure legislative e amministrative varate sin lì avevano scarsamente contribuito ad affrontare.

 

Potremmo anche accostarci con qualche pregiudizio ai piccoli saggi di Federigotti, dove il suo naturalismo appare di ben altra seduzione rispetto a quello coevo di un Thoreau e dove la sua penna scivola frequentemente verso lidi pomposi e magniloquenti. Ma se leggiamo l’incipit del primo saggio: “Grande, insuperabile, nostra maestra ch’è la natura! Quanto più liete e felici non trascorrerebbero le cose dell’umana famiglia, se la più bella creazione d’Iddio, se il re degli animali, non avesse frequentissimamente rotto le leggi naturali dall’eterna sapienza imposte!” troviamo che vi echeggia una tensione morale, in fondo non lontana dalle ansie ecologiste dei nostri tempi.

 

Fiducioso più nella natura che non negli uomini, l’autore esprimeva una semplice ricetta per risollevare le sorti di monti e colli, devastati dalla distruzione del loro manto forestale: “Basta che non v’intervenga la mano devastatrice dell’uomo; basta ch’ei tenga lontano il ferro e il fuoco, di cui egli si serve per distruggere, nonché le selve, sé stesso”. Certo, come osserveremo tra breve, la questione ambientale, pur efficacemente evocata, non veniva affatto problematizzata, se non attraverso una successiva e comunque significativa chiosa, quando si auspicava un qualche rallentamento del “progresso”, da “regolarizzare” secondo, evidentemente, le esigenze di riproduzione del ciclo naturale.

 

Del resto, all’uomo era veniva assegnato un ruolo, potremmo dire, puramente sussidiario rispetto alla natura: “Se, dunque, il solo nostro abbandono, la nostra oblivione, se il solo astenersi dai danni basterebbe infallibilmente a far ripullulare, col tempo, le selve, anche né luoghi più ripidi dei monti; come potremo ristabilirle presto e bene coll’aiutar la natura e coll’unir la nostra industria alla di lei cooperazione?”. Il processo di rimboschimento, in altre parole, come razionale programma di sostegno alla rigenerazione ambientale; ma anche, crediamo, secondo il moralismo dell’autore, come risarcimento, da parte dell’uomo, per i danni arrecati a “madre natura”.

 

Abbiamo accennato, in precedenza, a un tema cruciale, peraltro appena adombrato nel testo in questione: quello del progresso in rapporto alle esigenze di tutela dell’ambiente naturale.

 

Non esauriremo ora le nostre breve riflessioni sul tema. Basti intanto sottolineare che, sin dal decreto varato in età napoleonica, nel maggio del 1811, il dilemma consisteva nel conciliare le esigenze della produzione di legname (per l’industria bellica e quella manifatturiera in genere), e dell’allevamento, con quella della difesa del manto forestale, che copriva allora una quota consistente del territorio della penisola.

 

Sarebbe ingeneroso non riconoscere a quel provvedimento un valore almeno pionieristico (anche se in realtà non costituì la prima misura in assoluto adottata in materia), ma certo, anche per le inerzie dei governi succedutisi con la Restaurazione, il quadro generale di impoverimento del manto forestale non si sarebbe arrestato. E per il varo di una legge, da parte del nuovo Stato unitario, si dovette attendere sino al 1877. E fu, per diversi aspetti, una legislazione carente e largamente permissiva. Né soccorreva, all’obiettivo di rimediare, per usare le parole di Federigotti, allo “stato allarmante” in cui si trovavano le montagne, quel programma di rimboschimento che egli, come molti esperti in materia, auspicavano. Il problema era soprattutto di carattere finanziario, in considerazione che gli oneri erano i larga parte a carico delle amministrazioni comunali, assai tiepide rispetto alla scelta di dirottare parte delle proprie già carenti risorse alle suddette finalità. E ciò anche in ragione della scarsa sensibilità ambientale che esprimevano, ma solo per questo come vedremo.

 

Se quindi si prefigurava, già primo corso dell’ottocento e ancora maggiormente in seguito, un embrionale conflitto tra le dinamiche del progresso le prime ferite inferte all’ambiente, un pacifico osservatore come Federigotti aveva ben poco da sperare. I cambiamenti in atto erano epocali, come ci ricorda un grande storico, a proposito di una realtà nella quale il processo di disboscamento era stato molto violento: “Allora (i primi decenni dell’ottocento, n.d.s.) i boschi della merlata non erano lontani dalle mura e accompagnavano le strade della Brianza verso Erba e Como, prima di scomparire, nell’inoltrarsi del secolo, quando, soprattutto a iniziare da quegli anni sessanta, andava dileguando, nella preoccupazione di un esasperato e remunerativo sfruttamento agrario delle ultime aree incolte, quell’Ottocento ancora largamente segnato da pascoli e pittoresche campagne che le tele dell’epoca ci rivelano morente”.

 

Quelle pagine, tuttavia, erano significative della crescente consapevolezza di contenere, almeno, i guasti che si stavano producendo, e testimoniavano l’importante evoluzione delle scienze forestali. È anche bene ricordare che un impulso importante in tale direzione era stato dagli austriaci con la fondazione, nel 1852, dell’istituto d’istruzione forestale di Mariabrunn, che elevava sostanzialmente la scienza forestale al rango di formazione scolastica superiore.

 

Interessante inoltre – per gli spunti di natura socio-economica – che sollecitano, è anche il secondo saggio, dal titolo: “Se il rimettere le selve su monti possa diminuire la popolazione”.

 

Di là dalle dotte citazioni storiche e dal forte afflato naturalistico che ancora vi emerge, è un aspetto, in particolare, che attira la nostra osservazione, ovvero la rivendicazione, da parte dell’autore, della piena integrazione che possa realizzarsi tra agricoltura e selvicoltura (“ed a gran torto nella mente d’alcuni pochi agricoltura e selvicoltura si credon nemiche, laddove invece la sorellanza naturalmente le lega”).

 

Il tema è di grande pregnanza, in quanto ha prodotto, nel corso dell’ottocento, una dei maggiori dilemmi che angustiavano gli agronomi. Dobbiamo dar torto all’ingenuo ottimismo del nostro autore, in considerazione dell’empirica dimostrazione che le due attività si rivelavano largamente incompatibili. I legislatori, dal canto loro, operavano ricercando faticosi compromessi.

 

Emblematico, in tale prospettiva, il trattamento riservato a questa materia dai regolamenti forestali provinciali richiesti dalla legge varata nel 1877. A Como, per esempio, si stabilì che il pascolo potesse “esercitarsi in quei boschi, che secondo il loro governo, si trovano nelle condizioni rispettivamente determinate per tale fruizione dalle prescrizioni di massima del Comitato Forestale”. È già intuibile la complicata attuabilità di questa norma. Tutto l’impianto dell’articolo, del resto, si reggeva su un delicato equilibrio di competenze e di senso di responsabilità (di “abili pastori” parla il disposto, a proposito del controllo da esercitare sulle bestie durante il pascolo, al fine di evitare danni alla vegetazione).

 

D’altra parte, il problema è ancora attuale, e investe il dibattito tra gli specialisti. Basterà qui far cenno a una relazione del prof. Mario Capelli, che rivendica l’esigenza di regolamentare rigorosamente la promiscuità di bosco e pascolo e aggiunge: “Senza un miglioramento della produzione pascoliva, i rapporti tra bosco e pascoli saranno sempre tesi e contrastanti perché il bosco soggiace all’esigenza del pascolo in quanto i redditi di quest’ultimo sono più immediati”.

 

La realtà, nel corso dell’ottocento - pur al netto delle profonde differenze socio-economiche intervenute in quasi due secoli – non era molto diversa.

 

Quanto al tema principale affrontato in questo secondo saggio, ovvero il rapporto tra popolazione e processo di rimboschimento, l’oziosità dell’interrogativo, come ben spiegava l’autore, era solo apparente, ed egli sviluppava le sue considerazioni partendo dalla prospettiva di un suggestivo ecologismo – pur primitivo per molti versi – che sfociava in quel “totalitarismo” dell’ordine naturale che l’uomo avrebbe semplicemente dovuto assecondare. Non che manchi, peraltro, concretezza di argomenti, anche attraverso sorprendenti escursioni nella storia antica.

 

Proprio da tale prospettiva si coglie come il decadimento di intere aree geografiche sia dipeso, piuttosto, dalla distruzione dell’ambiente vegetale. E di come ciò avesse determinato perdite rilevanti di popolazione. E per un autore come Federigotti, che forse credeva ancora nella Storia come “magister vitae”, era inaccettabile che i contemporanei non comprendessero l’esigenza di promuovere uno sviluppo che non fosse in conflitto con l’ordine naturale.

 

È un peccato che non ci siano noto il terzo saggio, intitolato: “Se l’impedire il dissodamento di certe coste montane ed il costringere a imboscare ed a rinselvare dell’altre, ledere possa i naturali diritti di libertà e di proprietà”. La prolissità del titolo la dice lunga sulla complessità di una questione che interessa sia l’economia sia l’organizzazione sociale di intere comunità. Oltre, ovviamente, questioni più specificamente giuridiche, se non, in qualche misura, finanche ideologiche.

 

Se ripercorriamo gli esiti delle misure varate nel corso dell’ottocento, e infine della legge del 1877, rileviamo alcuni aspetti cruciali: a) l’esercizio della privata proprietà non venne significativamente intaccato dalle riforme attuate; b) l’utilizzo comunistico dei boschi subì invece un ridimensionamento, sebbene spesso attenuato dall’enorme mole di ricorsi, a volte presentati da intere comunità; c) il processo in atto, almeno nell’ultimo scorcio del secolo, produceva una sorta di antagonismo tra istanze ancora pre-moderne e l’impatto riformatore (invero tutt’altro che dirompente) derivante dalle nuove norme.

 

Cercheremo di osservare alcune dinamiche, seppur in termini essenziali, con riferimento alla prima legge varata in materia dal nuovo Stato unitario.

 

Il carattere “liberale” (in un’accezione negativa, ovvero rispetto agli obiettivi di difesa del patrimonio forestale) assunto dalla legge del 1877 è stato ampiamente stigmatizzato dalla storiografia contemporanea, proprio in funzione del suo impianto permissivo e per maglie molto larghe degli obblighi che imponeva. Infatti, era forte l’attenzione affinché l’esercizio della proprietà privata non avesse troppo a soffrire dal varo della nuova normativa.

 

Da un’ altra parte, le nuove misure tendevano a restringere in modo significativo l’uso comune dei boschi, ovvero la disponibilità di cui, per secolare consuetudine, intere comunità godevano, sia per il pascolo sia per l’approvvigionamento di legna per usi domestici. Fatalmente ciò non poteva non incontrare resistenze, generando vere e proprie tensioni sociali.

 

Porre dei vincoli all’utilizzo dei boschi, in questa prospettiva, produceva quei contrasti, cui abbiamo fatto cenno, tra istanze spesso inconciliabili.

 

Peraltro, ricondurre tutto alla scarsa, o nulla sensibilità ambientale dei più, ci farebbe perdere di vista il fatto che il faticoso processo verso la modernità scontava ancora il perdurare, all’interno della società, di strutture che moderne ancora non erano.

 

Inoltre va anche sottolineato che, nella ricezione, da parte delle autorità politiche locali, degli effetti che la riforma produceva nel rispettivo territorio, occorrerà sempre distinguere tra la difesa clientelare di interessi “forti”, e la diffusa preoccupazione per il mantenimento degli equilibri delle comunità.

 

C’è un passo, nei saggi di Federigotti, che è ardito riportare in modo acritico: “La pace non nutre maggior gente, che la guerra non voglia a struggerne. Questi due stadi non esercitano sulla popolazione che un influsso ben passeggero. Noi sappiamo dalla moderna istoria francese, quanto passeggera sia l’influenza delle più cruente guerre sulla condizione di popolamento, in un paese, ove ogni specie di culto agreste sia in onore”.

 

Certo il nostro autore non avrebbe conosciuto i cataclismi provocati dalle grandi guerre del secolo successivo, e la sua appare in ogni caso più un’espressione d’effetto che un’interpretazione storica.

 

Tuttavia, una riflessione ancora la suggerisce: la tutela dell’ambiente quale condizione primaria per la difesa delle popolazioni e garanzia per il loro futuro.

 

Fosse pure l’ingenuo sentimentalismo di un reazionario, ma certo precorreva le drammatiche contraddizioni che caratterizzano i nostri tempi.

 

P.S.: Se si dovesse diligentemente rispettare il buon decalogo di ogni ricerca storica, questo contributo peccherebbe di un vizio d’origine, per così dire. Ovvero l’autore non conosce assolutamente nulla di Giuseppe Bossi Federigotti (a parte il titolo nobiliare di conte, anteposto, secondo costume, al proprio nome). Quindi la fonte scaturisce direttamente dalla lettura di questi scritti, senza alcuna ulteriore ricognizione. Sono stati, tuttavia, un valido stimolo a riproporre riflessioni su un tema cruciale per i nostri tempi e per quelli che verranno, partendo proprio dalle osservazioni e dalle stimolanti analisi/divagazioni di un inquieto – ancorché anonimo - testimone dell’ottocento.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giornale e atti della Società Agraria di Lombardia, Archivi Biblioteca comunale Como

D.Worster, Storia delle idee ecologiche, Bologna, 1994

B.Vecchio, Il bosco negli scrittori italiani del settecento e dell’età napoleonica, Torino,1974

V.Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Roma-Bari,2003

P.Bevilacqua, La terra è finita, Roma-Bari,2006

Teresa Isemburg, Storia d’Italia – Atlante, Immagini e Numeri dell’Italia, Torino,1976

“Pascolo e bosco” Atti della tavola rotonda tenutasi a Firenze il 12 marzo 1982. Accademia italiana di scienze forestali, Firenze,1984



 

 

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