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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

A EST DEL DANUBIO
Capitolo XVI

di Leila Tavi

 

Roma. Febbraio 2004

 

È inverno eppure mi bruciano gli zigomi come dopo la prima giornata di sole d’estate, in cerca della prima farmacia notturna aperta e mi chiedo perché, perché mi debba sempre cacciare nei guai. Il farmacista indiano non vede la luce del sole da anni, ogni notte lo trovi lì, nella farmacia di viale Europa.

 

Avverto il contrasto tra il calore della pelle e il freddo della notte, non resta che comprare dell’acqua termale, quella che puoi spruzzarti addosso e lenisce qualsiasi arrossamento. E se presto saremo costretti a comprare l’acqua potabile così, razionata, a un tal prezzo? Se il prezzo dell’acqua diventasse il punto d’incontro tra domanda e offerta, dove finiremo? Se dopo quella del petrolio arrivasse la fine dell’acqua?

 

Il Medio Oriente è già in conflitto per la spartizione delle vie d’acqua.

 

Sapevo che Fadi mi avrebbe creato dei guai. Sono quelle cose che ti senti dentro. Non avrei dovuto farmi coinvolgere in quella storia di un palestinese residente in Tunisia e diplomato in Siria, soprattutto non attraverso uno scambio di e-mail.

 

Già pensavo ai potenti sistemi di controllo della CIA che intercettano h. 24 automaticamente le duecento parole a rischio e tra queste, ci scommetterebbe chiunque, c’è anche la parola “palestinese”.

 

Immaginavo che qualcuno proprio in quel preciso momento mi stesse intercettando; in fondo, però, ero stata contattata da un ragazzo che voleva iscriversi all’università, stavo solo facendo il mio lavoro. Desterebbe sospetti una che si chiama Leila e sta cercando di far entrare in Italia un palestinese siriano di questi tempi?

 

Prenderebbero mai un tale funzionario pubblico a lavorare in un’istituzione come la Camera? Qualcuno che magari scrive anche per un rivista che fa controinformazione. Come spiegarlo a mia madre che è ancora convinta che una ragazza seria e preparata è un futuro investimento per il Parlamento italiano, così come lo era lei una volta; eppure ai suoi tempi il numero dei parlamentari era lo stesso di adesso, allora perché avevano così pochi portaborse da sistemare come consiglieri parlamentari? Ah! Forse trent’anni fa erano più giovani e le borse se le portavano da soli, ora sono dei fantocci incancreniti, invece.

 

E poi sarebbe venuta a galla la storia di qualche anno fa, della mia patente ritrovata a casa del medico pedofilo romano e la presunta mancata denuncia. Basta poco a rovinare una persona, basta far sparire una carta e subito ti trovi invischiato in qualcosa in cui non solo non sei coinvolto, ma aberri a priori, qualcosa come il commercio di foto di minori dalla Romania a scopo pornografico.

 

Un interrogatorio discreto e informale, per telefono: “Ma lei è sposata con uno slavo?”. Ebbene sì, perché per le forze dell’ordine in Italia esiste solo la parola “slavi”, senza distinzione di genere, come se slavo fosse sinonimo di delinquente.

 

Poi ti vedi arrivare le scuse, una notifica per presentarsi in tribunale come parte offesa nel procedimento contro un tal Nester.

 

Non ho mai capito se Nester fosse effettivamente stato il romeno che mi ha derubato di patente e venti mila lire o un altro che ha acquistato la patente dal borseggiatore e l’ha tenuta mesi e mesi nella villa del medico pedofilo; è stato condannato in contumacia e non l’ho mai visto in faccia, se non quei trenta secondi nel vagone affollato della metropolitana tra Termini e Cavour, ammesso che fosse Nester il borseggiatore.

 

Un borseggiatore come tanti, un furto come tanti; un attimo per guardarlo in viso e accorgermi di cosa è successo proprio nel momento in cui le porte si aprono e il tipo sparisce nella folla e penso, per una volta che porto qualche soldo nella borsa, poi mi riconsolo che ha fatto un magro bottino con me, giusto per pagarsi una cena in pizzeria da solo e avrebbe dovuto sbrigarsi, che da gennaio avrebbero messo in circolazione l’euro.

 

Ero convinta che mi avrebbero chiamata dopo pochi giorni, avrebbero ritrovato la mia patente dentro qualche cestino della spazzatura per le vie del centro, invece erano passati quasi tre mesi e io giravo ancora con il foglio sostitutivo.

 

Cosa ci ha fatto per tre mesi la mia patente nella stanza che il romeno usava d’appoggio a casa del medico pedofilo a Nester non l’ho mai potuto chiedere.

 

Li avevo tormentati i Carabinieri dopo che mi era stata detta tutta la verità sul ritrovamento della patente, non mi ero data pace i primi tempi al pensiero che uno sconosciuto sarebbe potuto andare all’asilo da mia figlia con la mia patente e una delega per portarsela via.

 

Invece i bambini utilizzati a scopo pornografico erano bambini portati dalla Romania con il consenso delle famiglie.

 

Tribunale, Sezione penale, Aula 22. Caso Nester. Tavi parte offesa contro Nester.

 

L’illuminazione al neon dei corridoi del tribunale è pessima, un edificio pubblico così disastrato a Roma lo avevo visto solo durante gli anni della scuola, il Provveditorato, che poi non mi ricordo perché finivo ogni tanto al Provveditorato, a fare cosa? Ah, forse a protestare durante gli anni della Pantera, che dalla scuola a lì era un passeggiata di meno di mezz’ora.

 

Alla prima udienza Nester non è apparso, latitante da anni; il processo è stato rimandato per delle irregolarità negli atti di notifica da parte del PM, nel giorno in cui all’Università era prevista la lezione magistrale del premio Nobel Buchanan, l’ideatore della public choise.

 

Essere convocati di 14 febbraio dal giudice, mentre ti affanni a cercare nei corridoi del tribunale un telefono pubblico perché dal ristorante hanno chiamato mia madre sul cellulare per comunicare che è impossibile fare un tavolo grande per un gruppo di professori il giorno di San Valentino, rovina l’atmosfera agli innamorati. Mentre mia sorella, che mi ha accompagnata al tribunale da brava praticante, si lamenta del fatto che io non possegga un cellulare e che devo smetterla di dare in giro i numeri di cellulare degli altri membri della famiglia per cose di lavoro.

 

Non so se vi è mai capitato di trovarvi nella sezione penale del Tribunale di Roma; la cosa più squallida sono i bagni, quelli dei treni sembrano più puliti a confronto: un pavimento lurido su cui è meglio non far strusciare i pantaloni, così vedi donne avvocato e praticanti tirarsi su i pantaloni prima di entrare nella toilette.

 

A me è rimasta impressa la Corte d’appello. Quando studi sui libri di diritto te la immagini come un edificio antico e imponente, con gli affreschi ai soffitti, il marmo alle pareti, uomini togati che entrano in aula da un imponente ingresso con porte in legno massello lucidato; invece trovo una porta normale, chiusa da ante di color blu di un materiale derivato dal petrolio, una targa, come quelle che si trovano negli ospedali o nelle Asl, reca la scritta “Corte d’appello di Roma”. Sembra quasi l’entrata di una rimessa.

 

Gli avvocati fanno strusciare le toghe sgualcite a terra.

 

Fuori dal Tribunale arrivano a intervalli di pochi minuti blindati della polizia penitenziaria da cui scendono ragazze e ragazzi stranieri, giovanissimi, ammanettati. Nelle aule sono condotti a due a due, legati al poliziotto come cani. Hanno le facce smarrite e segnate, tra gli stranieri spiccano le teste fosforescenti di due punk no global.

 

Sono finita come il protagonista del racconto kafkiano ad aspettare per ore intere “davanti alla legge”.

 

Vienna. Dicembre 2008

 

Mi avvio per il Rennweg, come quando ai tempi della scuola accompagnavo zia Anna all’ambasciata. Alla stazione della Schnellbahn è cambiato tutto, tutto è in freddo metallo, che dà una sensazione di pulito. Non c’è più il vecchio spaccio di prodotti italiani vicino alla Chiesa ortodossa russa. Per la via nuovi alberghi di lusso. Faccio un giro nel Giardino botanico, gli scoiattoli sono tutti in letargo. Salgo a i piedi le interminabili scalinate del Belvedere, le fontane sono chiuse perché l’acqua gela, volano solo i corvi. Lo scintillio dei mosaici del Kunstschau.

 

Fiat lux!

 

È la prima volta che affitto l’appartamento di Vienna per il Capodanno; i tre ragazzi italiani che lo hanno preso sono entusiasti di quello che tra di noi in famiglia chiamiamo das Loch. Lo hanno preso per un autentico appartamento socialista, una komunalka; se penso all’amica di mia madre che ne è scappata solo dopo un giorno, schifata da tutto e alla prima volta che mia sorella ci ha messo piede e ha commentato che nel mio monolocale un reality show avrebbe più successo che sulle isole tropicali.

 

Dopo aver spiegato ai ragazzi come funziona la vecchia caldaia e averli pregati di non fare pipì nella doccia, nella attesa di poter andare a Bratislava da Adina, mi rifugio nel McDonald del 10. distretto per leggere i giornali della domenica. È mattina presto e il fast food è semideserto, dopo di me entra un Obdachloser che, come me, è venuto per leggere il giornale e bere un cappuccino a un euro, con cordialità ed eleganza saluta il personale. Quanti ne ho visti di vagabondi in città questo inverno, sembrano persone come le altre, sedute nei tram, poi ti accorgi delle sacche che si portano dietro con tutti i loro averi.

 

Eppure qui la crisi non si avverte, non è come a Bratislava, dove Robo si lamenta che è inutile continuare a costruire mansarde in centro e palazzine, ormai con i tassi d’interesse alti per i mutui a lui non rimane che dedicarsi ai suoi ristoranti.

 

A Vienna invece le Einkaufsstraße pullulano di gente stracarica di buste, le piste sono affollate di sciatori, anche se in cabinovia si sente sempre più spesso parlare russo invece che tedesco, così come nelle boutique del centro.

 

Per Capodanno si aspetta un’ondata anomala di turisti, il record di tutti i tempi.

 

Ecco che arriva un altro Obdachloser, le ragazze alla cassa lo servono come un cliente di riguardo; per questi signori il Mc è come una mensa, vengono qui tutti i giorni, soprattutto d’inverno, quando le poche fontanelle pubbliche sono chiuse a causa dell’acqua ghiacciata. Qui al Mc del 10. hanno sempre acqua potabile gratis a volontà.

 

Il secondo Obdachloser sorride riconoscente alla cameriera tailandese che, solo per lui, ha portato il vassoio al tavolo e ci ha messo un Semmel del giorno prima. L’Obdachloser è senza un braccio, anziano, mi guarda e mi sorride con il mio tavolo apparecchiato di giornali e, come lui, con un caffelatte da un euro. Si mette le mani nel naso ed è felice come un bambino. Siede vicino al primo Obdachloser, ma di spalle; i due si ignorano.

 

Il primo ha l’aria seria e distaccata; ha letto prima il Kurier e poi con estrema attenzione un Flugelblatt del discount Hofer, ha bevuto il suo cappuccino, rifiutando il pane rifatto che la cameriera tailandese voleva porgergli. Finito di bere ha riposto giornali e vassoio ordinatamente. Appena il secondo Obdachloser finisce di mangiare subito un altro cameriere va a salutarlo e a pulirgli il tavolo. Si alza e raggiunge il primo Obdachloser alla toilette, bisogna sistemarsi per la giornata. Il primo Obdachloser riappare dal bagno, fa un giro del locale e poi rientra al bagno con un Nokia N70 nero in mano, sembra essere soddisfatto, gli manca solo una casa, e un paio di scarpe. Il secondo non torna più dal bagno.

 

In Gran Bretagna Channel 4 ha mandato in onda a Natale il discorso di Ahmadinejad, in alternativa e in contemporanea a quello della regina Elisabetta. Il presidente iraniano ha augurato ai cristiani un 2009 di pace, poi ha aggiunto che se Cristo fosse oggi sulla terra sarebbe contro i sobillatori della guerra, i potenti, i terroristi, i tiranni. Combatterebbe senza dubbio la tirannica politica del sistema economico e globale che domina il mondo.

 

Ron Proson, ambasciatore israeliano a Londra, ha commentato il discorso di Ahmadinejad come “perversa ironia”; intanto a Gaza, dalla parte israeliana sono piovuti in questi giorni duecento tra missili e granate, sono morte due bambine palestinese a causa di un missile difettoso. Olmert ha intimato Hamas di smetterla, con la motivazione “Tanto siamo più forti noi”. Spesso armi e granate sono nascoste nelle ambulanza per gli aiuti umanitari.

 

I militanti palestinesi in Cisgiordania si sono fatti fotografare dai giornalisti stranieri in modo non convenzionale in occasione del Natale, con un abito rosso, il volto coperto da una maschera di Babbo Natale e la kefja al collo, mentre lanciano sassi verso il confine israeliano.

 

Shirin Ebadi è ancora rinchiusa. Benedetto XVI si è espresso contro la logica del confronto e della violenza, per la solidarietà urbi et orbi. Ma come è possibile contrastare la legge naturale dell’interesse personale prevalente sull’altro solo a parole? Non c’è morale che tenga.

 

Ivan chiama il quartiere in cui vivo “schlechter Viertel” perché non si festeggia il Natale e i serbi vendono granate per la strada.

 

Ma il Natale è una convenzione sociale e la prolifera famigliola turca che abita sul mio stesso pianerottolo mi saluta sempre con cortesia. Insieme alla mia vicina polacca condivido ormai da anni pacificamente il WC.

 

Ivan non ricorda più nulla del socialismo, vive nel suo appartamento spazioso e silenzioso del 4. Bezierk con un vecchio pianoforte di scena, un grammofono e i suoi quadri alle pareti.

 

È entrato un terzo Obdachloser, cammina male, ordina il solito cappuccino da un euro, si siede vicino a me, odora di fumo che sembra si sia calato da un camino. Ride da solo, fa tenerezza, tutto fa meno che ribrezzo, sembra quasi bello. Beve velocemente e si trascina le gambe verso la cassa, ordina il secondo cappuccino e torna al suo posto.

 

A Teikowo, a duecentocinquanta chilometri da Mosca, sono stati istallati i missili Topol-M. L’Obdachloser che siede accanto a me va per il terzo cappuccino e poi via con il quarto. Intanto entra il quarto Obdachloser, zoppica anche lui fino alla cassa, non dice niente e se ne rivà. Il terzo Obdachloser lo segue con lo sguardo fino alla porta, gli si avvicina un giovane spocchioso che lo vuole convincere a mangiare i resti del suo hamburger: “Sind für Sie,… die Resten”. L’Obdachloser lo caccia via con un gesto: “Geh!”, il giovane se ne torna al suo posto confuso e offeso. Il terzo Obdachloser torna alla cassa per un quinto cappuccino, che beve mentre se ne va via. Le cassiere mi guardano allibite, perché non me ne vado? Raccolgo il mucchio di giornali che ho letto, divido accuratamente gli articoli che voglio tenere da quelli che devo gettare e poi mi dirigo verso la cassa per ordinare qualcosa da mangiare. “Zum mitnehmen?” sono convinte le cassiere, invece, con loro stupore, rispondo che mangio lì.

 

Mentre finisco di mangiare rientra il primo Obdachloser e ordina il solito cappuccino, sono passate quattro ore.


 

 

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