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N. 111 - Marzo 2017 (CXLII)

IL Gambia E la via diplomatica
 Un esempio da applicare ovunque?

di Gian Marco Boellisi

 

Sin da quando gli stati africani hanno acquistato l'indipendenza dal dominio occidentale, l'intero continente non ha mai mostrato una vera e propria identità ed autonomia politica. In parte per la relativamente recente chiusura dei rapporti coloniali con gli stati europei (anni '60-'70 in genere), in parte per le continue interferenze politiche, economiche e militari dei suddetti paesi occidentali in affari che non li riguardano, la maggior parte degli stati africani versa ancora oggi in una profonda condizione di crisi politica. Poggiando su così fragili basi, spesso e volentieri si incontrano figure autoritarie alla guida di queste realtà, i quali si fanno beffe della volontà popolare cercando di aumentare il più possibile il proprio patrimonio con le infinite ricchezze che il continente continua ad offrire. Tuttavia a volte succede che le cose vadano per il verso giusto, e che qualche paese riesca a sfuggire alla morsa soffocante della dittatura. Un caso recentissimo è il Gambia, il quale, in seguito alle elezioni del 1 dicembre 2016 e ai fatti che sono succeduti, è riuscito a scacciare il dittatore che soffocava il piccolo paese equatoriale da più di vent’anni.

Vediamo prima di descrivere in breve il passato di questo minuscolo stato dell’Africa centrale. Il Gambia fino al 1965 è stato una colonia dell’impero britannico. Dopo le vicissitudini legate alla decolonizzazione, esso diviene una monarchia costituzionale all’interno del Commonwealth britannico. Non contenta di questo status, la popolazione avvia negli anni successivi varie lotte referendarie che culminano il 24 aprile 1970 con la trasformazione in repubblica presidenziale e l’elezione del primo presidente Dawda Kairaba Jawara. Nel 1981 viene tentato un colpo di stato, dove il Gambia chiede l’intervento del vicino Senegal per ristabilire l’ordine costituzionale legittimo. Migliaia di persone, tra civili e militari, perdono la vita in quelli che furono i combattimenti per mantenere in vita la repubblica. Fino al 1994 lo stato del Gambia ha avuto una vita tranquilla, governata ininterrottamente da Jawara, eletto per ben 5 volte di seguito. Nel luglio del 1994 il colonnello Yahya A.J.J. Jammeh, a capo delle Forze Armate del Consiglio Governativo Provvisorio (AFPRC), prende il potere con colpo di mano ai danni di Jawara, esiliandolo dal paese. Nel corso degli anni Jammeh ha subito forti critiche da parte della comunità internazionale a causa delle sue continue violazioni dei diritti umani e delle posizioni estremamente discriminatorie nei confronti degli omossessuali. Nel 2015 infine proclama il Gambia una repubblica islamica, seguendo così la confessione religiosa della maggior parte della popolazione, a sua detta. Uomo di grande crudeltà verso gli oppositori politici, afferma anche di avere poteri mistici in grado di curare malattie come l’AIDS e l’infertilità. Tutto ciò si protrae fino al 1 dicembre 2016.

In questa fatidica data infatti si sono svolte le elezioni presidenziali per stabilire chi sarebbe stato l’uomo alla guida del Gambia nei prossimi anni. Già il 2 dicembre i risultati sono noti, e le urne stabiliscono prontamente la sconfitta di Jammeh nei confronti dello sfidante Adama Barrow, il quale esce vincitore con il 43,3% dei consensi. Con una mossa inattesa da tutti, Jammeh riconosce la vittoria dello sfidante, chiamando l’avversario addirittura personalmente ed affermando: “Chiamo per augurarti il meglio, la gente del Gambia ha parlato”. Tuttavia il 9 dicembre cambia idea, dichiarando nullo il risultato di appena una settimana prima e chiedendo un nuovo voto popolare. In seguito ad un mese di tensioni interne ed esortazioni da parte della comunità internazionale, il presidente Jammeh dichiara il 17 gennaio lo stato di emergenza nazionale. Alcuni dei capi dell’Ecowas, l’organizzazione che raggruppa al suo interno i leader degli stati dell’Africa occidentale, avevano tentato in data 13 gennaio, fallendo, di convincere il dittatore ad accettare il risultato elettorale, evitando così un potenziale quanto disruttivo bagno di sangue. Essendo tutte le opzioni di negoziato fallite, la comunità internazionale decide così di agire.

Il 19 gennaio Adama Barrow giura come presidente presso l’ambasciata di Dakar, in Senegal, dove è rifugiato per paura di ritorsioni da parte del dittatore. Nello stesso giorno, le truppe della comunità degli stati africani occidentali, capeggiate dal Senegal, entrano in Gambia. Nonostante la maggior parte della popolazione del Gambia fosse a favore del neo eletto presidente Barrow, la base di consenso di Jammeh risultava, ed in parte risulta, ancora molto forte. Inoltre gran parte del potere dell’ormai ex presidente si basava sui militari, i quali avevano visto aumentare a dismisura i proprio privilegi durante gli anni della presidenza Jammeh. Le paure di un bagno di sangue quindi erano più che giustificate, tant’è che tutti ormai erano pronti al peggio.

In seguito a due giorni di rapidi avanzamenti nel cuore del paese da parte delle truppe senegalesi, Jammeh si è sentito alle strette e ha deciso di prendere baracca e burattini con sé e andarsene bellamente. L’unico dettaglio è che non lo ha fato a mani vuote. E’ scappato a bordo di un jet privato, portando con sé 11 milioni di dollari, ovvero circa l’1% del Pil, oltre a varie macchine di lusso e oggetti di valore messi su un cargo. Si dice addirittura che le casse dello stato siano vuote. Ora la posizione di Jammeh risulta essere sconosciuta. Alcune voci di corridoio ritengono che sia in Guinea Equatoriale, anche se non vi è certezza sulla questione.

La fuga di Jammeh ha messo la parola fine a tutti i timori riguardanti possibili violenze che sarebbero potute sfociare nel paese. Ma ha anche dimostrato un'altra cosa di grande importanza, ovvero che la pressione internazionale, unita ad una sollecitazione militare di rilevo ed alla possibilità di un esilio in uno stato lontano da parte del dittatore in questione può portare ad un passaggio di poteri indolore e senza alcuna esternazione di violenza. Quindi, con i giusti presupposti, si potrebbe applicare questo modello comportamentale ovunque ce ne sia bisogno, ed in Africa di esempi del genere di certo non sono mancati negli anni scorsi e non mancheranno purtroppo in futuro.

Tuttavia bisogna anche analizzare di volta in volta le contingenze che attorniano le vicende di questo tipo. Ad esempio, gran parte del successo appena ottenuto è dovuto anche al fatto che il Gambia è interamente circondato dal Senegal, per cui un accerchiamento militare è stato estremamente facile da attuare. Inoltre il Senegal ha avuto non pochi interessi nell’intervenire in Gambia, dato che Jammeh era sospettato di armare alcuni gruppi ribelli attivi proprio in Senegal. Va anche ricordato come la pressione internazionale vanti anche storie di insuccessi clamorosi. Primo fra tutti il caso del Zimbabwe nel 2008, dove la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale lasciò al potere il presidente Mugabe senza prendere alcuna posizione di rilevo. Bisognerebbe quindi lavorare in primis sulla coesione degli stati facenti parte di questo ampio e tanto diversificato continente, così da poter avere una risposta univoca in caso crisi tanto gravi come questa. Senza dubbio la strada però risulta essere lunga e irta di innumerevoli insidie.

In conclusione, ciò che si è appena verificato in Gambia è sicuramente un raggio di luce nell’immensa nebbia del sistema politico internazionale africano. Il neo presidente eletto Adama Barrow ha un mandato di tre anni davanti a sé, i quali saranno costellati di innumerevoli difficoltà, prima fra tutte quella di riconciliare il paese spaccato, diviso tra il vecchio ed il nuovo. Questa esperienza però può insegnare molto alla comunità degli stati africani. Per esempio, che l’unione di più entità statali singole, che non si comportano come universi a se stanti ma parti un insieme più grande, possono ottenere risultati grandiosi e con non poca ambizione. Che il caso del Gambia diventi un memento da ricordare, lo speriamo tutti. Solo il tempo dirà se questo è stato un caso isolato e fortuito, o l’inizio di una presa di coscienza reale di come vadano gestite situazioni tanto delicate e allo stesso tempo fondamentali per rispettare l’autodeterminazione dei popoli.



 

 

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