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ATTUALITà


N. 68 - Agosto 2013 (XCIX)

Ventun’anni dopo Capaci
L’eredità di Falcone

di Massimo Manzo

 

Anche quest’estate, migliaia di automobilisti sfrecceranno sull’autostrada A29 diretti a Palermo, attraversando distratti i due obelischi commemorativi all’altezza dello svincolo per Capaci.

 

A occhi meno attenti, quello sembrerà un luogo come un altro, quasi banale nella sua normalità.

 

Proprio in quel punto, il 23 maggio del 1992 la mafia faceva saltare in aria con più di trecento chili di tritolo il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della sua scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

 

La brutalità di quell’evento segnò uno dei momenti più tragici della storia repubblicana recente, che si è impresso in maniera indelebile nella memoria di tantissimi italiani.

 

Chi ha vissuto, seppur indirettamente, quegli attimi, ricorderà con inquietante lucidità il clima che si respirava allora nel paese. Unito nel lutto, un intero popolo ebbe la sensazione di aver perduto qualsiasi speranza di riscatto.

 

Sono passati ventun’anni da quella strage, eppure ancora oggi l’operato di Falcone rappresenta, nel corso della lunga e sanguinosa guerra al fenomeno mafioso, un punto di svolta fondamentale. Dopo decenni in cui lo Stato non riusciva in alcun modo a contrastare efficacemente la mafia, infatti, i suoi rivoluzionari metodi investigativi hanno permesso di infliggere colpi durissimi alla criminalità organizzata.

 

La grandissima professionalità e la straordinaria competenza portarono Falcone a teorizzare ed applicare nel contrasto alla mafia un approccio totalmente diverso rispetto a quello dei suoi predecessori; essa fu considerata un fenomeno “globale”, una vera e propria superpotenza economica, e come tale colpita nei suoi gangli vitali: gli appalti, i traffici internazionali di armi e di droga, le estorsioni. Su questa scia, seguendo i flussi di denaro sospetti era possibile risalire direttamente a Cosa Nostra.

 

Il giudice palermitano comprese a fondo la natura della mafia, svelò i meccanismi che la governavano e la seppe inquadrare nella sua dimensione internazionale, inaugurando una proficua stagione di collaborazione con gli organi inquirenti di altri paesi. Non è un caso che l’FBI, nel ventennale della sua uccisione, gli abbia dedicato una sala del proprio quartier generale, considerandolo uno dei giudici più brillanti del ventesimo secolo.

 

I risultati del “metodo Falcone” furono subito efficacissimi e culminarono nella celebrazione del maxiprocesso (tra il 1986 e il 1987), e nella creazione della Direzione Nazionale Antimafia, entrambi fortemente voluti dal giudice.

 

Tenutosi a Palermo, il maxiprocesso fu un momento esaltante, sia per l’importanza degli imputati, che per l’effetto mediatico che ebbe sull’opinione pubblica.

 

Attraverso i giornali e la televisione, finalmente gli italiani potevano vedere in faccia i capi della mafia, squarciando quel velo di mistero che fino ad allora li circondava. Per accorgersi poi che non c’era nulla di Hollywoodiano in quelle macabre figure; al contrario gli imputati apparivano ignoranti, vili e quasi comici.

 

Il male assunse allora un volto grottesco.

 

La Direzione Nazionale Antimafia fu invece introdotta nel 1991, con lo scopo di coordinare in modo funzionale e rapido, a livello centrale, il contrasto a Cosa Nostra. Anche questa fu un’idea all’avanguardia, che continua a dare i suoi frutti nel presente.

 

Ci fu dunque un momento in cui l’Italia sembrò essere a un passo dalla sconfitta definitiva della mafia. Ma poi arrivò la “stagione dei veleni”, e in un contesto storico nel quale anche la prima repubblica stava crollando, Falcone venne fatto oggetto di critiche indegne e di attacchi vergognosi, che oltre a vanificarne l’impegno ne umiliavano la persona.

 

A osteggiare il giudice furono in molti: il CSM, che nel 1988 gli negò inspiegabilmente la nomina a consigliere istruttore della Procura di Palermo e nel 91 lo mise sotto accusa a seguito di un esposto presentato da Leoluca Orlando,; buona parte della classe politica siciliana e nazionale, che gli rimproverò la collaborazione con l’allora Ministro della Giustizia Martelli; molta stampa, che lo descriveva come un egocentrico insinuando sospetti sulla sua buona fede.

 

Dopo la strage di Capaci, secondo un copione tristemente italiano, tutti i suoi denigratori si autodefinirono improvvisamente grandi amici del giudice, ingiustamente fraintesi.

 

Il grande Indro Montanelli, nella sua Storia dell’Italia del Novecento, in poche righe ci da l’idea di ciò che successe: “a Capaci s’interruppe la lunga battaglia di Falcone. E cominciò la rissa, scomposta e rivoltante, per lo scippo del cadavere. La memoria, l’amicizia, l’eredità di Falcone furono rivendicate con furore, come cosa loro, da molti che asserivano di voler onorare il morto, ma in realtà se ne servivano”.

 

Prima che fosse la mafia a ucciderlo, il giudice fu dunque abbandonato dallo Stato. In una delle sue frasi, quasi profetico, egli ne fu pienamente consapevole: “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

 

Nonostante sapesse che la sua fine era vicina, Falcone andò avanti fino in fondo, dimostrando al mondo di che pasta sono fatti gli eroi.

 

La commemorazione dell’anniversario, quest’anno, assume un significato particolare. Affinché non diventi una vuota manifestazione retorica, utile solo a lavarsi la coscienza con qualche lacrima di circostanza, bisogna che l’Italia migliore coltivi ogni giorno lo spirito autentico dell’eredità di Falcone.

 

Proprio per questo, mentre stanno emergendo ombre pesanti nella ricostruzione del fatti del 92-93, il ricordo di Falcone deve spronare a una coraggiosa ricerca della verità, giudiziaria e storica, che possa finalmente chiarire il torbido legame che unì alcuni pezzi dello Stato a Cosa Nostra.

 

Vincere definitivamente la guerra alla mafia è inoltre oggi una priorità assoluta. Di fronte a una crisi economica sempre più profonda, che dilania ogni giorno molte imprese sane, bisogna agire in fretta, per evitare che le mafie fagocitino parti consistenti dell’economia italiana.

 

Continuare la lotta di Falcone, fino alla fine e fino alle estreme conseguenze. È questo l’unico modo che abbiamo per onorarne veramente la memoria. Ed è l’unico modo che ha lo Stato per redimersi.



 

 

 

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