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N. 53 - Maggio 2012 (LXXXIV)

FEDERICO II E LE COSTITUZIONI MELFITANE
Il primo corpus legislativo di uno stato “moderno” in Europa

di Massimo Manzo

 

Federico II di Svevia è una delle figure più complesse e affascinanti che la storia abbia conosciuto. Questa sua unicità è dovuta non solo alla modernità  della sua persona, che seppe incarnare insieme il regnante, il filosofo, il letterato, lo scienziato, quanto al periodo particolarissimo nel quale visse e che lo vide inevitabilmente protagonista.

 

Nato a Jesi nel 1194 da Enrico VI di Svevia e Costanza d’Altavilla, figlia del sovrano normanno Ruggero II, ad appena quattro anni  Federico venne incoronato a Palermo re di Sicilia, dopo la morte del padre avvenuta nel 1197.

 

L’infanzia del giovane regnante si svolse quindi a Palermo, in un ambiente multiculturale e ricco di stimoli intellettuali, che avrà un ruolo fondamentale nella formazione del pensiero del futuro stupor mundi. Il regno di Sicilia rappresentava infatti una delle entità statuali più evolute dell’epoca.

 

I re normanni, soprattutto Ruggero II (primo re di Sicilia) avevano creato l’embrione di uno stato unitario e centralizzato, arrivando ad unificare le conquiste normanne dell’Italia meridionale sotto  un unico sovrano e  rendendo la corte siciliana una delle più colte e sofisticate d’Europa.  Federico assorbì in toto  l’ambiente siciliano dell’epoca facendone la base per la sua modernissima visione dello Stato e della società. Anche dopo la nomina ad imperatore del sacro romano impero, avvenuta nel 1230, la sua volontà era quella di rendere la Sicilia “lo specchio, la norma di ogni dominio regale e l’invidia dei principi”. Insomma un modello per l’Europa, in grado di esprimere anche una sorta di laicità, intesa come indipendenza delle strutture statuali  dall’influenza della Chiesa e del Papa.

 

L’opera giuridica più rappresentativa di questa nuova visione di stato e società è senza dubbio rappresentata dalle Constitutiones Melphitanae, note anche come Liber Augustalis. Emanate nel 1231 a Melfi, nell’attuale Basilicata, esse rappresentano il primo codice medievale inteso non solo come “raccolta di leggi” preesistenti, ma anche come superamento della concezione   statuale feudale e costruzione di un modello di Stato “moderno”.

 

Federico era infatti pienamente consapevole del fatto che se intendeva continuare l’opera politica dei suoi predecessori normanni, doveva dare una sistemazione razionale alla frantumazione di regole e giurisdizioni preesistenti, unificandole in un corpus unitario di norme. In altri termini all’unità politica doveva corrispondere un’unità giuridica del regno.

 

La redazione di tale imponente opera legislativa fu affidata ai maggiori giuristi dell’epoca, tra cui spiccano i nomi di Pier delle Vigne, Jacopo di Capua, Michele Scoto, Roffredo di Benevento,  i quali riuscirono a sintetizzare in perfetta armonia  norme di diritto romano-giustinianeo con norme di origine longobarda, normanna, canonica. Così come nella Cappella Palatina di Palermo,  anche qui riuscivano a convivere perfettamente integrati elementi appartenenti a culture diversissime tra loro.

 

Il modello a cui Federico  si ispira nella sua volontà di restaurazione dell’autorità imperiale è  però chiaramente il “Corpus Iuris Civilis” di Giustiniano. Ciò appare chiaro già dal proemio delle Constitutiones, nel quale egli si proclama “ Felix Pius Victor et Triumphator”, proprio come aveva fatto Giustiniano nel proemio delle Istituzioni.

 

L’opera si suddivide in tre libri, ciascuno dei quali ha la sua rubrica. Il primo disciplina l’ordinamento del regno, soffermandosi in modo particolare sul ruolo del sovrano, delle magistrature e delle finanze; il secondo si occupa del diritto  processuale, mentre il terzo comprende norme eterogenee che lambiscono il diritto privato, penale e feudale.

Se si guarda poi al contenuto di tali norme, non si può che rimanere sbalorditi dalla loro modernità, soprattutto  rispetto a quelle che disciplinano l’amministrazione della giustizia.

 

L’affrancamento del potere imperiale da quello ecclesiastico da un lato e da quello delle baronie locali dall’altro,  appare chiaro già nella ripartizione del potere: esso ritornava pienamente nelle mani dell’imperatore, che lo esercitava affiancato dalla Magna Curia, ovvero il consiglio dei massimi funzionari imperiali.

 

I baroni dovevano sottostare all’autorità imperiale non potendo più amministrare la giustizia e venivano controllati attraverso la creazione di un vasto sistema burocratico fedele al sovrano.  Fu abolito l’appalto delle cariche e per  tutti i funzionari furono stabiliti dei compensi fissi.

 

La supremazia dell’imperatore sul Papa fu inoltre avvalorata da una serie di norme  contro l’eresia o contro altri crimini anticristiani, la cui repressione non è più affidata ai tribunali ecclesiastici ma alla giustizia “laica” dell’imperatore. Agli ecclesiastici era fatto divieto di interferire negli affari secolari.

 

Fu potenziata poi la figura già esistente del giustiziere, ovvero colui che  amministrava localmente la giustizia, il quale rimaneva in carica per  un anno e non poteva essere nominato in una provincia ove avesse possedimenti.

 

Ad ulteriore salvaguardia della sua terzietà egli doveva giurare di salvaguardare le esigenze dei querelanti e di pronunciare un giusto verdetto “ con Dio e la giustizia davanti agli occhi”. Si tratta, in fondo, di ciò che oggi i giuristi chiamano “due process in law” ovvero del principio del giusto processo.

 

Anche se, in un’ottica pienamente medievale, la legge corrisponde ancora alla volontà del sovrano, tuttavia questi principi sono nella sostanza, equivalenti ai moderni criteri di imparzialità del giudice, di uguaglianza di fronte alle leggi e di efficienza nell’amministrazione della giustizia.

 

Gli ebrei e i musulmani erano esplicitamente “sotto la protezione del re”, il che gli garantiva di poter esercitare il proprio culto abbastanza liberamente e al riparo da possibili persecuzioni.

 

Le Constitutiones sono modernissime anche in altri campi, come quello sanitario.  In esse è infatti per la prima volta affrontato il problema della salvaguardia dell’igiene nelle città, attraverso la regolamentazione delle attività di pulizia, ed è inoltre vietato l’esercizio della professione medica senza un diploma universitario ed una adeguata licenza.

 

Si tratta, insomma, di un documento giuridico unico nel suo genere, scaturito dalla mente geniale di Federico II e che testimonia la singolarità del regno di Sicilia nell’orizzonte dell’Europa occidentale dell’epoca.

 

Di fatto si sanciva il superamento del feudalesimo, anche se nella realtà, dopo la morte dell’imperatore e il successivo periodo di grave crisi del potere centrale, i baroni feudali cercheranno di strappare nuovamente al sovrano le prerogative che questi gli aveva tolto in nome dell’unità dello Stato.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Vol. I, Bari 1973.

John Julius Norwich, Il Regno nel Sole. I Normanni nel Sud: 1130-1194. Milano, 1972.

Mario Ascheri, Appunti di storia del diritto nel Medioevo, Bologna, 2006.          

M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Federico II, ragione e fortuna, Bari, 2005.



 

 

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