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N. 38 - Febbraio 2011 (LXIX)

Le deportazioni in Unione Sovietica
Ceceni, ingusci, tatari e il timore per il nazionalismo

di Giuseppe Formisano

 

Fin dalla sua nascita, lo Stato sovietico dovette confrontarsi con la resistenza delle popolazioni non russe presenti all’interno del suo vastissimo territorio.

La sovietizzazione (cioè l’imposizione della cultura sovietica e della lingua russa) fu un punto nodale e importante per i bolscevichi, in modo da poter creare una federazione multietnica, socialista e unitaria.


I bolscevichi nel 1917, anno della presa del potere, e negli anni della guerra civile contro le “armate bianche”, promisero un certa autonomia ed indipendenza alle popolazioni dell’Eurasia, ma successivamente optarono per una politica diversa, anzi, contraria.


Il neonato Stato temeva il sorgere del nazionalismo, sentimento borghese e reazionario per antonomasia, perché sarebbe potuto diventare un’arma pericolosissima contro l’unificazione delle varie popolazione sotto la bandiera del socialismo.
Sconfitti i borghesi e gli aristocratici con la vittoria nella guerra civile, i nuovi “nemici del popolo”, categoria giuridica introdotta nella Costituzione del 1936 (nota anche come “costituzione staliniana”) divennero le popolazioni ostile all’ordine imposto da Mosca. Quali potevano essere le nazionalità “nemiche”? Quelle poste ai confini, sia a ovest che ad est dell’URSS, furono le prime sulle quali caddero le preoccupazioni in merito dei dirigenti del partito. Queste patirono l’egemonia russa già ai tempi degli zar, e la loro posizione geografica le rendeva anche più facilmente soggette all’influenza delle forze imperialiste, soprattutto dell’Europa centro-occidentale.
Stalin, nel ruolo di Commissario per le Nazionalità nel primo governo sovietico, era ben cosciente di queste problematiche.


I coreani e i cinesi furono rimossi dalle regioni del pacifico, ufficialmente per motivi di sicurezza, e trasferiti in Kazachstan. Anche i polacchi e i tedeschi furono prelevati dalle loro terre natie e deportati in Asia centrale.
In maniera non differente dalle idee naziste sulla superiorità biologica, culturale e storica delle popolazioni germaniche, anche il regime pseudo-socialista di Stalin postulava la superiorità della popolazione russa nei confronti delle altre.

Ceceni e ingusci

Note già ai tempi delle prime penetrazioni dei russi nei territori nordcaucasici nella seconda metà del ‘500, le popolazioni di cececi e degli ingusci erano definiti “gor’cy”, cioè montanari. Come altri popoli musulmani delle aree montagnose furono vittime di raid e incursioni cosacche in quelle che consideravano le proprie terre natie, e combatterono strenuamente per difendere l’integralità delle loro leggi e tradizioni. Nel 1783 furono inglobate nell’impero zarista, e collaborarono fedelmente al fianco dell’Armata Rossa durante la guerra civile del 1917-21 per mantenere l’autonomia a loro promessa. Ma con l’avvio del processo di sovietizzazione (che prevedeva anche, ovviamente, le collettivizzazioni forzate), i suddetti popoli non piegarono facilmente la testa. Nel 1921 Mosca istituì la “Repubblica delle montagne sovietiche” (composta non solo da ceceni e ingusci), ma quando nel ’25 avviò una massiccia operazione militare con impiego dell’artiglieria e dell’aviazione, i ceceni e gli ingusci furono obbligati ad entrare in un’ unica provincia autonoma nell’ambito della campagna volta ad amalgamare i popoli più piccoli dell’URSS.


Nel giugno del 1941 Hitler diede avvio all’operazione “Barbarossa” con l’invasione dell’Unione Sovietica per liberare e conquistare lo “spazio vitale” ad est della Germania e sradicare la presenza “giudaico-balscevica", connubio creato dalla propaganda nazista che riscontrò molto successo. Dopo il primo blocco posto all’avanzata delle truppe hitleriana dall’Armata Rossa e dalla resistenza dei partigiani, la Wehrmacht riprese le ostilità nella primavera del ’42 convinta più che mai della conquista dei territori caucasici per impossessarsi delle materie prime (petrolio in primis), in modo da poter sostenere lo sforzo bellico ora più che mai necessario dopo l’ingresso degli USA nella seconda guerra mondiale nel dicembre del 1941.


Le popolazioni caucasiche si divisero di fronte all’invasione: alcune obbedirono alla richiesta di Mosca di difendere la patria, altre videro i nazisti come i liberatori dell’opprimente sistema sovietico. Anche tra i ceceni e gli ingusci si verificarono adesioni nelle file naziste e antinaziste. Nel 1944, quando la liberazione di Stalingrado era già avvenuta da un anno, con conseguente ritorno, proprio per via della controffensiva sovietica, dell’esercito nazista al di là dei propri territori, i sovietici poterono regolare i vecchi conti con i caucasici che furono accusati di collaborazionismo con gli invasori nazi-fascisti. E così iniziarono le deportazioni sotto la supervisione di Barija, direttore responsabile delle operazioni in tutto il Caucaso settentrionale. Ceceni e ingusci furono caricati su carri merci e tradotti in Kazachstan e in Kirghizistan, dove rimasero fino al periodo della “destalinizzazione” della seconda metà degli anni ‘50. Queste criminali operazioni avevano come fine “semplicemente” il trasferimento punitivo in zone più centrali dell’URSS e non un genocidio (cioè l’uccisione del gene biologico), ma come sempre accade, purtroppo, già durante le deportazioni molte persone perirono. Ciò ovviamente non pone questi tipi di trasferimenti (indicati più diffusamente come “pulizie etniche”) a un livello, umanamente, più accettabile rispetto al genocidio.


L’obiettivo di Stalin e Beeija era quello di distruggere i ceceni e gli ungusci in quanto nazionalità non amalgamante a quella sovietica, e una volta trasferiti in Kazachstan e in Kirghizistan fu a loro proibito di parlare la loro lingua e manifestare la propria cultura e religione.


Nel 1957, al momento del ritorno nelle terre d’origine, la Repubblica autonoma di Cecenia e Inguscezia fu formalmente ristabilita assegnando alle popolazioni in ritorno dall’esilio punitivo i vecchi confini dati del 1944 (anno in cui fu ufficialmente dissolta) disciplinando anche i confini con le regioni adiacenti di Ossezia settentrionale, Daghestan, Georgia e Stavropol.


Il ritorno delle popolazioni caucasiche voluto da Chuščëv non servì a cancellare tutte le ostilità tra le popolazioni coinvolte: oggi, nonostante due guerra negli ultimi decenni, (una negli anni 1991-96 e un’altra nel 1999-2006) è ancora aperta una “questione cecena” dovuta alle continue richieste d’indipendenza (anche con atti terroristici) che la Russia non è disposta a concedere per l’importanza strategica che copre la regione con il passaggio di gasdotti ed eleodotti.

I Tatari

I tatari, discendenti dai canati mongoli, erano presenti in territori euroasiatici e particolarmente in Crimea. Territorio conteso tra la Russia e l’Impero Ottomano, nel 1783 la penisola entrò a far parte dell’Impero russo sotto Caterina la Grande. Come fecero i sovietici con i ceceni e gli ingusci, accusarono anche i tatari della Crimea di collaborare con inglesi e francesi contro i russi durante la guerra di Crimea del 1853-56 vinta dalle truppe zariste.


La penisola, per via della sua posizione geografica, era indispensabile per il commercio e per suoi porti, ma non solo: le lussuose residenze sul Mar Nero attiravano i villeggianti da tutto l’impero zarista prima e dell’URSS poi, ma anche dirigenti e sindacati di tutti i partiti comunisti del mondo. Infatti, quando il segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti morì nell’agosto del 1962, si trovava proprio a Yalta, città costiera della penisola.


Come molti in Russia, i tatari non accettarono volentieri le collettivizzazioni forzate, e le relazioni con la dirigenza di Mosca non furono sempre idilliache.
L’invasione nazista del ’41 pose fine all’esistenza della Repubblica autonoma di Crimea istituita nel 1921.


La guerra di conquista di Hitler fece emergere l’atavico odio che le popolazioni della Crimea covarono verso i sovietici, e anche in questo caso alcuni non sdegnarono di collaborare con nazisti. Che queste collaborazioni furono reali o inventate da Stalin e Berija, la notte il 17 e 18 maggio 1944 l’Armata Rossa radunò tutta la popolazione tatara per deportarli in Uzbekistan e Tadzikistan. “Noi tatari chiamiamo queste carrozze forni crematoi su rotaie”, ricorda Ayshe Seytmuratova, che riuscì a scappare e scrisse le sue memorie. “Viaggiammo in queste condizioni per intere settimane senza né cibo né assistenza medica adeguata”.


Il fatto che i tatari residenti in altre zone dell’Unione Sovietica non furono toccati, lascia eloquentemente capire che il solo obiettivo dei responsabili era di “ripulire” la Crimea dagli stranieri. Tant’è che anche a bulgari, greci e armeni, fu proibito di risiedere nella penisola del Mar Nero.


Al termine della guerra la Crimea divenne territorio dell’Ucraina, e i suoi vecchi abitanti, come per i ceceni e gli ungusci, non furono menzionati nel discorso-arringa di Chuščëv al XXo Congresso del PCUS nel 1956.


Dopo il famoso intervento del segretario all’assemblea del partito, buona parte dei tatari fece ritorno nelle proprie terre.


Proprio il nazionalismo tanto temuto dai detentori del potere sovietico fu la causa delle nefandezze che alcune nazionalità in URSS hanno dovuto subire. Lo sviluppo dell’uomo con il soddisfacimento dei suoi bisogni e l’agiatezza sociale declamati dal socialismo originario, furono traditi da una cricca di criminali preoccupati solo di mantenere il loro dominio su milioni di persone alle quali, finalmente, la storia sta riconoscendo il loro dolore e le loro memorie.



 

 

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