.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 24 - Dicembre 2009 (LV)

Il fallimentare State-building Afgano
(1964-1975)

di Pietro Salvatori

 

“Tenete presente che ci definiranno aggressori, ma nonostante ciò, non possiamo permetterci in nessun caso di perdere l’Afghanistan. […] È perfettamente chiaro che l’Afghanistan non è ancora pronto a risolvere tutti i suoi problemi mediante il socialismo. L’economia è arretrata, la religione islamica è predominante e quasi tutta la popolazione delle campagne è analfabeta. Noi sappiamo che cosa ci ha insegnato Lenin a proposito di una situazione rivoluzionaria. Qualunque sia quella di cui parliamo, in Afghanistan non è di questo tipo.”

La citazione di Andropov, pronunciata durante la riunione del Comitato Centrale del Politbijuro del PCUS del marzo del 1979, è paradigmatica della situazione del paese afgano alla fine degli anni ’70.

Un territorio scarsamente popolato, dedito quasi interamente ad un’agricoltura di stampo sussistenziale, la cui configurazione politico-istituzionale era ancora dominata in prevalenza dall’influsso del sistema tribale sulla quale si era incardinata per tutto il secolo precedente.

Se da un lato l’Afghanistan, a livello di controllo sociale e territoriale si affidava ad una frammentata struttura clanica, dall’altro rilevava un’insospettabile stabilità del regime al governo. Dal 1933 al 1973, infatti, il sovrano Zair Shah mantenne il controllo del potere centrale di quella che si è configurata come una monarchia tradizionale almeno fino al 1964, anno nel quale il re si convinse ad emanare una Costituzione nominalmente di stampo democratico. Certamente ci si può domandare se e come un governo che non deteneva il monopolio assoluto della forza, che amministrativamente controllava un 40% scarso del territorio e che faticava enormemente (o si disinteressava volutamente) ad esercitare il proprio potere al di fuori dei principali centri urbani (Kabul, Herat, Jalalabad, tra i più importanti) potesse essere simbolo reale di una stabilità a livello di regime politico.

Certo è che i quarant’anni di governo dello stesso vertice statale in un paese che dall’inizio del secolo scorso ha visto tramontare non democraticamente ben 11 diversi governi, inserito in un’area geopolitica e in possesso di una struttura socio-economica sicuramente non favorevoli ad una stabilità a lungo termine, non è aspetto di cui non tener conto.

In particolar modo, a partire dalla concessione della Costituzione del 1964, il clima politico afgano sembrava indirizzato su una transizione morbida verso un regime di stampo monarchico costituzionale con un parlamento liberamente eletto. In realtà, fino al 1973, anno di deposizione del sovrano, il processo di instaurazione democratica e di legittimazione istituzionale non fu mai portato pienamente a termine, anche se una valutazione definitiva del tentativo compiuto da Zair Shah negli ultimi anni del suo governo è ad oggi più che complessa data la scarsità di fonti (dirette e indirette) in nostro possesso.

Un indicatore di una qualche rilevanza quale testimone del clima di tendenziale progresso sulla china democratica è la costituzione, nel 1965, del Partito del Popolo Afgano, formazione di stampo socialista e marxista, che proprio sfruttando la liberalizzazione determinata dalla nuova carta costituzionale si poté costituire come partito ufficialmente riconosciuto. Certo è che, esaminato singolarmente, questo dato non ci consente di affermare con compiutezza che la strada intrapresa dal Paese dal 1964 sino alla caduta del sovrano, avvenuta nove anni dopo, sia stata quella del consolidamento di istituzioni democratiche.

Si può invece affermare che il decennio a cavallo degli anni ’70 abbia rappresentato uno dei periodi più vivaci e fecondi di tutta la storia politico-istituzionale afgana, testimoniando un tentativo di trasformazione verso qualcos’altro rispetto la autocrazia di stampo paternalistico-tribale che aveva detenuto le redini del potere sino al 1933.

Il cambio di regime avvenuto nel 1973 non si può interpretare correttamente se non si tengono presenti le tre sfere politico-culturali sulle quali si incardinava in quegli anni la società e la politica del paese. Oltre alla già accennata dimensione tribale e ad una facilmente intuibile linea di frattura religiosa (sia tra islamici e laici, ma soprattutto fra sciiti e sunniti), rilevante clivage era quello etnico, che tagliava trasversalmente l’intero paese, favorito nella sua strutturazione dalla impervia morfologia della regione e dalla scarsità di infrastrutture moderne ed efficienti.

La divisione clanica ed etnica, giocando allora (così come oggi) un ruolo di assoluta protagonista sullo scacchiere afgano, si pose come forte ostacolo al tentativo di modernizzazione liberal-democratico portato avanti dal re, indipendentemente da quanto sincero ed effettivo esso fosse.

In particolare, buona parte della legittimazione del sovrano nel suo tentativo di democratizzazione derivava dalla Loya Jirga (riconvocata dal re dopo sessant’anni), assemblea informale rappresentativa delle varie tribù e dei vari clan locali, egemonizzata in buona parte dall’etnia dei pastu, che per primi la crearono e la utilizzarono al proprio interno, che compongono appena il 40% del tessuto sociale afgano. Lo stesso Zair Shah era membro di etnia pastu, in particolar modo della tribù dei Durrani.

Non si può paragonare la Loya Jirga alla stregua di un parlamento di stampo occidentale, non essendone definiti i criteri elettorali per accedervi, e riunendosi essa ad hoc e a tempo indeterminato per discutere questioni di precisa rilevanza a livello “nazionale”, e non svolgendosi al suo interno alcun tipo di votazione. Le decisioni venivano infatti deliberate all’unanimità o per acclamazione.

Si può dunque affermare che l’ordine sociale e politico afgano fosse basato su una costante composizione degli interessi particolari delle varie “periferie” politico-amministrative, senza la possibilità da parte del centro, nonostante gli stessi sforzi del sovrano, di creare un reale monopolio del potere legittimo, e nel quale il concetto stesso di autorità razionale-legale era sostanzialmente assente.

Nonostante ciò, l’etnia Durrani, della quale il re era espressione, aveva, dalla fine del XIX secolo, svolto un’importante azione unificatrice della frammentarietà del territorio e delle istituzioni in direzione di una legittimazione del potere centrale facendo leva sul rapporto che correva fra identità nazionale e religione. Principale ostacolo a questo tipo di politica, che conduce a ritenere come il “periodo liberal-democratico” - inaugurato nel 1964 e terminato, dopo il sussulto del colpo di stato repubblicano, intorno al 1975, ben prima, dunque, del colpo di stato di matrice marxista-sovietico - non sia stata un’esperienza compiuta, risultò l’appartenenza di una larghissima maggioranza della popolazione afgana alla setta degli hanafiti, corrente del sunnismo ostile alle logiche centraliste e gerarchiche che l’amministrazione centrale cercava di legittimare, e sostenitrice del governo minimo, fondato sull’auto-governo delle comunità locali e su un’ingerenza leggerissima del potere centrale.

Se da una parte il tentativo di legittimazione dell’autorità del sovrano aveva con successo fatto leva sul clivage religioso e sulla tolleranza tipicamente hanafita e sufita rispetto alle altre sette islamiche, esso però impediva un riconoscimento che non fosse più che formale. Proprio il tentativo di concretizzare il proprio controllo sulle comunità etniche e tribali condurrà ad un ritiro di quella fiducia formale che le stesse avevano conferito fino alla metà degli anni ’60 ad un sovrano religiosamente a loro affine, conducendo alla progressiva delegittimazione istituzionale che spingerà i golpisti capeggiati da Daud a ritenere necessaria la sua deposizione.

Il tentativo di modernizzazione politico-istituzionale portato avanti da Zair Shah aveva dunque acuito le differenze di condizione socio-economica delle varie realtà territoriali, esasperando la frattura tra le città, dove le specifiche determinazioni del governo centrale potevano essere realizzate con una certa puntualità, e le campagne, che, per i fattori già espressi, risultavano in gran parte impermeabili, e che risultavano sostanzialmente ostili alle politiche del governo, che venivano generalmente interpretate come il tentativo dell’etnia pastu di porre un proprio controllo sul paese.

Interpretazione non del tutto lontana dal vero durante gli anni dominati da Daud, cugino del re, che fu nominato Primo Ministro nel 1953 e rimosso proprio in coincidenza della proclamazione della costituzione nel 1964, per i suoi metodi considerati generalmente autocratici che male si conciliavano con una svolta di stampo pluralista.

Il “decennio liberal-democratico” non sortì l’effetto desiderato, quello cioè di rendere i vari particolarismi di cui si costituiva la spina dorsale del sistema afgano parti integranti della gestione del potere, e le principali questioni rimasero irrisolte, se addirittura non si acuirono.

Le spinte dirigiste di Daud, appoggiato dalla gran parte dell’elite militare, formatasi quasi interamente nell’Unione Sovietica, dove aveva assorbito tendenze laiche e moderniste, portarono qualche anno dopo alla deposizione del re, ormai privo del sostegno delle varie realtà locali.

Partendo dal presupposto che la situazione, per come la si è descritta fino ad ora, non lascia pensare all’esistenza di un regime avviato verso una transizione democratica per come la intendono Linz e Stepan, mancando un consenso diffuso sulla strada intrapresa da Zair Shah - ed essendo probabilmente il tentativo stesso del sovrano un’apertura tattica nel tentativo di modernizzare il paese senza ricorrere a drastiche imposizioni di tipo autoritario - la domanda da porsi è se il cambiamento stesso del nome del paese in Repubblica Presidenziale avvenuto dopo il golpe fosse sintomatico del crollo di un regime e dell’instaurarsi di una reale fase di transizione, o piuttosto se non abbia contribuito ad interrompe un timido progresso di stampo democratico.

A posteriori, nonostante la scarsità di fonti in nostro possesso, tenderemmo a propendere per la seconda ipotesi.

Il primo anno e mezzo del governo di Daud, sospinto dall’entusiasmo di una provvisoria unità dell’elite tribale, fu sospinto da una sincera “tentazione” democratica.

Ma non riuscendo a controllare i marcati caratteri localistici e particolari della società afgana, ben presto l’ex primo ministro rispolverò quella tendenza autocratica che contribuì al suo allontanamento nel 1964. L’accentramento di sempre più potere nelle proprie mani snaturò il percorso che era stato appena intrapreso, inferendo un ulteriore duro colpo alla legittimazione di un sistema di stampo democratico già apertamente in crisi.

La decisione, poi, di non sciogliere il Consiglio della Rivoluzione, l’organismo che aveva coordinato e promosso il colpo di stato, poneva un’ulteriore ombra sui contenuti che avrebbero dovuto sostanziare il tentativo di cambio di regime.

Si potrebbe in qualche modo sostenere che Daud, nel primissimo periodo del suo governo, non fece altro che spostare l’azione e l’interesse del governo dall’asse della frattura centro/periferia a quello della frattura socioeconomica e religiosa, vedendo nella laicizzazione e nella modernizzazione forzata del tessuto sociale ed economico del paese la via preferenziale per la trasformazione dello stesso in una democrazia di stampo occidentale.

I forti attriti contro i quali si dovette scontrare in brevissimo tempo (già nel 1975 avvenne una sollevazione di matrice fondamentalista contro il governo), condussero Daud lungo una china sempre più autocratica, riportando il paese alla condizione di prima del 1964 e annullando le pur lievi trasformazioni il cui cammino era iniziato nell’ultimo periodo del regno di Shah.

Le derive laiciste che Daud contribuì a innervare nella cultura politica locale, fino ad allora marginali e sconosciute, saranno uno dei fattori che alla fine del decennio porteranno alla fine della Repubblica Presidenziale, sostituita dalla Repubblica Democratica di stampo marxista che fu precorritrice dell’invasione sovietica.

Lungi dall’introdurre quelle riforme radicali di cui si era fatto promotore, il regime di Daud finì per allinearsi a quello che l’aveva preceduto, ovviando alla perdita di consensi non con il tentativo di riforme liberali, così come aveva fatto timidamente l’amministrazione Shah, ma con un ritorno al centralismo di stampo autocratico tipico del paese fin prima del lungo regno del monarca deposto.

Se ci fu un tentativo, seppur difficile e controverso, di transizione verso un regime democratico, lo si può dunque circoscrivere al periodo che va dalla costituzione del 1964 alle rivolte fondamentaliste del 1975, che bloccarono definitivamente le riforme nel paese per i trent’anni successivi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Assem Akram, Histoire de la guerre d'Afghanistan, Parigi, Balland, 1991.

Francesco Antonelli, L’illusione di Prometeo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007

Raja Anwar, The tragedy of Afghanistan, Londra, Verso, 1988.

Giovanni Bensi, Allah contro Gorbaciov, Gardolo di Trento, Luigi Reverdito Editore, 1988.

Artem Borovik, Afghanistan: la guerra nascosta, Milano, Leonardo, 1991.

Henry Bradsher, Afghanistan and the Soviet Union, Durham, New and ex ed., 1985.

Steve Coll, La guerra segreta della Cia, Milano, Rizzoli, 2004.

Elena Dundovich, Dalla Finlandia all'Afghanistan: l'URSS in Afghanistan : la lunga storia di David e Golia, Firenze, Centro stampa 2p, 2000.

Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation: American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington D.C., The Brookings Institution, 1994.

Thomas T. Hammond, Red flag over Afghanistan: the Communist coup, the Soviet invasion, and the consequences, Boulder, Westview press, 1984.

Milan Hauner, The Soviet war in Afghanistan: patterns of Russian Imperialism, Philadelphia, University Press of America, 1991.

Anthony Hyman, Afghanistan under soviet domination, 1964-81, Hong Kong, The Macmillan Press, 1982.

Ettore Mo, Kabul, Milano, Bur, 2003.

Giorgio Vercellin, Afghanistan, 1973-1978: dalla repubblica presidenziale alla repubblica democratica, Roma, Scalia, 1979.

 



 

 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.