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N. 71 - Novembre 2013 (CII)

PENELOPE E LE ALTRE
Riflessione su alcuni personaggi femminili dei Poemi Omerici

di Raffaella Di Vincenzo

 

L’Odissea non è soltanto il racconto di un uomo, un uomo che, suo malgrado, è diventato l’ archetipo del sentimento europeo moderno; l’Odissea è il racconto dell’intelligenza e del dono della parola.

 

Non è la prestanza fisica la forza di Ulisse la sua forza sono le parole, quella capacità di trovare espressioni “simili a fiocchi di neve in inverno”. Omero, il poeta per antonomasia, elimina del tutto le componenti eroico-guerriere nella figura di Ulisse riallacciandosi alla concezione preomerica di un eroe astuto e molto paziente; questa figura assurge ad immagine di un uomo del tutto nuovo, tratteggiata con una sottile forza poetica.

 

La figura di Ulisse include tutti gli ambiti umani, compresi i pastori ed i mendicanti, tutti i ceti, le stirpi e le età. All’inizio del poema Ulisse è definito “l’uomo che molti dolori patì” e questo lo rende, non soltanto moderno, ma anche e soprattutto fragile.

 

Fragilità ed intelligenza, fuga e curiosità cosa può esserci di più affascinante?

 

Omero, e con lui gran parte della tradizione greca che in questo poeta s’identifica, gioca su questo senso di fascino ipnotico-paralizzante.

 

Questa tradizione ha stracciato i secoli facendone un'unica coperta e l’eco di gesta eroiche ed astute così similari alle “umane sorti e progressive”, è giunta fino a noi non soltanto attraverso Omero, ma attraverso Dante Alighieri che forse nel suo pellegrinare si sentì al nostro così simile:

 

“Quando mi dipartì da Circe, che sottrasse

Da me più di un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,

 

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né l’debito amore

lo qual dovea Penelope far lieta,

 

vincer potero dentro me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore;

 

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola dalla qual non fui diserto.

 

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Marocco, e l’isola d’i Sardi,

e l’altre che quel mare intorno bagna.

 

Io e ‘ compagni eravamo vecchi e tardi

Quando venimmo a quella foce stretta

Dov’Ercole segnò li suoi riguardi

 

Acciò che l’uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

dall’altra già m’avea lasciata Setta.

 

O frati, dissi, che per cento milia

Perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto piccola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperienza,

di retro a sol, del mondo sanza gente.

 

Considerate la vostra semenza;

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza”

 

Fascino, ipnosi, paralisi che fecero di Ulisse l’uomo ideale; e Penelope?

 

La mitica figura di Penelope ha riflesso, in quasi tutta la storia del pensiero occidentale, l'archetipo dell’ eroina, secondo la visione maschile della donna perfetta: sposata, fedele, immersa nella sua abnegazione e nella sua casa, dove pratica le arti femminili come la tessitura e il ricamo.

 

Molti stimati grecisti vogliono che Penelope derivi da phneloy opos che avrebbe il significato di  aix galeri culata o anas penelope, cioè anitra mandarina o fischione; ciò si lega al fatto che la si considerava figlia di naiade.

 

Una naiade è ninfa delle acque preposta alla fonte che presiede, un uccello acquatico ne è personificazione. Per Graves che l’accosta alla “pavoncella”, simbolo dell’Occultamento del Segreto, potrebbe aver significato di “stratagemma”, perchè difatto Penelope escogita uno stratagemma per sfuggire ai Proci.

 

Ma il nome Phneloph  contiene in sé la parola phne, hs (pène, pènes), tela (indoeuropeo èpèn e latino pannus) quindi phnelopeia è “colei che tesse la tela”. Il disegno che esegue è la sua vita: Penelope fila dunque il “tempo della vita” come fece  Sherazaad attraverso le sue storie.  

 

La prima apparizione di Penelope fornisce i caratteri significativi del suo ritratto. Il poeta la coglie  nella sua più intima collocazione e disposizione: la tela e il letto coniugale,  appartata, ma ricettiva e comunicante con il resto della casa e delle persone.

 

La regina è tesa nell’atto di ascolto, come è la natura della sua solitudine, così diversa da quella di Circe e Calipso. La tela ed il talamo nuziale sono espressioni della sua più intima interiorità. Le stanze alte di Penelope sono lo spazio della concentrazione dentro cui nasce il filo. Qui, Penelope sente il canto. Immediatamente scende la scala e raggiunge il piano inferiore: suo figlio, i proci, l’aedo, il flusso aereo del canto stesso.

 

La scala è un elemento architettonico importantissimo. Costituisce lo strumento oggettivo e simbolico per la comunicazione dei due piani, quello interiore di Penelope e quello per così dire sociale.

 

Nella sua prima apparizione, dunque, Penelope interrompe il canto con la parola. L’atto è gravissimo. L’errore di Femio sta nel portare una poesia di lutto, quando di Ulisse non si sa nulla. Qui, la parola di Penelope è di estrema importanza, attualissima e concreta perché nasce dall’interruzione di una corrente totalmente acclamata.

 

Femio mette fiato alla poesia che quel pubblico vuol sentire, assicurandosi così il consenso; l’opposizione di Penelope è tutt’altro che discreta. Giudica la responsabilità del cantore e lo condanna.

 

Telemaco fraintende: non è l’incapacità di sostenere il dolore che può essere rimproverato alla madre, tutt’altro. Con ottusa autorità, la rimanda all’invisibilità delle sue stanze alte. Penelope ha stupore, ha la stupefazione propria di chi constata l’interpretazione degli altri estremamente deformata, addirittura rovesciata.

 

Ha meraviglia per tanta distanza irreparabile. Anche e soprattutto dal figlio. Obbedisce. Risale la scala, il proprio intimo e muto ritiro e piange mentre Atena la sprofonda nel sonno. A questo punto c’è un’unica riflessione da fare: quanto è cara la solitudine della donna, quanto costa il “tener fede” e la speranza e viene da chiedersi cosa sia la solitudine per Calipso che, distintamente da Penelope e Circe, è l’unica ad implorare Ulisse, a trattenerlo, disposta ad offrirgli il dono assoluto, la stessa divinità.

 

Ciascuna di queste donne sa che avrà il segno di quest’uomo di passaggio: Circe e Penelope lo accolgono con rigore e nel momento in cui lui dichiara la sua necessità di andar via accettano, non implorano e tacciono.

 

La loro solitudine sta nell’accettare e conoscere la propria identità vivendo alla luce di tutti ma non alla portata di tutti. C’è però una sottile differenza: mentre Circe vive il suo amore in senso assoluto, fisico, viscerale ed il senso di fedeltà è puntato unicamente verso il fondo di se stessa e per questo aiuta Ulisse, Penelope dirige invece la sua devozione verso l’esterno, per amore di Telemaco e la conservazione del regno di Itaca.

 

In un certo senso Penelope ha una maggiore responsabilità che le deriva dall’altro da sé, dall’esterno e dalla minaccia dei Proci. Si potrebbe fare in conclusione un’ultima riflessione: nella sottile trama dei richiami ai personaggi dell’Iliade, si potrebbe associare la bellezza di Penelope soprattutto ad Elena e Briseide, per le quali, come per la regina di Itaca, si ha lo scontro tra il marito legittimo (o presentato come tale, nel caso di Achille) e uno o più usurpatori.

 

Tra le due eroine iliadiche, tuttavia, pare che il poeta dell’Odissea punti al confronto di Penelope in particolare con Briseide, e che lo proponga su due piani: il primo è quello del parallelismo tra i protagonisti dei due poemi, Achille e Odisseo, che, pur nella radicale differenza di carattere, dimostrano analogo affetto – e con simili parole – verso le loro a mogli, da cui vengono separati contro la loro volontà.

 

Il secondo piano è quello  dell’incolpevolezza nei confronti del compagno (cf. Il. I 348, XIX 297ss.),  anche se la condizione di schiava di Briseide le impedisce qualsiasi possibilità  d’intervento sul proprio destino e, lasciandola sullo sfondo dell’interesse del  narratore, ci consente di intuirne solo fuggevolmente  i sentimenti e il dramma umano.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Farabi, A. M., “La tela di Penelope”, Roma 2003.

Alighieri, D., “Commedia”, Inferno Canto XXVI

Omero, “Odissea”, Libro I; Iliade, Libro I-XIX-XX

AA.VV., “Ulisse figura di un uomo”, Catalogo Mostra, Roma 2001.

Barquet, J.Jesus,  Función del mito en los Viajes de Penèlope de Juana Rosa Pita, in «Revista Iberoamericana», Vol. LVI, Giugno-Dicembre 1990, n. 152-153, pp. 1269-1283.

Boitani, P., L'ombra di Ulisse, Bologna 1992.

Gentile, B., I Viaggi di Penelope. L'Odissea delle Donne, immaginata, vissuta e interpretata

dalle scrittrici latino-americane contemporanee, Roma 2012.



 

 

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