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N. 41 - Maggio 2011 (LXXII)

Donne algerine e donne marocchine
condizione e prospettive

di Francesca Zamboni

 

L’Algeria e il Marocco rappresentano due paesi che storicamente e culturalmente hanno avuto processi simili, ma allo stesso tempo diversi per il modo in cui la figura femminile ha tentato di emergere.

 

Due paesi che, sull’onda entusiasmante dell’indipendenza, hanno fatto della donna uno strumento per raggiungere obiettivi più politici che sociali, relegandola ad una situazione di finta emancipazione, visto l’enorme abisso creatosi tra quello che i due paesi si propongono di realizzare teoricamente e quello che praticamente viene attuato.

 

Si tratta di un movimento dialettico, creatosi dalla staticità della tradizione e dalla voglia di modernità lasciata dalla memoria occidentale.

 

Un fenomeno, questo, che spesso conduce ad alcune riflessioni, ovvero: “È possibile trasformare questa bipolarità in un moto armonioso che permetta di rispettare le proprie tradizioni e al contempo adattarsi alle esigenze dei nuovi mutamenti sociali?”.

 

La risposta, ovviamente complessa, risiede nella diversa intensità con cui i processi di decolonizzazione si sono realizzati, riflettendosi di conseguenza sul differente modo di sviluppo dell’emancipazione femminile.

 

Da un lato abbiamo infatti un paese come l’Algeria che si è nutrito del fervore femminile per dare più forza alla causa indipendentista, riconoscendo alla donne il diritto di partecipare alla guerra di liberazione per poi restituirle a un sistema fortemente ancorato ai precetti islamici classici.

 

Da l’altro abbiamo un Marocco energico, fomentato anch’esso da un forte spirito indipendentista, ma sicuramente più mite nei confronti della donna, concedendole nel 2004 la possibilità di realizzarsi parzialmente attraverso l’emanazione della Moudawana.

 

Una riforma questa che contraddistingue l’animo marocchino da quello algerino, o meglio un nuovo codice che ha mostrato molta più coerenza, anche se teorica, in materia di emancipazione rispetto all’Algeria che non solo non ha mantenuto le promesse fatte durante la guerra di liberazione, ma le ha respinte con la violenza, attraverso un codice definito “della vergogna” (1984) e la ferocia di un paese troppo legato a tradizioni anacronistiche, figlie dell’islamismo più estremo.

 

Le frange islamiste algerine non potrebbero mai accettare uno stravolgimento dei dettami classici, ovvero una reinterpretazione del Corano e della Sunna. Significherebbe sfidare la legge divina, costituita da articoli di fede circa la morale personale degli uomini, in ambito etico e giuridico.

 

Gli anni ’90 ne sono la prova, visto che nonostante le violente discriminazioni, le istituzioni non seppero o molto probabilmente non vollero riconoscere la pericolosità dell’ideologia fondamentalista.

 

Il Marocco, con atteggiamento più moderato, ha saputo invece interpretare il Corano, riconoscendo la struttura gerarchica in cui, tuttavia, uomo e donna giocano un ruolo vicendevolmente complementare, poiché non esiste la realizzazione dell’uno senza l’altro. Una donna quindi che si realizza la figura maschile, restando sempre un gradino al di sotto di esso.

 

E sebbene il Corano abbia portato un progresso rispetto all’età preislamica, nel passaggio dalla credenza religiosa allo svolgimento pratico, la situazione che si presenta è ben diversa.

 

Le riforme apportate al codice del 1957 dalla Mowdawana marocchina circa la poligamia, la figura del wali, il ripudio e le richiesta da parte delle donne algerine ne sono la prova.

 

Il Marocco ha concesso un codice nuovo, che ci spinge a formulare delle domande sulla società, toccando tematiche concrete, come la morale, la religione, il diritto, la politica e la definizione del ruolo femminile, che col tempo si è valorizzato grazie all’accesso all’istruzione, al lavoro, alla pianificazione familiare, e in parte alla vita politica.

 

Quindi non più una donna relegata al ruolo di madre e coniuge, bensì una donna capace di affrontare l’esigenza di una nuova organizzazione sociale e culturale sostenuta dalla Costituzione del 1962 che, con le successive riforme, ha confermato come l’uomo e la donna godano di uguali diritti politici, nonostante l’incolmabile abisso tra un pensiero teorico e una realizzazione pratica.

 

Da evidenziare inoltre il ruolo giocato, in materia, da Hassan II negli anni ‘90 e da Muhammad VI, che nel 2003 si fece promotore della revisione del vecchio codice per tutelare i diritti della donna e della famiglia, ottenendo il principio di uguaglianza tra i coniugi; l’abolizione del tutore; l’aumento dell’età legale del matrimonio; la parziale abolizione della poligamia in quanto subordinata all’autorizzazione preventiva del giudice; la possibilità per la futura sposa di introdurre una clausola monogamica all’interno del contratto matrimoniale; il divorzio come diritto esercitato dall’uomo e dalla donna; l’abolizione del ripudio verbale; la riforma dell’eredità, ponendo fine alla primitiva tradizione che favoriva gli eredi maschi; e infine la custodia dei figli alla madre in caso di divorzio.

 

Questi mutamenti si prestano ad un interessante confronto con quelli propugnati nel codice algerino del 1984, che sancisce la minorità civica delle donne, discriminandole nell’ambito delle relazioni familiari.

 

La necessità di un tutore maschio per concludere il matrimonio, il dovere di obbedienza al marito, la poligamia, il diritto unilaterale di divorzio riconosciuto allo sposo con diritto al domicilio coniugale e infine la tutela dei figli in capo al marito sono la prova della discriminazione sociale in cui versa la donna algerina.

 

Quindi ci troviamo di fronte ad un tema delicato fatto di certezze e contraddizioni, dove la donna non riesce ancora ad avere risposta circa le sue richieste di emancipazione.

 

Si tratta di realtà superate ma parzialmente risolte, poiché i dettami religiosi continuano a prevalere, impedendo la completa realizzazione della donna.



 

 

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