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N. 23 - Novembre 2009 (LIV)

L’EMIGRAZIONE ITALIANA

Uno sguardo d’insieme dal 1876 ad oggi
di Cristiano Zepponi

 

L’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei caratteri più singolari e caratteristici della storia contemporanea del nostro paese. L’interesse per il tema rimane tuttora forte, a causa dei recenti, diffusi fenomeni di xenofobia verificatisi in una nazione a lungo protagonista di flussi verso l’estero, e per l’ampio dibattito riguardante il voto degli italiani all’estero. Appare utile quindi riandare con la memoria a quando l’Italia divenne protagonista del fenomeno.

Trattandosi di un argomento prolungato e complesso, è auspicabile l’individuazione delle varie fasi, diverse tra loro per caratteristiche demografiche e sociali; cronologicamente, la classificazione più diffusa ne propone quattro:

-la prima, dal 1876 al 1900;

-la seconda, dal 1900 alla prima guerra mondiale;

-la terza, tra le due guerre;

-la quarta, dal dopoguerra agli anni ‘60/’70.

(la data del 1876 indica la prima rilevazione ufficiale dell’emigrazione italiana; della fase precedente esistono solo stime, che aiutano a comprendere l’evoluzione di un fenomeno non riconducibile alla sola età contemporanea)

Le migrazioni in età prestatistica

Già nel tardo medioevo si evidenziano alcune tipologie ricorrenti: il ruolo di polo attrattivo delle ricche città del settentrione d’Italia, i flussi dal contado alla città, i movimenti dei mercanti italiani verso l’Europa e le colonie veneziane; la persistente mobilità di alcuni gruppi (militari, studenti, religiosi): tutti esempi uniti dalla temporaneità dell’emigrazione, che non intaccava il forte legame con la terra d’origine.

In età moderna si verifica il declino del ruolo delle città (comunque importanti fattori d’attrazione), la nascita di Stati regionali autori di politiche demografiche strutturate. Nel complesso, il paese appare diviso in tre aree: il nord, area sottopopolata che utilizzava l’emigrazione come risorsa economica; il centro, caratterizzato dalla mezzadria e da spostamenti brevi ma spesso definitivi; il sud, latifondista, con flussi bracciantili stagionali dovuti allo sfalsamento dei ritmi agricoli. In aggiunta, le isole rimanevano un’area difficilmente inquadrabile: la Corsica restava terra di partenza soprattutto per i suoi militari, dalla fama diffusa; la Sardegna, priva di flussi e la Sicilia, da sempre terra d’immigrazione. Rimangono forti, nel periodo, gli spostamenti “religioni causa” e quelli dei mercanti, che giungono a creare alcune comunità nazionali nei vari paesi.

Agli inizi del 1800 si registrano soprattutto movimenti politici, specie verso la Francia, e controlli più accurati degli Stati sui flussi, indirizzati verso le aree sottopopolate o da bonificare: come si vede, al momento della “grande emigrazione” la società italiana è abituata all’idea della migrazione come via d’uscita da una condizione di disagio. Questa “eredità immateriale” (G.Pizzorusso) necessita solo di alcune concause per svilupparsi.

Pionieri e pregiudizi

Il drammatico fallimento dei raccolti del 1815 e ’16, e la grave carestia che seguì, proposero per la prima volta l’alternativa della “Merica”; ma questa ben presto svanì di fronte all’opposizione dei governi e all’ottimo raccolto del ‘18. Tuttavia, l’America era entrata negli orizzonti migratori. E questa primo, sommario contatto acquistò una crescente influenza a partire dagli anni ’40/’50 del secolo per merito soprattutto di una tipologia ben precisa: l’ emigrazione “vergognosa”. In questa categoria rientrano soprattutto mendicanti, suonatori ambulanti, figurinai, ovvero gli “apripista” della nostra emigrazione.

Le infinite restrizioni alla mobilità frapposte dagli Stati alla diffusione del fenomeno non impedirono infatti l’ emergere di una fetta di popolazione mobile di antica origine, guidata dai paesi specializzati in mestieri girovaghi. Questa era organizzata in microsocietà autoreferenziali, che raccoglievano l’eredità delle confraternite giovanili, unite per parentela, professione e paese d’origine. Gli “stereotipi più diffusi e durevoli del pregiudizio anti-italiano all’estero” (E.Franzina) nacquero e si diffusero proprio in relazione alla crescita numerica di questi protoemigranti, bersagli di ironie e giornali satirici all’estero ed in patria. In Italia, contadini e montanari (da cui i girovaghi provenivano) erano considerati “ultimo anello nella gerarchia del disprezzo” (C.Barberisi); ai mazziniani stessi questa emigrazione ispirava sentimenti di vergogna.

Dopo la metà del secolo, aumentò la partecipazione dei bambini a questo mercato: a questo punto l’opinione borghese europea puntò i riflettori sul fenomeno, colpevole di essere troppo “visibile”, e, con una certa dose di ipocrisia, ne decretò la marginalità, senza peraltro affrontare le cause profonde né eventuali regolamentazioni del fenomeno (una evasiva legge sull’emigrazione vide la luce solo nel 1888).

La partecipazione femminile, in questa prima fase, fu scarsa.

Ad ogni modo, un avamposto fondamentale era sorto dove, a breve, si sarebbe verificato il “grande esodo”. E fiere, mercati, lavoro stagionale oltre, soprattutto, all’onnipresente cultura orale stimolata dal ritorno degli “americani”, costituirono la rete di informazione necessaria alla creazione della catena migratoria.

Le motivazioni

Le cause avanzate per spiegare l’imponente crescita dei flussi sono varie, e si concentrano per lo più sul mondo delle campagne, il “serbatoio” inesauribile di emigranti. La società agraria appare attraversata da una crisi profonda, strutturale, non riconducibile esclusivamente alla pur grave crisi agraria (1873-1879), dovuta all’invasione dei grani americani che, sfruttando i progressi della navigazione a vapore e beneficiando della meccanizzazione del settore che consentiva costi di produzione infinitamente minori, annientarono, semplicemente, ogni agricoltura aperta al mercato. Innanzitutto, va sottolineata la crescente pressione fiscale dello Stato unitario, ben più rigida, al Sud, delle precedenti. Inoltre, la vendita dei beni della Chiesa, l’abolizione degli usi civici e la liquidazione dei demani avevano favorito l’ascesa dei nuovi ceti borghesi, privando il mondo contadino di antichi diritti comunitari che, spesso, costituivano importanti voci nei bilanci familiari.

Altrettanto importante appare l’agonia dell’industria domestica: se al Nord veniva sostituita dalla nascita delle fabbriche, al Sud sono proprio i manufatti settentrionali ad espellere i prodotti locali (eccetto in alcune “isole”) senza incentivare la domanda. Molte branche della protoindustria scomparvero insieme ai mestieri che le avevano ispirate.

Questo crollo è testimoniato dal crescente impegno delle donne nel settore, mentre gli uomini tornavano ad occuparsi di un’azienda agricola sempre più povera; non bisogna infatti dimenticare le epidemie delle piante che caratterizzano il periodo (filossera, pebrina, brusone, mosca olearia).

Cambiò soprattutto il modo in cui la società rurale percepiva se stessa e i suoi problemi, ed allo stesso tempo la via per affrontarli, come testimoniato dall’”Inchiesta Jacini” sullo stato delle campagne. Perfino le donne, anche in aree tradizionalmente tranquille, si resero protagoniste di aspre contese sindacali (come il moto “de la boje” e quelli toscani”). Le lamentele, che un tempo erano rassegnate al silenzio, sotto la spinta della predicazione socialista si trasformarono in capacità collettiva e individuale di protesta e rivendicazione.

Al Sud si è anche avvicinato il fenomeno migratorio al problema del brigantaggio (ipotesi piuttosto controversa), e, soprattutto, al sistema dei meccanismi successori.

Nel mezzogiorno premoderno vigevano infatti tre modalità di successione dei beni: maggiorascato (riservato al figlio maggiore) e ristretto ai maschi nelle zone montagnose, aperto anche alle femmine nelle zone a latifondo. Tuttavia, la nuova legislazione del Codice Civile piemontese impose due possibilità: egualitarismo integrale o divisibilità dell’asse ereditario in due parti uguali (“quota legittima”, da ripartire tra tutti i figli, e “quota disponibile”, alla discrezione del proprietario).

Nonostante tutti i disperati tentativi della popolazione contadina (matrimoni tra consanguinei, uso della “quota disponibile”), ne risultò un ulteriore frazionamento delle proprietà in microfondi, spesso insufficienti alla stessa sopravvivenza.

La carta di riserva fu costituita dall’emigrazione. Solo quando i contadini si resero conto di aver perso la partita, aiutati da una tradizionale abitudine alla mobilità, l’alternativa migratoria s’ impennò.

I mezzi

In un momento di crisi economica, superate le resistenze personali e scelta la destinazione, il problema più grave rimaneva reperire i fondi necessari a pagare un biglietto ed a finanziare il primo periodo di soggiorno all’estero. La soluzione più comune era la cessione del microfondo di proprietà, o, in alternativa, degli attrezzi e del bestiame. Non mancarono i casi di ricorso all’usura, tuttavia, con tassi d’interesse assolutamente improponibili. A volte, oltretutto, la dote della donna forniva i mezzi per l’imbarco; in altri casi, alla partenza era condizionato l’assenso al matrimonio dei genitori della moglie.

Nel caso di famiglia allargata era l’intera comunità familiare a selezionare i figli più adatti al lavoro all’estero.

Spesso, invece, nel caso di famiglie nucleari, era solo il capofamiglia ad attraversare l’Atlantico per prendere il controllo della situazione, prima di richiamare a sé la moglie ed eventuali figli. In seguito la donna era sovente affidata alle cure dei familiari del marito, che esercitavano un forte controllo sulle attività della sposa. Adulteri, aborti e nascite illegittime, tuttavia, dimostrano che la solidità della famiglia era messa a dura prova.

Ciononostante, seppe reggere. Non solo il rapporto tra i coniugi si fece più stretto, visto che la moglie divenne la custode del bilancio familiare, alimentato dalle rimesse in arrivo via parenti o amici di ritorno, vaglia, casse di risparmio (Banco di Napoli); ma la dimensione di anonimato urbano che gli emigranti conobbero li spinse a riscattarsi dall’autoritarismo paterno, di cui fu limitata, in genere, l’ingerenza; e i richiami di mogli e figli indicano che in generale gli emigranti si dimostrarono ligi ai propri impegni.

Le fasi

La prima fase (1876-1900) appare caratterizzata da una dimensione discreta ma crescente dei flussi. Seppur la mancanza di una qualsiasi regolamentazione delle politiche migratorie, prive di vigilanza e tutela, rendeva i movimenti totalmente spontanei quando non clandestini, in questo quarto di secolo partirono 5 300 000 persone: prevalentemente uomini (81%) di età media bassa, di provenienza per lo più contadina, ripartite tra le mete europee all’inizio (Francia, Germania) e quelle extraeuropee, in crescita a fine secolo (argentina, Brasile, Stati Uniti). Dal nord provengono due emigrati su tre.

Il primato del Sudamerica, dove gli emigrati confluivano per lo più nella lavorazione della monocoltura, si esaurì in vent’anni, a causa di crisi agrarie e politiche; a partire dagli anno ’80 è netta la prevalenza degli USA, autori di grandi costruzioni ferroviarie e infrastrutturali (1880-1882).

La seconda fase (1901-1915) coincide con l’ industrializzazione italiana; eppure, è detta “grande emigrazione“, proprio per l’ incapacità del nostro sviluppo, non intenso né uniforme, di assorbire la manodopera eccedente. L’ emigrazione del periodo è largamente extraeuropea: il 45% degli emigranti (prevalentemente meridionali) espatriano in America; e proprio le grandi variazioni visibili tra gli anni (1908: 487 000 partenze; 1913: 870 000). Permane lo squilibrio tra i sessi, e specie per i settentrionali aumenta la tendenza all’espatrio in Europa.

La media annuale, 600 000 partenze, porta il totale del periodo a 9 000 000 di persone. Un vero esodo.

La creazione nel 1901 del Commissariato Generale dell’emigrazione rese l’espatrio finalmente tutelato dall’azione speculatoria da intermediari e agenti delle compagnie di navigazione, autori di giganteschi arricchimenti nel periodo, pur senza risolvere le enormi problematiche igieniche e sociali causate dalla concentrazione di emigranti nei tradizionali porti d’imbarco (Genova, Napoli, Palermo): l’ epidemia di colera a Napoli nel 1911, le vessazioni cui furono sottoposti gli emigranti in genere (portatori a detta del questore di Genova di “grave danno dell’igiene, della morale, del decoro”) e le donne in particolare, contro le quali si scatenarono “antichi pregiudizi e nuove paure” (A.Molinari), oltre alle tradizionali attitudini violente del “branco” maschile (abusi, violenze, furti).

E’, questa, una pagina che merita di essere approfondita.

La terza fase (tra le due guerre) coincide con un brusco calo delle partenze: vi contribuirono dapprima le restrizioni legislative adottate da alcuni Stati (in particolare gli USA, con le “quote” (1921/1924) di immigrati annuali che favorivano le comunità di antica immigrazione e quindi più “integrate”, e con i “literacy tests” contro gli analfabeti); in secondo luogo, la tendenza statalista e dirigista seguita a partire dal 1921 attraverso varie conferenze internazionali (tenute a Roma) per disciplinare i flussi; inoltre, la politica fortemente restrittiva attuata dal fascismo per motivi di prestigio (l’“immagine negativa” fornita dalle torme di partenti) e di potenziamento bellico (trattenendo molte giovani leve da impiegare per scopi militari); per ultimo, il peso delle crisi economiche degli anni ’20 (specie quella del ’29).

L’ emigrazione si diresse quindi soprattutto verso la Francia, alimentata anche dai numerosi espatri oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), e verso la Germania negli anni ’30, specie dopo la firma del “Patto d’Acciaio”.

Aumentano nel periodo i richiami dei congiunti dall’estero (e cresce, quindi, la presenza femminile, segno di stanziamento definitivo all’estero). Dal 1920 al 1940, emigrarono circa 3 200 000 persone, destinate a supplire alla deficienza francese e tedesca di manodopera nazionale in agricoltura, edilizia, industria.

Dopo esser stato incorporato nel ministero degli Esteri, il “Commissariato” viene in seguito sostituito con la “Direzione generale per gli italiani all’estero”.

Nella quarta e ultima fase (1945-1970 ca.) l’Italia è tornata a fornire consistenti flussi, consistenti in 7 milioni di espatri. I cambiamenti politici ed economici del Paese, però, hanno alimentato un parallelo flusso dalle campagne verso le città e le regioni (settentrionali) più industrializzate. Prevalgono due destinazioni: extraeuropea (America Latina, subito in calo per le continue crisi economiche e politiche, Australia, Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania). Peculiare è l’ esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro in miniera ed improvvisamente abbandonata nel 1956, in seguito alla tragedia di Martinelle nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani. Dagli anni ’50 le mete transoceaniche calano ulteriormente.

Secondo recenti statistiche, gli italiani all’estero sarebbero 4 500 000. Gli oriundi, secondo il Ministero degli Esteri, sono 58 500 000; un’altra Italia.

Come detto, a partire dai primi anni ’70 l’Italia si trasforma, quasi inavvertitamente, in paese d’immigrazione. I flussi in uscita non si sono però interrotti del tutto.

Quella che una volta era partenza di massa si configura ora come fuga di cervelli, per i quali sono auspicabili, e obbligate, adeguate politiche di rientro e reinserimento, al momento, purtroppo, decisamente improbabili.

E’ questo uno dei compiti principali di una classe dirigente alle prese con un’interminabile crisi d’identità.

 



 

 

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