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filosofia & religione


N. 71 - Novembre 2013 (CII)

LA DIVINAZIONE NEL MONDO ANTICO
IL PENSIERO MESOPOTAMICO

di Silvia Mangano

 

Non si può comprendere la divinazione, se non si comprende la cosmovisione del mondo antico. Se dovessimo semplificare e sintetizzare in poche parole, potremmo dire che il senso religioso dell’uomo antico permeava ogni ambito della sua vita.

 

L’intera Natura era stata creata dalla divinità e il rapporto che legava la regione celeste (dove abitavano gli dei) e quella terrestre era fondata sui concetti di complementarità e reciprocità.

 

Per complementarità si intende quella relazione che unisce cielo e Terra in un rapporto di prosecuzione e dipendenza, ma non di contrasto; per reciprocità, si intende quella relazione tra divino e umano basata sul bisogno che gli dèi hanno degli uomini e dalla necessità da parte degli uomini di ottenere protezione da parte degli dèi, che sono sempre in ascolto degli appelli tramite riti e incantesimi, ai quali desiderano rispondere.

 

Sebbene la Natura sia regolata da leggi, esse non sono indipendenti dal divino, anzi sono determinate dall’azione degli dèi, “che determinano la ‘natura delle cose’ e i ‘destini della vita’, poiché hanno stabilito il ‘progetto cosmico’ e il ‘disegno della vita’” (F. Rochberg, La divinazione mesopotamica).

 

Gli epiteti delle divinità del pantheon babilonese possono aiutare la comprensione di questa concezione: per esempio il dio del sole Shamash, compare nei testi rituali e divinatori come “il re del cielo e della Terra, giudice [delle regioni] di sopra e di sotto, signore dei morti, guida dei vivi, grande capo dell’umanità, colui che allontana i sortilegi, i segni e i cattivi presagi”, è chiamato “giudice altissimo”, “creatore di ciò che è in alto e ciò che è in basso”.

 

Dunque, l’attribuzione all’intervento divino dei fenomeni dell’intera esistenza, giustificava l’appello degli uomini agli dei, affinché evitassero la realizzazione dei presagi funesti. A questo proposito, nel Manuale dell’Indovino babilonese si sostiene che l’intero cosmo sia interconnesso con la volontà divina e che al suo interno si trovino moltissimi segni che predicono gli eventi futuri (“i segni sulla Terra come quelli del cielo hanno in serbo degli avvertimenti per noi; il cielo e la Terra ci portano i presagi; essi non sono separati l’uno dall’altra: cielo e Terra sono connessi tra loro”).

 

Seguendo questo ragionamento, appare evidente che sia possibile, agli occhi dell’uomo antico, instaurare una relazione concreta e palpabile tra “ciò che è in alto e ciò che è in basso”. Questa correlazione si palesa attraverso il presagio (in latino omen), cioè il legame tra un segno e l’evento che esso predice. La forma tipica del presagio è esprimibile in questi termini: se succede A (protasi), allora succederà B (apodosi), dove la protasi era il segno e l’apodosi la predizione.

 

La divinazione era considerata il prodotto della bontà divina, che permetteva agli uomini di indagare le leggi divine e comprendere ciò che gli dei avevano in serbo per loro, donandogli in questo modo anche la possibilità di sfuggire a ciò che il presagio preannunciava.

 

Nel pensiero mesopotamico, esiste, quindi, uno stretto collegamento tra la divinazione e il fato, inteso come ciò che viene determinato dalla decisione degli dèi. Ma la “fatalità” non riguarda solo la Natura in sé e per sé, essa determina anche l’uomo e la sua vita: nelle sezioni delle raccolte dei presagi che interessano gli esseri umani, viene presa in considerazione il carattere di una persona e il modo in questa si relaziona con la vita e il proprio destino, tramite l’osservazione delle caratteristiche fisiognomiche, sui comportamenti o sui sogni.

 

Per lo studio del presagio nel mondo antico, è necessaria una prima suddivisione in due categorie: la prima è quella dei presagi provocati (in latino auguria impetrativa), in cui sono compresi quei presagi inviati dagli dèi in risposta a un esplicito quesito posto da un indovino; la seconda categoria è quella dei presagi spontanei (in latino auguria oblativa), in cui si annoverano quei presagi che l’indovino osserva un fenomeno senza aver richiesto un segno alla divinità.

 

I presagi provocati si ottenevano tramite l’utilizzo di tecniche divinatorie quali l’epatoscopia (esame divinatorio del fegato), la lecanomanzia (divinazione per mezzo dell’olio) e la libanomanzia (divinazione per mezzo del fumo); mentre i presagi spontanei venivano dedotti dall’osservazione dei fenomeni che riguardavano i corpi celesti (per es. le eclissi) oppure dall’analisi del comportamento degli animali o degli uomini.

 

I criteri tassonomici (o di classificazione) con cui sono organizzati i presagi nelle raccolte fanno intuire che, nonostante la casistica numerosa, la divinazione fosse una scienza sistematica (se per “scienza” intendiamo la materia che ha per oggetto di studio il rapporto tra Uomo e Natura).

 

Normalmente le protasi venivano ordinate secondo corrispondenze spaziali (nord-sud, destra-sinistra, et c.), temporali (inizio, conclusione, et c.), per opposizione (chiaro-scuro, et c.), oppure per la tonalità cromatica dell’oggetto in questione (normalmente l’elenco segue l’ordine bianco, nero, rosso, giallo-verde e “variegato”). Questi principi valgono sia per i presagi spontanei, sia per i presagi provocati.

 

Tra i criteri di associazione segno-predizione è annoverata la paronomasia, in cui i soggetti della protasi e dell’apodosi hanno una somiglianza fonica. Nella serie dei presagi che riguardano la sfera onirica, abbiamo un caso in cui, se un uomo sogna di mangiare un corvo (arbû), vuol dire che gli dèi gli preannunciano un guadagno (irbu).

 

Un’altra alternativa di associazione è l’analogia, che troviamo spesso nei presagi fisiognomici e che può servire per capire la positività o negatività di un segno: il cane era considerato un segno negativo, quindi se un bambino nasceva con caratteristiche simili a un cane, era considerato un presagio negativo.

 

Inoltre esistono le analogie per contrariam, così nella serie che riguarda i sogni troviamo che “se [un uomo] ascende al cielo, i suoi giorni saranno brevi”, “se discende negli inferi, i suoi giorni saranno lunghi”. In altri casi, il criterio analogico si basa sulla categoria buono-cattivo: nella tradizione divinatoria, la polarità destra-sinistra attribuisce un carattere positivo alla destra e uno negativo alla sinistra, quindi, per esempio, in caso di nascita di un neonato senza l’orecchio sinistro, il presagio era buono; al contrario, se il neonato nasceva con un dito in più nella parte sinistra del corpo, il presagio era considerato cattivo. Lo stesso principio era seguito nelle diagnosi mediche: “se l’orecchio destro di un omo è macchiato, la malattia è grave ma guarirà”, se il problema è sul lato sinistro “egli è in pericolo”.

 

La genesi di queste casistiche è molto più problematica del criterio associativo, che – come abbiamo visto – può essere per paronomasia, per analogia o per contrasto. Come si è giunti a collegare la protasi con l’apodosi?

 

Perché, se accade A, si verificherà B? A livello grammaticale, gli studiosi hanno notato che il verbo della protasi è sempre al passato, mentre quello dell’apodosi è al futuro. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si è escluso che si possa trattare di un rapporto di causalità (secondo cui A sarebbe la causa di B).

 

Per giungere a una soluzione definitiva, si dovrebbe essere a conoscenza della modalità in cui un fenomeno è stato associato a una particolare predizione, in assenza di questo è possibile fare solo ipotesi.

 

Quella più accreditata tra gli esperti è la teoria dell’associazione circostanziale, secondo cui la casistica sia stata redatta dopo aver osservato l’evento B verificarsi in contingenza dell’evento A e, soprattutto, dopo aver accertato che il verificarsi dei due fenomeni non fosse una possibile coincidenza.

 

Considerare i segni soltanto degli indizi e non delle cause è plausibile, in quanto nella mentalità mesopotamica il ruolo di causa nell’Universo era riservato ai soli dèi, che inviavano questo tipo di fenomeni agli uomini per avvertirli delle “decisioni divine” (purussû, nome con cui erano chiamate le stesse predizioni).

 

Se non si può parlare di causalità oggettiva, è possibile sostenere che viga una sorta di causalità logica tra il segno e la predizione, per via della costante associazione fra la prima e la seconda. Infatti, non è rilevante se il rapporto che intercorre tra le due sia di coincidenza (“quando si verifica A, si verifica contemporaneamente B”) o sequenziale (“se prima si verifica A, dopo si verificherà B”), l’importante è che esse si presentino sempre insieme.

 

Tuttavia, il presagio non costituiva una legge. Lo status di legge renderebbe il presagio inevitabile, invece nel mondo mesopotamico si trovavano anche formule apotropaiche (parleremo più tardi dei namburbi), grazie al cui potere teurgico l’evento B poteva essere evitato. Ovviamente, questo tipo di magia aveva valore nei casi in cui B fosse una predizione e non una diagnosi o un’ovvietà.

 

Il destinatario di queste casistiche era prevalentemente il re, poiché era il rappresentante dello Stato e del popolo nella sua totalità. Non dobbiamo, però, cadere nell’errore di pensare che la divinazione fosse di solo appannaggio regale; le fonti ci dimostrano che l’arte divinatoria era di fruizione privata (cioè riguardava singoli cittadini), soprattutto per quanto riguarda la fisiognomica, i sogni, la vita quotidiana, i parti anomali e le diagnosi mediche.

 

Una caratteristica interessante è che alcune protasi di carattere privato, hanno una valenza pubblica, come per esempio: “se una donna partorisce e la bocca [del bambino] è chiusa – una città si rivolterà e ucciderà il suo signore; le contrade abitate saranno conquistate; il nemico godrà del raccolto della terra”.

 

Solitamente, le casistiche che riguardano i fenomeni celesti e le nascite anomale, hanno apodosi di carattere pubblico; soltanto con i persiani, i presagi celesti furono riferiti alla vita del singolo: “durante il periodo degli Achemenidi (539-331) e dei Seleucidi (330-65) la divinazione celeste subisce cambiamenti considerevoli, che si riflettono sia sui presagi tardobabilonesi basati sui fenomeni celesti, sia sui tesi chiamati in traduzione moderna ‘oroscopi’. Uno dei cambiamenti più significativi di questi secoli è il nuovo interesse che è portato ai casi individuali al di là delle principali preoccupazioni per lo Stato e il re” (Rochberg).

 

Esistono cinque raccolte che riguardano la casistica dei presagi spontanei (auguria oblativa): Enūma Anu Enlil, che raccoglie i presagi sui fenomeni celesti; Šumma izbu, quelli che riguardano le nascite anomale; Šumma ālu, contenenti presagi terrestri; Zīqīqu, in cui vengono descritti i presagi legati ai sogni; Alamdimmû, inerente ai presagi fisiognomici; SA.GIG, che raccoglie tutti i sintomi medici.

 

Il centro di ritrovamento di questi testi più importante è la biblioteca di Assurbanipal a Ninive, risalente al VII sec. a.C., ma gli storici non hanno dubbi nell’attribuire a questi testi una cronologia ben più antica, testimoniando la sostanziale conservazione e trasmissione dei presagi dal II Millennio fino al periodo ellenistico.



 

 

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