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N. 72 - Dicembre 2013 (CIII)

La lunga e tortuosa scalata
Storia della donna italiana nel XX secolo

di Giuseppe Formisano

 

Sarebbe quasi un’ovvietà affermare che la donna in Italia non abbia mai pesato e contato quanto un uomo mentre in altri paesi, per esempio in quelli del nord Europa, ha avuto ed ha tutt’ora una considerazione diversa; nulla di straordinario, ma semplicemente alla pari dell’altro sesso. Non considerare la donna dunque in quanto tale ma come, prima di tutto, un essere umano.

 

Sicuramente il maschilismo non è un’invenzione italiana, ma perché nel nostro paese ancora oggi il gentil sesso vive una condizione di svantaggio rispetto alle tedesche, svedese o danese?

 

Alcune peculiarità della nazione hanno influito certamente anche sulla donna: in primis la chiesa cattolica. È innegabile - senza voler muovere alcun tipo di accusa - che l’idea della buona madre e moglie sia proprio della cattolicità (la donna come la Madonna; o vergine o madre), idea patrocinata anche dalla ventennale dittatura fascista (altro fattore con il suo maschilismo e misoginia) e rimasta impregnata nelle zone più povere e arretrate del paese, quindi, in secundis, il ritardo nello sviluppo economico che ha portato la crescita dell’Italia solo nella seconda metà del XX secolo, in maniera squilibrata.

 

L’Enciclica pubblicata da Pio XI nel 1930 Casti Connubii è esplicita: per il corretto funzionamento del matrimonio è indispensabile una gerarchia che prevede l’uomo, il padre, come indiscusso capofamiglia, e la donna e i figli a lui soggetti. In quanto maschio lavoratore e motore economico della casa, spettavano a lui le decisioni più importanti.

 

 Il codice d’onore riguardava la moralità sessuale ma non era una legge non scritta solo del meridione come facilmente spesso si crede. Certamente con il boom economico persisteva nelle campagne mentre spariva lentamente dei centri urbani, ma anche al nord esisteva il controllo dei maschi di casa sulla donna: erano inusuale, ad esempio, far uscire la donna di casa da sola prima dei quarant’anni, doveva essere sempre accompagnata da un fratello o da un genitore; superata quell’età, era ormai ritenuta “vecchia” per attrarre qualche uomo malintenzionato che potesse disonorare la famiglia approfittando di lei, rendendola impura al di fuori del matrimonio.

 

A quell’età era destinata a non sposarsi e morire zitella. Ciò poteva essere visto come un fallimento. Come detto il destino della donna era quello di essere madre o vergine, quindi le strade erano quelle che portavano sull’altare con l’abito bianco o con la tunica nera della monaca; non essere né l’una né l’altra poteva attrarre qualche maldicenza (nessun uomo l’ha mai voluta perché non è vergine; donna di poca fede quindi non adatta a crescere figli) che disonoravano la famiglia e i maschi in particolare che non avevano vigilato e/o educato la donna a dovere.

 

Non era solo il costume che relegava la donna in una condizione di inferiorità ma anche la legge. Quattro anni dopo l’Unità, nel 1865, il codice civile che prendeva il nome di Pisanelli poneva l’uomo un gradino più su, escludendo la donna dell’impiego pubblico e dal voto. L’adulterio, a differenza di oggi, era punibile ambo i sessi ma ovviamente c’erano della differenziazioni. In caso di tradimento dell’uomo, almeno ché non si fosse consumato sotto il tetto coniugale, il giudice era più clemente, ma se tale torto fosse stato commesso dalla donna non c’era alcuna attenuante, infatti l’omicidio da parte dell’uomo per vendicarsi era ammesso.

 

La superiorità nel matrimonio si esplicava nell’obbligo della moglie a prendere il cognome di lui e la cittadinanza. Il luogo di residenza non era deciso congiuntamente ma spettava all’uomo.

 

La fedeltà della donna era tutto. Lei non veniva vista altro come l’essere il cui compito era quello di dare la vita ai figli e di educarli, sotto l’egida del marito-padrone. Triste e diffuse erano le vedove bianche, giovani donne che vedevano i propri mariti partire per la guerra subito dopo il matrimonio, con lui che per salvaguardare il proprio onore decideva di non dormire con la novella sposa così da poter verificare al ritorno, semmai fosse tornato, la fedeltà della donna. Molte non videro tornare il proprio uomo divedendo così giovani vedove, e bianche di verginità.

 

In questo stato in cui versavano le nostre antenate, non è difficile immaginare il loro livello d’istruzione. Era bassissimo per la stragrande maggioranza degli uomini, figurarsi per donne le cui famiglie non avevano alcun interesse a investire nel loro acculturamento. La legge Casati che fu promulgata nel 1859 nel Regno di Sardegna e che dopo l’Unità fu attuata in tutto il nuovo territorio nazionale, non vietava espressamente l’iscrizione al liceo per le ragazze ma non lo autorizzava neanche se non fino al 1883.

 

Ernestina Peper fu la prima donna a laurearsi in Italia, nel 1877. Completò a Firenze gli studi di medicina iniziati altrove. Fare il medico (in particolare le ginecologhe o le pediatre, perché più in linea con il loro destino di madre) era più accettabile, così come quello di maestra. L’attività forense, invece, era ancora preclusa all’inizio del XX secolo.

 

La mansione principale era ovviamente il lavoro casalingo ma ciò non significa che nessuna donna lavorava fuori casa. Non solo contadine ma anche operaie. In fabbrica erano impiegate per la maggiore donne nubili. Dal 1889 per lavorare avevano bisogno dell’autorizzazione maritale mentre prima di quella data, se lavoravano, una volta convogliate a nozze perdevano il lavoro in modo che solo il maschio di casa potesse mantenere il monopolio della gestione economica.

 

Sarebbe errato pensare che con la contestazione giovanile a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del ‘900 le donne siano entrate solo allora in scena nella società reclamando diritti. Certamente in quel periodo lo fecero più apertamente, ma già tra i due secoli ci fu un movimento emancipazionista. Anna Maria Mozzoni e Paolina Schiff fondarono, alla fine del 1880, la Lega promonitrice degli interessi femminili. La fondazione di questa organizzazione mette in mostra come una coscienza femminista già c’era, però queste donne erano diverse nei modi e nei contenuti rispetto alle nipoti e pronipoti della seconda metà del secolo successivo.

 

La Lega aveva tre punti principali in comune con altre organizzazioni (che pure si divedevano tra cattoliche e laiche): la parificazione della retribuzione, l’uguaglianza nel matrimonio e il diritto di voto. Le femministe a cavallo tra i due secoli erano sommariamente tutte maternaliste, cioè erano anche disposte ad accettare il loro destino materno in casa ma pretendevano comunque più emancipazione dall’uomo padrone, dal padre prima, dal marito poi. Probabilmente rispetto alle femministe successive (che per comodità qui chiameremo sessantottine, senza voler trascurare quelle che hanno manifestato il loro dissenso degli anni ’70) non avrebbero mai messo in discussione la pratica di non mangiare a tavola con i maschi di casa (com’era in uso soprattutto in campagna) ma “accomodarsi” in cucina o nella stalla con gli animali.

 

Le donne fin qui citate (Paper, Mozzoni, Schiff) quando cominciarono a ottenere notorietà già non erano più giovanissime, e in molti casi avevano un origine straniera e non cattolica quindi non impregnate della cultura che la chiesa di Roma predicava. Le sessantottine, invece, cresciute mentre l’Europa economicamente facevano passi da giganti dopo la tremenda guerra, grazie a quel benessere ebbero più possibilità di studiare, quindi acculturarsi e di conseguenza osservare in modo più critico il mondo in cui erano state relegate le loro mamme e nonne. Proprio in quegli anni alcune norme del codice Pisanelli furono abrogate.

 

Se le emancipazioniste tra i due secoli facevano sì una battaglia politica, nei partiti politici avevano ancora poco spazio mentre si iscrivevano più ai sindacati. In teoria avrebbero dovuto avere più appoggio dai partiti di sinistra, quello socialista e quello repubblicano, cosa che in effetti avvenne ma soprattutto nel primo c’era diffidenza verso le loro istanze.

 

Il PSI di allora, battagliero e marxisista, prefiggeva la lotta di classe a quella di genere, bollando questa come una mania borghese: per i socialisti i lavoratori non dovevano essere divisi tra uomini e donne perché tutti in egual modo erano sfruttati dai borghesi ma in effetti anche loro, uomini del proprio tempo, non immaginavano il ruolo della donna tanto diverso da quello svolto allora. Proprio dal Partito Repubblicano, nel 1904, il deputato Mirabelli aprì per il suffragio. Divenne allora l’argomento principale delle emancipazioniste, laiche o cattoliche. Nel 1912 ci provarono i socialisti che videro impegnarsi in prima persona il proprio leader, Filippo Turati, ma la proposta di legge non ottenne i voti necessari per l’approvazione.

 

Forse il tema e il periodo sul quale la storiografia di genere ha posto più attenzione è la Grande Guerra. Il primo grande conflitto moderno è notoriamente definito “guerra totale” per aver investito tutta la società di una nazione e non solo l’ambito politico-militare. Si è scritto già diffusamente dell’impiego delle donne nel lavori svolti principalmente dai propri padri, mariti o fratelli partiti per il fronte. Queste li sostituirono nella guida dei tram, nella consegna della posta, nel settore impiegatizio e nelle fabbriche belliche per la costruzione di armi. Fecero cose – soprattutto lavorando nella pubblica amministrazione – che fino ad allora non avevano mai fatto. Oltre a sostituire gli uomini, alleviarono anche le loro sofferenze.

 

Come in Italia molti diciassettenni nel 1915, convinti dalla propaganda di guerra, partirono come volontari per difendere la patria, le donne diedero anima, corpo e mente per l’Italia arruolandosi nell’esercito delle crocerossine curando i soldati feriti (dal 1916 partirono anche per i fronti a lavorare negli ambulatori), preparavano loro un pasto caldo nelle stazioni ferroviarie cui transitavano e imballavano coperte e viveri da inviare nei teatri di guerra. L’assistenza organizzata era rivolta anche verso altre donne che attendevano una lettere dell’uomo dal fronte o il suo ritorno; queste erano le destinatarie dei sussidi economici e delle derrate alimentari. Donne che aiutavano altre donne.

 

L’inasprimento della guerra convinse molte donne che la vittoria finale contro austriaci e tedeschi fosse indispensabile, costi quel che costi. Nell’aprile 1917 la scrittrice milanese Sofia Bisi Albini fondò la Lega delle seminatrici di Coraggio; con volantini e opuscoli propagandavano ad impegnarsi nel conflitto. Fu così che in molte vennero a contatti con ambienti nazionalisti dal quale nacque il fascismo che abbracciarono dopo la guerra. Non solo sacrifici per la patria, ma anche proteste dovute all’esasperazione e alla mancanza di cibo come la rivolta che vide teatro i quartieri proletari di Torino nell’agosto 1917: decine e decine furono le donne uccise, ferite o arrestate.

 

L’immenso lavora svolto durante il conflitto, alla fine ripagò. Sia nel 1919 sia nel 1920, le italiane arrivarono vicino all’ottenimento del voto, pur se solo amministrativo. In entrambi i casi la legge su approvata da un solo ramo del parlamento che fu sciolto anticipatamente prima che potesse essere discusso e approvato dall’altra camera. Nell’estate del 1919, a pochi mesi dalla fine delle ostilità, la legge voluta da Ettore Sacchi fu promulgata: abrogava l’autorizzazione maritale e consentiva l’accesso nei pubblici impieghi, avvocatura inclusa. Restarono però precluse la polizia e la magistratura. Nelle forze armate potranno entrare solo nel 2000, in magistratura dal 1963.

 

Durante la dittatura di Mussolini ovviamente le condizioni non potevano migliorare essendo un regime maschilista che esaltava la virilità e la forza del maschio italico. «Sposa e madre esemplare» si diceva allora. La patria doveva essere servita mettendo al mondo maschi sani per la costruzione dell’impero.

 

La discriminazione sulla tasse della scuola secondaria mirava a non far iscrivere le razze a scuole se non a quella femminili triennali creati nel 1939 dove imparavano a cucire, cucinare e a gestire la casa. Il regime continuò a sfruttare le attività assistenziali. A loro spettava educare le giovani a diventare le donne come la dittatura le desiderava e a loro affidò i compiti di portare latte in polvere e tutine per i neonati alle madri, pratiche che rientravano nella battaglia demografica.

 

Nei primi anni di vita dei fasci di combattimento, furono istituite anche delle sezioni femminili che presero appunto il nome di fasci femminili. Potere decisionale non ne ebbero mai, il loro impiego in società – e al di fuori della mura domestiche – fu poi portato avanti dai partiti repubblicani. Durante il secondo conflitto mondiale le donne interpretarono i nuovi i ruoli assunti nel ‘15-’18. Se per la prima guerra furono attive nell’assistenza ai militari e ad altre donne, durante la seconda guerra si diedero molto da fare certamente ancora in questi campi ma furono attive soprattutto nella guerra di Resistenza dal 1943 al 1945. È doverono un cenno agli stupri e sevizie subito durante le occupazioni degli eserciti avversari che si fronteggiarono sulla penisola. Particolarmente note ed efferate furono gli episodi avvenuti nel basso Lazio ad opera delle truppe composte dalle colonie africane della Francia.

 

Le staffette per trasportare messaggi e armi da un gruppo di partigiani a un altro, l’appoggio, di ogni tipo, a chi combatteva nazisti e fascisti, fu esaltato nel dopo guerra dalla sinistra italiana. Se dopo il conflitto nel 1919 ottennero qualcosa, lo stesso avvenne nel secondo dopoguerra, colmando una mancanza italiana: il diritto di voto.

 

L’impulso di concedere questo sacrosanto diritto-dovere di ogni buon cittadino alle donne fu dato non solo da i sacrifici fatti durante la resistenza diede, ma fu dovuto anche perché era ormai una tendenza europea e il fatto che lo stavano quasi per ricevere nel primo dopoguerra fece propendere per questa decisione. Già nel febbraio 1945 il governo Bonomi approvò quest’importante provvedimento e la prima volta che votarono non fu, come spesso viene ricordato, in occasione del referendum sulla forma dello Stato del 2 giugno 1946 ma per le elezioni amministrative del marzo dello stesso anno. Non solo ebbero lo possibilità di eleggere ma anche di essere elette.

 

 Le trasformazioni dal dopoguerra furono significativi, come per tutti gli italiani, particolarmente durante il boom tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60. Se l’automobile FIAT 500 è il simbolo dell’Italia che cresce, si diverte con le gite fuori casa la domenica e non vive più di stenti che la guerra voluto da Mussolini l’aveva data, la lavatrice rappresenta lo strumento simbolo del miglioramento della vita della donna domestica.

 

Fare il bucato prima era un lavoro faticosissimo, con la lavatrice invece le fatiche furono più che dimezzate. Il sogno di molte donne del sud era che il marito trovasse un buon lavoro al nord che si stava riprendendo e costruendo a dismisura infrastrutture e servizi e trasferirsi con lui, lasciando così le campagne (nelle quali molte donne ancora lavoravano) e fare la vita urbana. Andare al cinema, al teatro o nei grandi negozi; piccole attività oggi normali, allora erano un miraggio. Con la nascita della televisione fecero altri lavori: presentatrici, truccatrici, ballerine, attrici, costumiste, mentre la politica, man mano, liberava le donne dalla vecchia società.

 

Nel 1950 passò la legge voluta dalla deputata comunista Teresa Noce: se dal 1902, anno in cui risale il primo provvedimento protettivo per le donne nel lavoro, non dovevano lavorare più di dieci ore al giorno, non svolgere lavori notturni, particolarmente pericolosi e avere una maternità della durata di ventotto giorni (seppur non retribuiti), grazie alla legge Noce la maternità fu allungata e proibiva il licenziamento delle donne gravide (licenziamenti di tali tipi ancora oggi, purtroppo, avvengono, eludendo le normative vigenti). Altro importante provvedimento giuridico fu la sentenza nel 1968 della Corte costituzionale che non legittimava più la disparità di trattamento tra l’uomo e la donna in caso di adulterio. In questa Italia descritta che stava cambiando, il matrimonio “riparatore”, ciò sposare l’uomo che aveva stuprato la donna, era ancora diffuso, in modo che lei, per tutta la vita, avesse rapporti sessuali con una sola persona.

 

Oggi nel mondo occidentale (e in Italia con i superficiali pregiudizi discriminatori dell’ultim’ora) si sente dire che i paesi dove l’Islam fa da padrona costringono le donne ad una condizione inaccettabile. Così come per quanto riguarda la tolleranza religiosa (frutto per lo più di ignoranza della religione stessa da parte di chi la pratica) entrambi gli aspetti sono stati fino a decenni fa peculiarità anche della nostra società. Con la speranza che anche le donne che vivono in determinati paesi possano un giorno scrivere la storia della loro emancipazione, è giusto ricordare come anche quei paesi stanno semplicemente vivendo i tempi in Italia già passati, anche se ancora non del tutto, e che allora ciò non è dovuto ad arretratezza imputabile all’etnia.

 

Un esempio indicativo può essere il comportamento della donna durante l’atto sessuale: ancora oggi è praticata in alcune parti del mondo l’infibulazione (mutazione dell’organo genitale femminile il cui fine è quello di non far provare piacere sessuale), tradizione diffusa più nel mondo islamico ma che in esso non trova origine essendo nata già molti secoli prima, almeno dall’età dei faraoni egiziani. Nell’Italia moderna non è mai stata diffusa una pratica del genere, però ancora nel dopoguerra per una donna mostrare piacere durante l’atto sessuale poteva attirare i sospetti del marito sulla sua verginità e sul fatto che, provando piacere, poteva essere una potenziale traditrice.

 

La fine della guerra portò all’inizio di un’altra, quella tra le due superpotenze che si “combatté” anche in Italia in quanto paese di frontiera. Si fronteggiarono anche le donne impegnate in politica: le “udine”, cioè le aderenti all’UDI (Unione Donne Italiane) di ispirazione social-comunista e quelle iscritte al CIF (Centro Italiano Femminile) costola della Democrazia Cristiana. Entrambe le organizzazioni erano rivolte alle donne e ai loro problemi. Mentre l’UDI era più impegnata ad assistere le donne del proletariato, le ragazze-madri e le operaie, quelle del CIF erano anch’esse impegnate nelle attività assistenziali (iniziate, come visto già prima della Grande guerra e proseguite anche durante il fascismo), e contemporaneamente diffondere la morale cattolica e il modello di donna voluta dalla chiesa.

 

Il 1968 è l’anno della contestazione mondiale. Se allora si predicava il libero sesso, la rottura con la tradizione religiosa e partitica dei genitori e tutto ciò che aveva caratterizzato la loro epoca, questo clima di cambiamento in Italia si protrasse per tutti gli anni settanta però in maniera più radicale e violenta rispetto ai cosiddetti figli dei fiori. In quest’arco di tempo (1968-1980) si concentrano i tanti cambiamenti giuridici che toccano la donna, sia come giovane che donna madre. In questi anni nacque anche tante organizzazioni femministe.

 

Il primo importante provvedimento che portò l’Italia verso la strada della laicizzazione della società fu la legge proposta (poi approvata dal parlamento) dal deputato socialista Loris Fortuna che indusse il divorzio. Quattro anni dopo i cittadini votarono contrario, tramite un referendum, all’abrogazione della legge. Nel 1971 furono abolite le norme fasciste che proibivano l’informazione sulla contraccezione e la legge Noce su estesa anche alle lavoratrici a domicilio. Nel 1975, invece, furono abolite le disposizioni previste dal codice civile Pisanelli; la donna non era più obbligata con il matrimonio a prendere il cognome e la cittadinanza del marito e non spettava più a lui decidere il luogo di residenza.

 

Il Partito Radicale portò avanti la battaglia per legalizzare l’aborto ma quando il parlamento approvò, nel 1978, gli stessi radicali furono insoddisfatti dei contenuti e quindi votarono addirittura contro. L’aborto volontario era consentito solo entro i primi tre mesi e da effettuare all’interno di strutture pubbliche. Dopo novanta giorni si poteva abortire solo per salvaguardare la salute della madre. Come con il divorzio, la Democrazia Cristiana portò alle urne un referendum abrogativo nel 1981, ma fu ancora una volta respinto, sancendo una vera rottura con il passato.

 

L’ultimo importantissimo provvedimento a favore della donne è stato preso nel solo 1996: lo stupro da reato contro la morale pubblica fu fatto rientrare tra i reati contro la persona. Che tale decisione sia stata presa meno di vent’anni fa, è eloquente di come l’Italia abbia faticato a tutelare giuridicamente le donne.

 

Oggi esse sulla carta sono finalmente pari agli uomini, ma solo sulla carta. È facilmente riscontrabile come ancora oggi in Italia le donne siano discriminate, con tanto di giudizi e pregiudizi, nella retribuzione sul lavoro, nei ruoli nella società e a casa.

 

Per superare tali barriere non servono leggi, bensì educazione.



 

 

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