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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

TO BE OR NOT TO BE
ovvero essere o apparire

di Giovanna D’Arbitrio

 

L’eterno  dubbio amletico di “essere o non essere”, cioè vivere o morire, oggi forse si è trasformato in “essere o apparire” che in fondo è qualcosa di simile allo shakespeariano dilemma. Indossare una maschera,  offrire agli altri una falsa immagine, rinunciare a se stessi, alla propria identità più autentica e profonda (e quindi alla vera vita), non è dunque un po’ come morire?

 

Consapevolmente o inconsapevolmente, “apparire” oggi è diventata un’abitudine comportamentale diffusa che assume aspetti diversi  a seconda degli obiettivi che le persone si prefiggono.

 

Le signore dell’high society che inseguono l’eterna gioventù e tante ragazze alla ricerca dell’immagine perfetta col “taglia e cuci” di abili chirurghi estetici, nascondono spesso seri problemi e insoddisfazioni dietro false motivazioni (ovviamente quando tutto ciò non è solo frutto di condizionamenti, mode e stupidità).

 

La politica poi, grazie alla cosiddetta “civiltà d’immagine”, è diventata una vera e propria operazione di marketing con tutte le tattiche annesse e connesse, come la cura del look, la presentazione del prodotto da vendere, la posizione da occupare sullo “scaffale” in bella mostra, la ricerca di mercato, la cernita delle informazioni utili da propinare agli elettori con abile pubblicità etc.

 

E così mentre riflettevo sull’essere e apparire, ecco che domenica scorsa abbiamo deciso di vedere  il film francese “Il Riccio” della regista Mona Achache. Le coincidenze della vita sono talvolta davvero sorprendenti!

 

 

Devo premettere che per me i film, non sono soltanto qualcosa da recensire ( in effetti questa non è una recensione), ma rappresentano soprattutto una sorta di “vite parallele” con le quali confrontarsi, stimoli per osservazioni e riflessioni, in qualche modo perfino lezioni da apprendere.

 

Questo bel film, in effetti, è stato per me “illuminante” per diversi motivi.

 

Innanzitutto il tema è proprio quello delle “maschere”,  indossate in questo caso da due personaggi,  Renée, una  sciatta e scorbutica portiera,  e la stramba Paloma, figlia di un importante ministro, entrambe quasi costrette a nascondere il loro  “essere” più profondo, fatto di sensibilità, cultura, intelligenza e buoni sentimenti , per sopravvivere nell’asfissiante habitat in cui vivono. Soltanto Ozu, sensibile giapponese, riesce a vedere oltre la false immagini di Renèe e Paloma, infrangendo gli schemi di una società ipocrita e conformista.

 

Altra strana coincidenza, il valore simbolico attribuito ad un pesciolino rosso in un acquario! Un mese fa io stessa avevo scritto un articolo “come pesci in un acquario”. La teoria di Jung  sull’”inconscio collettivo” a quanto pare è una realtà! Esiste davvero, dunque, un contenitore universale di archetipi, forme e simboli comune a tutti gli umani?

 

Bellissime alcune frasi del film, come “chi stabilisce il valore di una vita?”, oppure quella che commenta la tragica fine di Renée, travolta da un’auto mentre cerca di salvare un amico: - Non è tanto importante la morte in sé, ma ciò che una persona sta facendo nel momento in cui muore-. Renée in quell’attimo non stava pensando a se stessa, ma voleva solo salvare una persona a lei cara, un umile barbone.

 

L’Amore dunque è il valore più importante della vita, da preservare fino alla morte, poiché solo così saremo sempre veramente “vivi”.


 

 

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