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medievale


N. 50 - Febbraio 2012 (LXXXI)

fonti letterarie cavalleresche
xii-xiii

di Alessandro Scalone

 

Analizzare la letteratura cavalleresca medievale in qualità di fonte storica può non essere semplice, sia perché si può facilmente incappare nell'errore di considerare ottimisticamente le opere che compongono questo specifico ambito come riflesso genuino della civiltà medievale sotto ogni aspetto, sia per via dello scarso numero di elementi riguardanti la realtà politica o sociale della cavalleria, sebbene il numero delle opere che abbracciano il campo cavalleresco in modo più ampio e generale, sopratutto sotto un punto di vista filologico-letterario, sia enorme.


Per essere precisi, tratterò di quel genere di fonti comprese tra il XII e il XIII secolo, con qualche accenno a opere letterarie dei secoli precedenti e successivi, in modo da permettere un confronto più comprensibile sullo sviluppo del ceto cavalleresco. La scelta di questo arco cronologico, è dovuta per lo più al fatto che nel corso di questi secoli si ha una grande produzione letteraria, dove vedono la luce le opere più famose e più importanti. L'area presa in esame è quella di alcune zone dell'occidente europeo, sebbene all'interno di questo spazio, la produzione letteraria medievale fosse variegata e differenziata da regione a regione. Ai fini di questo genere di ricerca inoltre, ho preferito concentrarmi su quella tipologia di fonti letterarie volte al cavaliere, limitandomi a citare qualche scritto che può riguardare questa figura in maniera generale, per evitare di risultare troppo dispersivo.


Prima di tutto, è di primaria importanza comprendere la natura di questa tipologia di fonti. Paolo Delogu, nel suo libro Introduzione alla storia medievale, connota le fonti di genere letterario come quell'insieme di testi scritti, in cui il fine non è quello documentario o di testimonianza degli eventi, ma che contribuiscono a mettere in luce i fondamenti della civiltà del Medioevo, per quanto essi possano accennare a personaggi, luoghi o realtà politiche a volte realmente esistite.

Queste opere ruotano attorno a coloro che, avendo ricevuto l'«adoubement», sono «milites» e pertanto fanno riferimento a un sistema di valori cavallereschi, i quali vengono elaborati in un periodo contrassegnato da una situazione e un contesto politico e culturale preciso: nel corso della riforma ecclesiastica del XI secolo, personalità quali Ildebrando di Soana (Gregorio VII), tentarono di dare a questa aristocrazia militare un'etica al cui centro stava la difesa della Chiesa e degli inermi (inermes).

 

Si cercò inoltre di dirigere la violenza delle guerre condotte fra aristocratici verso nemici comuni della cristianità, quali i Musulmani in Spagna e in Terrasanta, provvedendo a formare questo ceto guerriero in conformità ai valori della fede cristiana; si assiste a un atteggiamento molto diverso rispetto a quanto avveniva prima, poiché adesso la violenza viene nobilitata dalle virtù relative alla «Pax Dei». Il clero, ritenendo utile la valorizzazione spirituale della cavalleria, spinse per un processo che prevedeva la sublimazione sacrale dei rituali cavallereschi – come l'addobbamento – e delle virtù delle quali il cavaliere doveva fregiarsi. Figura per eccellenza di questo processo nella letteratura è il «Roland» a cui è dedicata l'omonima Chanson de Geste, le cui peculiarità martirologiche rimangono proverbiali.


Sono due i campi letterari principali nei quali il cavaliere viene collocato al centro della narrazione: l'epica e il romanzo. Si tenga a mente però che entrambi si distinguono tipologicamente, e fanno capo a differenti generi di letteratura etico-esortativa, oltre che seguire differenti gradi di sviluppo che spesso contribuiscono a caratterizzarli sul piano locale (da scritti di tipo etico-teologici, alle «Fabliau», ai sonetti, ecc).


I diversi generi di Chansons de Geste che troviamo nell'Europa basso medievale, stanno a prova del fatto che questo filone letterario non si atteneva a forme prestabilite che dovevano rispettare dei canoni prefissati, bensì risentiva della realtà socio-culturale circostante, delle tradizioni, dei miti e dal cotesto politico. Detto ciò, un primo aspetto di queste opere letterarie appare particolarmente interessante, cioè il legame a doppio filo che le collega alla società all'interno della quale sono state composte, e da cui sono state influenzate ma che hanno influenzato a loro volta.

 

Un altro elemento importante sottolineato da molti studiosi, riguarda le canzoni come canali di diffusione di lingue; ciò è stato interpretato come una componente di grande importanza al fine di costituire un identità locale, qualcosa che molti storici hanno definito come «territorializzazione», cioè la costituzione di un legame nei confronti di un luogo di appartenenza. Molti studiosi hanno sempre cercato di stabilire una correlazione fra le epopee e la storia.

 

Nell'ottocento ad esempio, nel bel mezzo del pensiero positivista, Gaston Paris, collegò le epopee alla storia tramite il canale dei canti composti fra l'ottavo e il decimo secolo, le quali sarebbero state riprese da parte degli autori del XI, per poi essere trasposte ai loro contemporanei in qualità di fatti storici avvenuti nei secoli scorsi. Altri hanno visto nella composizione di queste opere un rifarsi da parte degli autori a testi risalenti agli avvenimenti di cui trattano le loro opere, dandoli così una sorta di verità oggettiva.

 

Si tenga presente che all'interno di questo genere di opere, la storia riveste un'importanza molto limitata, poiché il lato fondante di questi scritti è sempre la poesia. Ciò sembra evidente anche dal fatto che furono composti a distanza di tempo dagli avvenimenti di cui trattano, e che i loro autori furono quasi del tutto indifferenti alla verità storica, benché siano presenti elementi riconducibili alla condizione sociale, religiosa o immaginativa dei secoli che li ha prodotti, ma non di periodi precedenti.


Vi è inoltre il dilemma dell'appartenenza dei testi epici a un autore: dal momento che la maggior parte delle chansons de geste sono anonime, ciò fa sì che risulti difficile comprendere affondo la loro formazione. Per di più, la loro trasmissione originariamente avveniva per via orale, soggetta pertanto a tutta una seria di modifiche dipese dall'esposizione da parte dei giullari, i quali si basavano sulla propria memoria per esporli al loro pubblico. Si possono intendere pertanto le epopee, non come opere scritte e dunque cristallizzate nelle parole, ma come componimenti in continuo movimento. Si intendono dunque i vari autori come rielaboratoti di queste canzoni, le quali arrivano infine a essere concretizzarli in una forma scritta, piuttosto che di veri e propri creatori.


Già, ma a che tipo di pubblico erano rivolte queste opere? Diversi studiosi in passato hanno concordato nell'affermare che chi assisteva alle esibizioni dei giullari era per lo più membro del popolo minuto, a differenza del romanzo che era dedicato agli ambienti di corte. A rifarsi a questa ipotesi è sopratutto Gauntier, critico letterario della fine del XIX secolo. Secondo il parere dello studioso di letteratura Köhler invece, il pubblico ideale delle canzoni sarebbe invece stato composto sia dalla gente comune che dai cavalieri.

 

Probabilmente l'ipotesi più plausibile potrebbe essere quella dello studioso Daniel Poirion, per cui il destinatario principale di queste opere era l'aristocrazia feudale, benché anche alla gente comune piacesse partecipare alle recitazioni dei giullari e emozionarsi nell'ascoltarle, sopratutto nelle descrizioni dei combattimenti. Il comune interesse per i testi epici, sia da parte nobile che della popolazione più umile, è collegato a un altro fattore molto interessante, e cioè alla comune mentalità che traspare dai componimenti e che poteva influenzare i due ceti, fornendoci informazioni su temi che spaziano dalla concezione del sistema feudale alla guerra contro i nemici della cristianità.


Non è raro trovare nelle chanon de geste riferimenti all'assetto politico dei secoli in cui sono state composte. Le istituzioni politiche feudali vengono riproposte molto dettagliatamente, con descrizioni che vanno dal ruolo del Re, visto come arbitro nelle contese fra nobili e figura alla quale si deve la lealtà vassallatica, oltre che come personaggio a volte contestato. Né mancano riferimenti al ruolo svolto dalla Chiesa, dato che come abbiamo visto, essa ha un ascendente di grande importanza all'interno del mondo cavalleresco.

 

In definitiva, quello che trapela da questo tipo di scritti è una ambiguità nei riguardi del clero e delle sue funzioni: per quanto essi siano considerati utili per la società, questo non impedisce agli autori delle opere e al loro pubblico, di divertirsi con un certo anticlericalismo. Pensiamo ad avvenimenti come quelli della quinta crociata (1217-1221), nel quale il vicario papale, Pelagio di Albano, pretese il comando dell'armata cristiana per poi non riuscire a difendere Damietta dal contrattacco musulmano: cominciarono allora a circolare canzoni contro preti che pretendevano di comandare eserciti invece di dir messa. Non mancano tuttavia figure come il vescovo Turpino nella «Chanson de Roland», forse emblema della componente guerriera nell'aristocrazia feudale e emblema del binomio monaco-guerriero.


Molti elementi rappresentativi del ceto cavalleresco hanno una grande rilevanza all'interno dei componimenti epici: genealogie, che si richiamano a una tradizione di fedeltà vassallatica nei confronti dei sovrani, modi di comportamento o riferimenti precisi all'addobbamento, sono peculiarità tipiche di questo corpo sociale, le quali aiutano a contraddistinguerlo e ad esaltarlo, ponendolo su un piano di superiorità nella realtà feudale.


Vi è anche un altro aspetto su cui i molti componitori mettono l'accento. Portare la spada veniva considerata la più alta delle funzioni, in quanto era ritenuto ruolo del cavaliere aiutare il re a governare. Questa componente è presente anche nella letteratura cavalleresca, soprattutto in relazione all'influenza ecclesiastica sui regnanti. Nelle opere epiche, così come in molti testi politico-morali, vengono spesso ammoniti i prìncipi o i re di non scegliere tra i propri consiglieri dei chierici, così come si vede nella «Chanson d'Aspremont», dove l'arcivescovo di Reims si prende gioco di un abate che vorrebbe dar consigli su come governare a Carlo Magno.

 

Anche a cavallo tra il Duecento e il Trecento, nel quale assistiamo al consolidarsi di una burocrazia statale dove la competizione fra gli ambienti ecclesiastici e quelli nobiliari per la gestione del potere può ritenersi pressoché sorpassata, è possibile trovare riferimenti nella letteratura, per cui veniva consigliato al re di mantenere il principio di una società tripartita, nella quale non era ammissibile che un chierico combattesse, ma dove si rispettano le sue doti di scrittura e di calcolo finalizzate al buon funzionamento della macchina governativa.


La componente guerresca è una peculiarità di enorme importanza per il ceto cavalleresco, in quanto attraverso di esso il cavaliere trova un auto-definizione. Non solo portare la spada denota uno status, ma anche il suo utilizzo lo è. I riferimenti a tattiche militari in battaglia non mancano di certo, come si vede nelle descrizioni nella canzone d'Antiochia, dove vengono descritte la schiere di cavalieri anonimi che affrontano il nemico in formazione, o come i duelli nelle giostre nei quali si trova una valorizzazione dell'abilità e dello spirito guerriero dei personaggi.


I richiami alla mentalità in questi scritti, ci forniscono informazioni preziose a proposito di aspetti riguardanti il contesto della crociata oltre che sull'immaginario che riguardava i musulmani. Nei componimenti come la «Chanson d'Antioche» o la «Chanson de Jérusalem», di Graindor de Douai, scritti nei primi decenni del XII secolo, vi sono descrizioni riguardanti la controparte cristiana, dove il conflitto fra cristiani e musulmani è visto attraverso un'ottica manichea, o come le descrizioni sulla loro fede ritenuta di stampo pagano, nel cui l'autore annovera come divinità di un «pantheon» islamico figure quali Apollo o Maometto.


La nascita del genere romanzesco è legata a una nuova fase della società feudale, avvenuta nella seconda metà del XII secolo in Francia, al quale si può ricondurre la formazione di ceti in modo molto più delineato rispetto a quanto non era avvenuto prima. Per quel che riguarda la nobiltà, la distinzione dagli altri ceti sia sul piano sociale che su quello militare, viene marcata ulteriormente, richiamandosi per questo scopo alla ripresa di tradizioni e pratiche precise del passato cavalleresco. Diversi testi appartenenti a questo periodo, fanno riferimento agli elementi che contraddistinguono il cavaliere, i quali sono interpretati non solo in chiave giustificativa o critica, ma anche come caratteristiche proprie dell'aristocrazia, come elementi cioè che gli consentano di non confondersi con il resto della popolazione.


In Francia il romanzo partecipa alla creazione di un'etica per quanto concerne il comportamento del suo pubblico di fronte all'amore, ai combattimenti o di fronte alla morte. Lo storico infatti può usufruire di questa letteratura per ricavare preziose informazioni a proposito della vita quotidiana o della mentalità del periodo pressi cui gli autori danno alla luce i loro componimenti, sebbene le descrizioni riferite alle varie realtà, siano meno attendibili delle canzoni di gesta, in quanto la trama risulta essere maggiormente abbellita, alterata e magnificata. Facciamo ad esempio il caso di un romanzo inglese, «King Horn», un romanzo appartenente alla seconda metà del tredicesimo secolo e che fu composto per conto di una famiglia nobile, con lo scopo di citare le sue origini leggendarie, elencando una genealogia che comprende personaggi immaginari e di alto valore.


Non ci si deve attendere pertanto un attento riferimento all'epoca da parte degli autori, poiché il pubblico di queste opere, composto quasi esclusivamente dall'aristocrazia, probabilmente non si attendeva altro che sentire parlare in modo lusinghiero e esemplare dei modelli di comportamento caratterizzanti del loro ceto.


Penso che valga la pena di citare anche un altro aspetto di questi componimenti, e cioè quello per cui si possono trovare delle allusioni al contesto politico in cui le opere sono state scritte: esistono trasposizioni letterarie di realtà politiche, come nel caso dei romanzi scritti contro la società ecclesiastica – soprattutto in area occitanica e all'indomani della crociata albigese – o come nel romanzo di Chrétien de Troyes, «Cligès», nella cui trama, a parere del francese Anthime Fourrier, autore di numerosi saggi sugli sviluppi della letteratura francese medievale, si fa un esplicito riferimento al progetto di far sposare il figlio di Federico Barbarossa, il futuro Enrico VI, con la figlia dell'imperatore di Bisanzio, Manuele Comneno.


Così come abbiamo visto nel caso delle canzoni di gesta, esistono diversi generi di romanzi medievali (dall'antico al bizantino, dal biografico a quello realistico), caratterizzati per componenti quali il luogo in cui il romanzo è ambientato, per la presenza di elementi quali combattimenti o tornei cavallereschi.


A differenza del romanzo francese, quello inglese tende a occuparsi meno di elementi tipici come l'amore idillico, dando più spazio agli atti eroici compiuti dal cavaliere. Ciò ha vari perché: innanzitutto il romanzo inglese fiorisce pienamente fra il 1280 e il 1380; prima di tale data difatti, questo genere scrittorio non venne espresso in forma vernacolare, e bisognerà attendere il XV secolo per avere opere in prosa. I testi francesi sono serviti certamente da modelli per quelli d'oltre manica; in molti di loro elementi quali le avventure di un singolo cavaliere, il tema dell'amore o l'ispirazione per le donne non mancano di certo.

 

Tuttavia se li confrontassimo più attentamente, noteremo delle grandi differenze in conformità alle circostanze di adattamento dei due modelli, oltre che per via del background culturale del pubblico a cui i due generi erano rivolti. Il romanzo inglese infatti, era principalmente rivolto alla gran parte della popolazione comune, estranea agli ambienti di corte. Ciò fu dipeso anche da una distinzione fra ceti meno marcata, e da un minor numero di aree sottoposte al controllo feudale. Si riscontra per di più molta più attenzione per tematiche che riguardavano la morale, il tutto espresso in termini meno sofisticati rispetto ai testi francesi.


Gli autori di queste opere, hanno inoltre meno a cuore temi legati alla sensibilità, alla introspezione o all'analisi del sentimento, preferendo trattare di condizioni inerenti alla vita comune, come appare nel «Havelok the Dane» (forse una ripresa di un poema francese) dove il protagonista è ritratto in scene di vita semplice in cucina o a pesca. Lo scopo di questi scritti è di quello di proporre un codice di condotta che ruota attorno ai temi della concezione del perfetto cavaliere: benché Havelok sia descritto in azioni umili infatti, gli avvenimenti eroici di cui è protagonista in altre parti dell'opera lo descrivono attorniato da un aura di profonda nobiltà.


Studi sugli scritti romanzeschi sono concordi nell'affermare come il mondo feudale tra il XIII e il XIV secolo fosse di scarso rilievo anche per gli autori che hanno composto opere nell'Italia del Nord. Il corso degli eventi in quest'area si presenta legato in misura maggiore alla realtà delle città comunali. In molte città settentrionali della penisola infatti, la presenza affianco a un'aristocrazia cittadina che ricopriva alte cariche istituzionali di altri ceti del popolo - i quali erano raggruppati in società di mestiere o rionali -, che spingevano per avere diritto di parola nelle decisioni che riguardavano l'amministrazione cittadina, comportò un maggiore interesse da parte dell'aristocrazia a sottolineare la sua posizione di preminenza, oltre che a separarla dagli altri ceti all'interno della mura cittadine, in particolare dall'emergente ceto borghese.


Anche in Italia lo sviluppo e la diffusione di una propria letteratura romanza ebbe un grosso ritardo. Sebbene siano riscontrabili elementi che si richiamano all'immaginario arturiano (come nel caso della cattedrale di Modena, dove degli elementi iconografici del XII secolo raffigurati in un archivolto riportano le storia di re Artù), bisognerà attendere diverso tempo perché si arrivi alla produzione di un romanzo come quelli d'oltralpe. Una grande apertura verso questo genere letterario avviene verso la fine de XIIIesimo secolo, ma l'influenza francese è tale da condizionare la lingua e i temi, come si vede nell'opera di Rusticiano da Pisa, il «Livre de merveilles», scritto in francese, dove è presente una vasta compilazione arturiana e di personaggi della corte del mitico sovrano.


Data la presenza e l'importanza di grandi città, oltre che dell'amministrazione spesso gestita dal ceto borghese,si è pensato a lungo che i romanzi fossero più indirizzati alla borghesia, che ai nobili. Inoltre nella penisola sono maggiormente presenti elementi che si richiamano all'antichità di Roma, facendone un luogo di elezione per il genere classico.

Da una buona parte dei brani che trattano la cavalleria e che ho citato sopra, si possono ricavare un nutrito elenco di attività e qualità che contribuiscono a delineare un modello aristocratico piuttosto preciso. Elementi di questo genere aiutano a identificare il cavaliere, soprattutto distinguendolo all'interno della realtà sociale dal resto della popolazione, o dal ceto della borghesia, contro la quale entrerà in contrasto negli ultimi secoli del Medioevo. Le peculiarità cavalleresche a cui farò riferimento riguardano la caccia, il gioco, la guerra, e l'amore.


È innegabile che la caccia rappresenti una componente essenziale del mondo aristocratico, non solo nel medioevo, ma anche oggigiorno (si pensi alla caccia alla volpe fatta dai nobili inglesi). In un opera letteraria di origine Britannica del Trecento del genere arturiano, il «Gawain and the Green Knight», le avventure che riguardano il protagonista si svolgono in un castello, dove in un arco di tre giorni vengono tenute battute di caccia dettagliatamente narrate, i cui rituali svolti – l'utilizzo del coltello per scuoiare la preda o i cani che attendono la loro parte – fanno ben intendere l'importanza identitaria che ricopriva quest'attività per l'aristocrazia.

 

A questo proposito, un altro aspetto da sottolineare è anche la presenza di animali quali cani o cavalli, animali nobili tipici del ceto cavalleresco. A queste bestie se ne somma anche un'altra: il falcone. Questo infatti non è solo un lusso economico straordinariamente costoso – tale che solo i nobili potevano permettersi -, ma è anche la prova dell'educazione ricevuta nel suo impiego, e quindi dello status di appartenenza. Nel «Decameron» di Giovanni Bocaccaccio ad esempio, si vede il nobile Federigo degli Alberighi che, dopo essere caduto in disgrazia, conserva il suo falcone come ultimo ricordo della sua passata condizione da nobile.


Sebbene nella società medievale tutti giocassero, per la realtà aristocratica quest'attività veniva intesa sia come un modo per stare in società, sia come un elemento che evidenziava l'appartenenza a un ceto sociale. Se tutti giocano a dadi, nobiltà compresa, solo quest'ultimi sapevano giocare a scacchi. Questo divertimento infatti, importato in Europa dagli Arabi attraverso la Spagna tra il IX e il X secolo, veniva visto come un'utile modo per l'aristocrazia di apprendere le strategie per la loro vocazione originaria: la guerra. Affinché il cavaliere imparasse anche gli aspetti della vita di cui faceva parte, il gioco comprendeva caratteri significativi della realtà in cui egli viveva. Questo è il caso del torneo, ma anche del gioco di società o di quello amoroso: se un cavaliere giocava a scacchi con una dama, ad esempio, era considerato buon gusto farla vincere.


Per quanto riguarda la guerra, in essa erano presenti due componenti: quella ludica e quella bellica. Le peculiarità di questi due aspetti si riscontrano sia nell'uno che nell'altro ambito: così come i combattimenti che avvenivano nelle giostre sono trasposti in qualche misura sui campi di battaglia, allo stesso modo l'esito degli scontri che si svolgevano in guerra erano dettati dalla esperienza guadagnata nei tornei fra cavalieri. Come si può vedere in una cronaca risalente alla prima decade del XIV secolo di Dino Compagni, in occasione della guerra condotta fra Firenze e Arezzo, gli aristocratici si distinsero dai villani sul campo di battaglia in quanto amavano e sapevano come fare la guerra, e ciò dipendeva anche dall'allenamento ricevuto presso giostre e tornei. Inoltre, l'appartenenza a questa realtà sociale aveva dei risvolti persino nel possesso delle armi, fungendo da differenziazione nel momento in cui nuovi ceti cittadini, come la borghesia, entrarono in piena fase di ascesa sociale.


Il saper maneggiare le armi in battaglia, ma in particolare riportare delle vittorie nelle giostre, portava l'ammirazione da parte delle donne che assistevano a questi eventi. Per quanto riguarda il gioco del cortigiano, il nobile si identifica proprio perché sa in che modo comportarsi nei confronti delle donne, senza escluderne una componente erotica. Geoffrey de Charny, un cavaliere e uno scrittore francese della prima metà del XIV secolo, asserisce che l'onore si acquisisce con i fatti d'arme, di cui il premio più gradito è di certo il successo presso il pubblico femminile.


Per quel riguarda altri aspetti caratterizzanti della società cavalleresca, di indubbia importanza possono risultare gli studi del sociologo Elias, raccolti nell'opera «Prozess der Zivilisation», pubblicati nel 1969, e riguardanti le buone maniere presso le società di corte nel corso della storia. Benché la sua ricerca si fondi sui testi di natura normativa, pertanto diversi da quelli che ho scelto di prendere in esame, Elias denota il comportamento da parte dei ceti nobiliari come un elemento che contribuisce a formare un'immagine netta di questo gruppo sociale, in modo da autodefinirsi e escludendo allo stesso tempo tutti gli appartenenti ai ceti inferiori. A loro volta, l'immagine che si forma di quest'ultimi deriverebbe dall'imitazione del modello aristocratico.

 
Il suo studio ha inizio dalle società del XII secolo, ma tuttavia il punto di partenza è da collocare nel Cinquecento, poiché Elias si richiama principalmente all'opera di Erasmo da Rotterdam «De civilitate morum puerilium». Ciò perché il libro di Erasmo, è letto in modo tale che risulti tornante su un arco cronologico che si ricollega automaticamente agli aspetti del passato, consentendo così, quasi in un'ottica evoluzionistica, di tracciare un filo conduttore attraverso le abitudini che Elias prende per la sua ricerca. Tuttavia anche altri autori vengono annoverati fra le fonti a questo studiose fa riferimento, come Baldassare de Castiglione o Monsignor della Casa.


Un testo in particolare, che penso valga la pena di menzionare, sono i «Sonetti per l'armamento di un cavaliere» di Giacomo di Michele, detto «Folgore», da San Gimignano (località nei pressi di Siena), collocabili fra il 1295 e il 1308. Costui era un guelfo vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, sensibile alla realtà cavalleresca a cui dedica questi cinque sonetti che ne sottolineano i tratti morali e materiali. Il motivo di questo è anche il fatto che Folgore fa parte dell'ambiente cavalleresco della sua città: in un paio di documenti risalenti al 1332 (data della sua morte) conservati nell'archivio di San Gimignano, troviamo dei riferimenti proprio a questo personaggio, ad esempio «heredes Domini Folgoris» e «Nicolus gener Domini Folgoris». Il termine «Dominus» si riferisce allo status cavalleresco di Folgore, inserendolo anche nell'ambiente della nobiltà cittadina.


In questi sonetti si precisano le virtù del cavaliere, cioè la prodezza, l'umiltà, la discrezione e l'allegrezza. Folgore presenta nella sua opera queste qualità, richiamandosi al passato della cavalleria e legandosi allo stesso tempo alla realtà urbana in cui vive. Essere nominati cavalieri in questo ambiente assume altri tratti rispetto a quelle presenti in una società feudale, in quanto fattori come il gioco, o eventi ludici divengono caratterizzazioni del ceto cavalleresco, il quale manterrà gesti, rituali e mode del passato a scopo identificativo.

In sintesi, ho cercato di dimostrare la rilevanza della letteratura cavalleresca in qualità di fonti storiche e come esse permettano di comprendere meglio le virtù o le componenti che hanno caratterizzato maggiormente il ceto cavalleresco sia nella società feudale che in quella cittadina. Gli elementi che traspaiono dagli scritti che ho citato, sottolineano i tratti che aiutano a comporre un idea identificativa della cavalleria, sopratutto in conformità ai ceti emergenti del XII e del XIII secolo in ambiente urbano. Oltre a ciò, esse permettono di avere informazioni sulla civiltà medievale per quanto riguarda argomenti come l'immaginario, il metodo di comportamento ideale, sino anche le considerazioni concernenti altri popoli.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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