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N. 47 - Novembre 2011 (LXXVIII)

LA DELEGITTIMAZIONE IN POLITICA
confronto o battaglia?

di Roberto Rota & Giovanni Piglialarmi

 

[Il confronto politico può assumere diversi livelli di asprezza, passando dal semplice dibattito alla “battaglia” vera e propria.

 

La violenza dello scontro dipende dalla considerazione che si ha l’un dell’altro, in particolare se i due sfidanti si considerano “avversari” oppure “nemici”. Nel primo caso il confronto non supererà una certa soglia di durezza, nel secondo caso esso può degenerare in una vera e propria guerra civile, con effetti sistemici distruttivi. Sarà quindi necessario considerare le differenze tra avversario e nemico ovvero tra concorrente legittimo e illegittimo.


La legittimazione di un soggetto politico deve sempre far riferimento ad un contesto valoriale che possiamo identificare, in ogni società particolare, nella costituzione.

 

La carta fondamentale contiene norme che regolano il vivere comune e il riferirsi o meno a tali regole è la discriminante circa il riconoscimento della legittimità. Per esempio in una Repubblica quelle forze che si professano monarchiche (si pensi al secondo dopoguerra italiano), poiché in contrasto con i valori fondanti della società (incarnati dalla costituzione repubblicana) non possono essere considerate legittime anche se ciò non toglie che esse possono avere un largo seguito tra la popolazione. Da questo punto di vista, quindi, è facile identificare, all’interno di tlae contesto, le forze illegittime in quanto sleali (o anche semi-leali) verso la costituzione.


Fulvio Cammarano definisce la legittimazione politica, nel confronto tra più forze, come “il riconoscimento, da parte di un concorrente alla gestione del potere politico in una determinata comunità, della legittimità di un altrui identica pretesa” mentre la delegittimazione è la “contestazione radicale della legittimità di un potere o di un’aspirazione al potere”. Inoltre possiamo definire, all’interno di un contesto sociale dato, come “legittimità normativa” tutto ciò che è considerato legale all’interno di tale sistema socio-politico o, come direbbe Jürgen Habermas, quell’insieme di valori che sono sentiti come universali e che quindi svolgono una funzione normativa. D'altronde esiste, oltre alla definizione normativa di legittimità, una definizione che possiamo descrivere come empirica, cioè una fede nella legittimità di sistema che deriva dall’accettazione interiore da parte del singolo della norma definita come legittima.


All’interno del dibattito politico, quindi, lo scontro può seguire regole prestabilite quando esso avviene tra forze che si riconoscono a vicenda, può, invece, assumere aspetti drammatici e violenti quando le forze non si riconoscono reciprocamente legittimate per la guida di un paese. Da ciò ne deriva che il tema della delegittimazione può facilmente essere usato per screditare l’avversario e cercare di conquistare il potere.


Inoltre, usando sempre le parole di Fulvio Cammarano, possiamo aggiungere che “ è necessario, in via preliminare, tracciare il confine tra conflitto politico, anche aspro, e delegittimazione vera e propria, che poi è lo stesso confine tra avversario e nemico. Semplificando, si può individuare nell’avversario colui che propone una politica narrata come contraria agli interessi della comunità ma non ai suoi valori fondanti, mentre il nemico può essere descritto come il negatore di quei valori”.


Premessa necessaria all’uso come “arma politica” della delegittimazione dell’avversario (cioè l’accusa di essere estraneo ai valori fondanti di una data società) è il precedente riconoscimento dello stesso.

 

In altre parole due forze che fanno già riferimento a valori completamente opposti (monarchici e repubblicani, oppure nazionalisti e internazionalisti) non hanno bisogno di pratiche delegittimanti per screditarsi, in quanto già sono l’una estranea all’altra. Solo tra forze che condividono almeno un minimo recinto valoriale è possibile la delegittimazione, per esempio, nell’Italia post-unitaria destra e sinistra storica riconoscevano entrambe, come valore fondante, l’epopea risorgimentale e l’unità del paese (a differenza, per esempio, della Chiesa Cattolica, inizialmente antiunitaria).


La pratica della delegittimazione dell’avversario si è particolarmente diffusa nell’età moderna dal momento in cui i mezzi di comunicazione hanno trasformato la politica, l’hanno resa subordinata a forme di comunicazione simboliche, a pratiche di propaganda che ben si adattano alla denigrazione del nemico. Una campagna elettorale fatta di slogan e di immagini, una politica che, come direbbe Carl Schmitt, ha bisogno di nemici come “pericoli diffusi” più che come figure concrete, è particolarmente adatta a retoriche delegittimanti. Inoltre, nelle democrazie moderne, la presenza delle elezioni ha reso quanto mai necessario il discredito dell’avversario, almeno per cercar di racimolare voti in più.


Il discorso sulla delegittimazione politica è alquanto complesso, poiché non basta dire che esso avviene quando il proprio avversario è considerato sleale verso i propri valori e quindi deve essere considerato come nemico ideologico. In alcuni casi il confronto può assumere una particolare virulenza anche tra forze politiche leali, è questo il caso delle transizioni di regime, che mettono più facilmente a nudo le pratiche delegittimanti. Da queste premesse Stefano Cavazza cerca di definire tre tipi di delegittimazione, avendo comunque presente che le varie tipologie facilmente tendono a sovrapporsi.


Il primo tipo di delegittimazione è quello “intenzionale”, usato esplicitamente come arma politica. Esso può avere due finalità: destabilizzare e distruggere il sistema precedente per poter raggiungere il pieno e incontrastato potere; discreditare l’avversario per potersi sostituire ad esso nella guida politica del paese, all’interno, però, della normale dialettica democratica.


Il primo caso è sicuramente quello dei fascismi i quali cercano di screditare un sistema per farlo crollare e costruire, così, sulle sue ceneri, un nuovo stato (utilizzando spesso pratiche violente).

Si pensi alle modalità di ascesa, in Italia, del Partito Nazionale Fascista.

 

Esso alimentò il malcontento verso la cosiddetta “vittoria mutilata”, delegittimando la classe politica precedete, quella liberale, che non era stata in grado di raccogliere i vantaggi della vittoria. Le retoriche delegittimanti utilizzate erano ben rodate (incapacità delle istituzioni liberali, necessità di una classe politica forte che sapesse difendere gli interessi della borghesia, lo spauracchio della rivoluzione) e alla fine portarono alla disgregazione del sistema. Il fascismo, fonte della delegittimazione del sistema, si presentò paradossalmente come portatore di ordine e riuscì ad impadronirsi del potere. Interpretando le movimentate vicende italiane dei tormentati anni 1919-20 come i primi passi verso un progressivo processo di democratizzazione del paese commenta Vittorio Foa “ il Fascismo non fu […] una risposta al disordine, perché fu disordine esso stesso, il fascismo fu la risposta a questo disegno istituzionale di democrazia moderna [che per Foa era rappresentato dal nuovo sistema elettorale]. Non rispose alla rivoluzione ma all’espansione della democrazia”.


Lo stesso discorso può farsi per il Nazismo che utilizzò pratiche delegittimanti contro la Repubblica di Weimar (mito del tradimento, della rinascita germanica, del complotto ebraico-comunista…), per portare al crollo il sistema repubblicano.


La delegittimazione intenzionale può essere utilizzata, però, anche semplicemente nello scontro politico quando questo diventa particolarmente aspro. È il caso per esempio della Spagna degli anni novanta dove il tema della corruzione fu utilizzato intenzionalmente per delegittimare il governo socialista di Felipe Gonzales e portare al potere (nelle elezioni del 1996) il Partito Popolare di José María Aznar. Si tratta di un tipo di delegittimazione che seppur utilizzata all’interno di un conteso di forze legittime si rende necessaria in momenti disperati. Gonzales, infatti, aveva vinto per ben quattro volte le elezioni (’82, ’86, ’89, ‘93) ed era rimasto al potere per quasi quindici anni, per evitare l’ennesima riconferma del leader socialista il Partito Popolare, grazie all’alleanza con alcuni giornali e televisioni (per esempio El Mundo di Pedro J. Ramírez), organizzò una vera e propria battaglia mediatica contro Gonzales che portò, inevitabilmente, al crollo dei voti a favore dei socialisti.


Un altro esempio di delegittimazione usata intenzionalmente per screditare una particolare classe politica è stata individuata, in maniera molto interessate, da Jean-Louis Briquet e fa riferimento a quel periodo della storia repubblicana italiana denominato, solitamente, come Tangentopoli.

 

In particolare Briquet contesta la tradizionale interpretazione di quegli eventi che identifica nel malcontento e nell’indignazione pubblica il maggior fattore dello stravolgimento della classe politica. Se sicuramente l’azione della magistratura fu provvidenziale del rendere pubbliche la corruzione e le collusioni della politica è anche vero che la mobilitazione della società non fu il fattore fondante del rinnovamento politico. Già in precedenza altri scandali erano venuti alla luce (come quello dei “Petroli”) ma ciò non aveva stravolto il decennale dominio democristiano. Da ciò ne deriva che il vero fattore di rivolgimento del sistema politico deve esser cercato nella stessa politica, cioè in quei nuovi attori che individuarono, giustamente, nelle vicende legate ai processi di Mani Pulite l’occasione per scalzare la vecchia classe politica e sostituirsi ad essa. Le vicende giudiziarie furono tanto efficaci poiché alimentate da tutta una serie di nuovi politici (non necessariamente giovani, ma nuovi in quanto fino a quel momento in secondo piano) che presentandosi come la nuova classe politica si opponevano a quella vecchia, definita corrotta.

 

La contrapposizione tra nuovo e vecchio, tra puro e corrotto fu la discriminante della nuova classe politica e la fonte della sua legittimazione.

 

Grazie alla delegittimazione dei vecchi leader di partito, resa possibile dalle indagini della magistratura, nacque la classe politica della cosiddetta Seconda Repubblica, da ciò ne deriva che quegli eventi devono essere interpretati come “un processo di ricomposizione del campo della rappresentanza partitica”. Da qui una triste conclusione secondo cui la legittimazione deve essere interpretata “non come il prodotto dell’adesione collettiva dei cittadini a delle norme ideali, ma come il risultato dei processi di stabilizzazione dell’ordine politico ai quali partecipano in primo luogo gli attori direttamente impegnati nelle arene istituzionali”.


Il secondo tipo di delegittimazione sottolineato da Cavazza è quello detto “strumentale o temporaneo”. Si tratta di una pratica che viene usata da emergenti gruppi politici e sociali per farsi notare ed aumentare la propria visibilità. Usando un linguaggio delegittimante verso il sistema e verso le tradizionali classi politiche al potere si cerca di farsi strada nell’agone politico e raccogliere la prioria parte di gloria e di guadagni. È questo il caso del “Fronte dell'Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini o della “Lega Nord” di Umberto Bossi, tipiche espressioni del populismo politico. Si tratta di formazioni che, una volta cooptate al potere, hanno raffreddato i propri toni in cambio della prioria fetta di guadagno, salvo ritornare, occasionalmente, alle vecchie recriminazioni quando la loro influenza (soprattutto verso i propri elettori) scende.


Infine il terzo tipo di delegittimazione, quello sicuramente più importante, è definito da Cavazza “preterintenzionale”. Esso si realizza “attraverso il comportamento di attori che rivendicano la specificità delle loro proposte […] in contrapposizione a identità sentite come inconciliabili”. Questo si concretizza in quei sistemi dove le regole del confronto democratico sono poco radicate (magari per la “giovinezza” del sistema) e quindi tale confronto non segue le norme del rispetto reciproco e anche il semplice confronto assume i toni aspri della guerra civile e delle lotta contro il nemico ideologico. Ciò si realizza soprattutto nei momenti di transizione di regime o comunque quando nascono sistemi democratici di cui non si comprendono ancora le regole fondamentali. Il caso della Repubblica di Weimar è sicuramente esemplare.


Il sistema politico-istituzionale della Germania nel primo dopoguerra è sicuramente innovativo per un paese abituato al ferreo controllo della monarchia prussiana. Lo scontro politico tra le forze conservatrici e quelle che guardano a sinistra è particolarmente aspro anche perché il sistema parlamentare (cioè di un governo legato alla fiducia parlamentare) e la possibilità del libero confronto democratico sono delle vere novità, a cui è difficile adeguarsi. La libertà di espressione è spesso interpretata come licenza e la presenza al potere di forze moderate o socialdemocratiche viene interpretata come la vittoria di chi ha complottato per la sconfitta del paese (il mito del tradimento, del paese non sconfitto sul campo di battaglia). La delegittimazione dell’avversario è pratica comune tra forze politiche completamente estranee l’un l’altra e soprattutto estranee al sistema repubblicano e democratico.

 

La violenza è comune e simbolo dell’asprezza del conflitto saranno gli assassinii di personalità politiche importanti come Walther Rathenau o Matthias Erzberger.


Si tratta questo di un contesto di delegittimazione preterintenzionale in quanto essa è usata come pratica diffusa (per la poca conoscenza delle regole del confronto democratico) e non come arma per far crollare il sistema, prova ne sia il fatto che nonostante tutto, nella seconda metà degli anni ’20, la repubblica riuscì a stabilizzarsi. Diverso è il caso dell’ascesa del Partito Nazionalsocialista a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. Il partito di Hitler utilizzò una retorica delegittimante verso il sistema repubblicano con il preciso intento di destabilizzarlo (utilizzando anche pratiche violente).


Caso simile a quello tedesco è sicuramente l’Italia del secondo dopoguerra. Anche quello era un conteso dove si era appena affermata una giovane democrazia, dopo un ventennio di dittatura, e le regole del confronto democratico non erano ben radicate.

 

Il confronto, quindi, fu particolarmente aspro tra le forze comuniste e socialiste (Fronte Democratico Popolare per la libertà, la pace, il lavoro) e quelle democristiane soprattutto in occasione delle elezioni del 1948. In questo caso le retoriche delegittimanti furono largamente utilizzate, e potevano essere usate in quanto le due forze seppur completamente opposte circa i loro riferimenti ideologico – culturali, erano accumunate dal condiviso riferimento repubblicano e dall’esperienza della Liberazione.


Furono soprattutto i democristiani ad utilizzare le pratiche delegittimanti accusando i comunisti di essere dei barbari pronti a portare i carri armati sovietici anche in Italia. Il Pci, d’altra parte, cercò di limitare (per convenienza elettorale) la tradizionale retorica anticlericale ma non mancò occasione di accusare il primo ministri De Gasperi si essere schiavo degli americani e, in precedenza, degli austriaci. La delegittimazione, quindi, fu usata spesso, come nel caso della Germania, ma ciò non impedì al sistema repubblicano di consolidarsi, al contrario di ciò che successe alla Repubblica di Weimar. Il confronto tra i due casi è quindi illuminante.


In generale possiamo affermare che se condizione necessaria al crollo di un sistema è la presenza di pratiche delegittimanti nel confronto politico che corrodono gli apparati istituzionali, tali pratiche non sono, però sufficienti. Sono necessari altri fattori. In Germania, in particolare, intervennero: un partito intenzionalmente delegittimante (NSDAP), il ricordo della guerra come tradimento, la presenza di riparazioni sentite come ingiuste, una paurosa crisi economica alla fine degli anni venti e, infine l’utilizzo della violenza da parte di tutte le formazioni politiche che delegittima la repubblica agli occhi della popolazione e fece crescere il desiderio di una svolta autoritaria che mettesse ordine nel paese. Le pratiche denigratorie sono, a lungo andare, fatali per il sistema solo in presenza di altri fattori.


Il caso italiano (e i primi anni della Repubblica di Weimar), invece, dimostra, che la presenza di forti istituzioni democratiche e il rifiuto della violenza come pratica generalizzata sono gli antidoti giusti contro l’effetto destabilizzante delle pratiche di delegittimazione.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Cammarano, S. Cavazza (a cura di), Il nemico in politica , il Mulino, 2010

Rivista “Memoria e Ricerca”, curato da J. L. Briquet, n.32, 2009, su Questione morale e politica. Problemi della transizione nella crisi europea di fine Novecento.



 

 

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