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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

IL GRANDE CROLLO DEL 1929

La crisi del capitalismo: cause e soluzioni
di Cristiano Zepponi

 

La borsa di New York aprì gli scambi, come sempre, alle dieci del mattino, il 29 ottobre 1929. Ma, stavolta, si scatenò un disperato assalto per la vendita di azioni e depositi bancari, ad ogni prezzo. Sarebbe passato alla storia come il momento culminante (insieme alla giornata del 24, “giovedì nero”) del “grande crollo”: un evento insieme sintomatico del malessere serpeggiante nell’economia mondiale e degli squilibri verificatisi in precedenza.

Il clima che respirava la borghesia americana, nei “ruggenti anni ‘20”, era improntato all’ottimismo ed alla fiducia in una crescita illimitata e indefinita di ricchezza e benessere. Nessun freno politico limitò, in alcun modo, la produzione, in omaggio alla dilagante teoria liberista; né vi fu alcun ostacolo all’incredibile ondata di euforia speculativa che la Borsa visse negli anni precedenti, incoraggiata dalla prospettiva di facili guadagni attraverso la compravendita delle azioni.

Le fondamenta del sistema erano evidentemente assai fragili. E, infatti, alcune avvisaglie ci furono, nel biennio 1920-’21 e più tardi, nel 1927. Da quell’anno gli investimenti non aumentavano più, come i salari e gli stipendi, le vendite di automobili addirittura diminuivano: ma la speculazione diede, ancora per due anni, l’illusione di un progresso continuo, inarrestabile. Come fragili furono le basi dell’intero processo di espansione economica degli USA negli anni ’20.

La domanda sostenuta di beni di consumo (in massima parte durevoli, tendenti quindi alla “saturazione” del mercato) favorì infatti la formazione di una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno. A questo problema si reagì in due modi: sviluppando il credito ai privati, sostenuto da grandi battages pubblicitari, incitando l’acquisto immediato, anche a costo di gravare, a lungo termine, sui redditi; e aumentando le esportazioni, specie nel vecchio continente, accompagnate da elevate barriere doganali in patria, fino a creare uno stretto rapporto di interdipendenza con la ripresa europea. L’Europa, insomma, otteneva finanziamenti dagli Stati Uniti e sua volta ne alimentava lo sviluppo con le importazioni.

L’America, in particolare, elargì 6400 miliardi di dollari all’economia mondiale tra il 1924 ed il 1929, in larga misura a Germania ed Europa dell’est. Ma anche questo meccanismo risultava pericoloso, perché i crediti statunitensi erano generalmente erogati da banche private e legati a soli calcoli di profitto. Ogni dirottamento dei capitali verso altre operazioni avrebbe insomma avuto pesanti conseguenze sulla produzione industriale americana, ormai dipendente dalle importazioni europee.

E questo fu esattamente ciò che accadde.

I crediti furono dirottati, specie durante il 1928, verso le più redditizie operazioni speculative della Borsa. Si fondarono società esclusivamente finanziarie (“investments trusts”) al solo scopo di acquistare le azioni e rivenderle a prezzo superiore. Si costituirono così immense ricchezze che rappresentavano un capitale esclusivamente azionario, senza una contropartita di produzione; il volume dei titoli in movimento passò da 433 a 757 milioni, il valore globale di quotazione in Borsa dei titoli negoziati allo Stock Exchange da 27 a 67 miliardi.

L’ indice della produzione industriale americana, orfana dell’export oltreoceano in caduta, cominciò a scendere già nell’estate del ’29.

In settembre, il corso dei titoli di Borsa raggiunse i massimi livelli. Dopo alcune settimane, gli operatori cominciarono a liquidare i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni ottenuti: il 24 ottobre ne furono scambiati 13 milioni; il 29 si arrivò a 16 milioni. La corsa alle vendite, naturalmente, generò una caduta del valore dei titoli, stabilizzatisi a metà novembre su valori più o meno dimezzati, con conseguenze disastrose su ogni piano.

Il 24 ottobre si suicidarono a New York undici agenti di borsa.

La prima reazione delle banche, principali proprietarie di pacchetti azionari, fu di restringere il credito al consumo. Nondimeno, molte di esse fallirono. Le piccole imprese industriali e commerciali finirono rovinate dall’accumularsi delle scorte dovuto alla precedente sovrapproduzione. Quelle di dimensioni maggiori reagirono riducendo la produzione, e, semplicemente, le spese; salari, materie prime, lavoratori ne furono colpiti.

In questo modo, si creò una spirale per la quale i bassi salari (comuni anche al settore agricolo, in crisi da qualche anno) e la disoccupazione diminuivano i consumi, la cui caduta colpiva le imprese spingendole ad altri licenziamenti e altri tagli.

I salari, in particolare, diminuirono in media del 40%. I prezzi, del 20%. Le importazioni statunitensi passarono dai 4400 mln. di dollari nel ’29 ai 1323 mln. nel 1933, le esportazioni nello stesso periodo da 5240 a 1610 mln.

Il livello di vita, di cui la borghesia americana era tanto fiera, semplicemente crollò.

La disoccupazione, dagli 1,5-2,5 mln. del 1929, balzò agli oltre 11,4-14,7 del ’32.

Il flusso creditizio verso l’estero, inutile a dirsi, si interruppe bruscamente alla fine degli anni ’30 per quanto riguarda i prestiti, nel corso del ’32 per quanto riguarda gli investimenti.

Gli Stati Uniti, invece di sobbarcarsi i costi e le responsabilità connessi al ruolo di potenza egemone sul piano economico, cercarono innanzitutto di difendere la loro produzione. Rimpatriarono massicciamente i crediti erogati all’estero, danneggiando pesantemente soprattutto la Germania e l’Austria, oltre che l’Inghilterra; in più, reputarono giusto istituire, il primo giugno 1930, un’alta tariffa doganale, detta “Harvley-Smoot” (dal nome degli ideatori, due membri del Congresso), che aumentò tutti i diritti al 50% inasprendo il protezionismo e inducendo gli altri Stati a fare lo stesso.

Imposero, cioè, severi limiti all’import proprio nel momento di disperato bisogno per gli altri Stati di estinguere i propri debiti in dollari attraverso le vendite sul più ricco mercato del mondo.

L’America Latina fu, per il suo ruolo di fornitrice di materie prime agli USA, la prima ad essere colpita, e fin dal dicembre 1929 Argentina, Uruguay ( ma anche Australia) abbandonarono il corso aureo, svalutando la moneta per ridare forza all’export.

Nel corso del ‘31, anche l’economia europea crollò. Fallirono in primo luogo, anche sul vecchio continente, le strutture bancarie: la “Kreditanstalt fur Handel und Gewerbe” austriaca, la “Danatbank” tedesca, per fare degli esempi. In giugno, la crisi si estese all’Inghilterra. All’inizio del 1932 giunse in Italia, Francia, Belgio, Olanda. Solamente l’Unione Sovietica, alle prese con i Piani Quinquennali e chiusa all’economia di mercato, fu risparmiata; ed alcuni storici (come Hobsbawm), addirittura, le assegnano il merito di aver aperto, con il suo esempio, la via all’intervento statale nelle economie occidentali.

Per rispondere alle iniziative d’oltreoceano, tanto la Germania quanto la Francia misero sotto controllo il commercio, imponendo quote sull’import e introducendo quote di permuta diretta coi partner commerciali. Nel novembre del ’31 la Gran Bretagna impose dazi del 50% su ventitré diverse categorie merceologiche, per poi, nella British Empire Conference di Ottawa (luglio-agosto ’32) fissare un canale “preferenziale” di circolazione delle merci.

A cosa ciò potesse portare è molto chiaro. Il valore del commercio mondiale registrò una contrazione del 60,9% tra 1929 e 1933, il volume scese del 25,4%.

La produzione industriale, in particolare, ne risultò strangolata: scese del 40% in Germania nel corso di quattro anni, ed in Francia, ancora nel ’38, si produceva un terzo di acciaio in meno rispetto ad un decennio prima.

I risvolti più onerosi furono, come sempre, quelli sociali: negli Stati Uniti fu colpito dalla crisi un lavoratore su quattro, in Germania due su cinque. Nei pochi paesi dotati di un sistema previdenziale l’assistenza pubblica, per la scarsità di risorse di fronte ad un tale problema, cessò di esistere. Si assistette allora alla crescita esponenziale di piccoli centri di assistenza, organizzati da volontari, nei due continenti. Le comunità operaie tentarono invece di fare affidamento sulle proprie forze.

I crimini contro la proprietà, di qualunque natura, balzarono alle stelle.

L’assenza di una leadership nell’economia mondiale si fece sentire duramente. I vari Stati tentavano di difendersi, ognuno chiuso nel proprio nazionalismo economico, finendo per danneggiarne altri. La sterlina, la moneta di riferimento del circuito economico mondiale, fu svalutata nel 1931 per renderla più competitiva; gli Stati Uniti, seguendo una logica concorrenziale, fecero lo stesso due anni dopo.

A Losanna, nel 1932, gli europei decisero addirittura di abolire le riparazioni del conflitto; di fronte a questa decisione, il governo Hoover pretese l’impossibile: che l’Europa pagasse, nonostante tutto.

Il risultato fu che i paesi d’oltreoceano decisero, unilateralmente, di non farlo più. Scelsero questa via Francia, Gran Bretagna, Italia e in breve tutti gli altri.

Con una sola eccezione: la Finlandia.

Più tardi, con il Johnson Act del 13 aprile 1934, gli States tagliarono i ponti col mondo, vietando ogni prestito ai paesi che non avessero pagato i loro debiti di guerra.

L’ultima grande speranza per una reazione collettiva e condivisa, la Conferenza economica mondiale di Londra datata giugno 1933, fallì miseramente. Nel museo di storia naturale di Kensington, dove questa si teneva, il veto dell’America ad entrare in un sistema monetario fisso ne decretò il fallimento dopo appena tre settimane.

Le parole di Raymond Moley, amico personale di Roosevelt e inviato americano al convegno, indicano perfettamente la strada che si preferì imboccare: “ Il programma di riassestamento (…) dev’essere essenzialmente interno”.

La convertibilità aurea della sterlina, simbolo e strumento del potere economico inglese, fu sospesa nello stesso anno. Lo shock per l’avvenimento, nel resto del mondo, fu enorme. Tramontava, improvvisamente, una potenza secolare, abbandonando la sua leadership.

Di fronte a questo, e ad altri tragici avvertimenti che dimostravano come la crisi non fosse transitoria, né che si potesse fare affidamento, come fin’allora si era erroneamente ritenuto, sulla capacità “risanatoria” del mercato, si diffuse la convinzione che solo altri tipi di interventi, di tipo strutturale, avrebbero potuto interrompere la crisi. Lo stesso segretario americano al tesoro, Andrew Mellon, era stato un sostenitore dell’inazione; e così Herbert Hoover, il già citato presidente americano del periodo 1929-1933, che riteneva di poter salvare la situazione agendo sul piano psicologico, e che, nel tentativo di restituire la fiducia scomparsa, andò incontro ad un pesante fallimento, alimentando peraltro un diffuso clima di apatia e scoraggiamento.

I principi classici della scuola economica liberale, applicati in pratica da tutti gli Stati, non ebbero quindi alcun effetto; il mito del pareggio del bilancio, in particolare, compresse ulteriormente la domanda interna. Era chiaro, ormai, che urgevano rimedi non ortodossi.

Inizialmente, questi furono fondamentalmente due: la deflazione, appunto, fortemente avversata dall’autore di “Occupazione, interesse e moneta” John Maynard Keynes, applicata in Germania con Bruning (1930-’32) ed in Francia; volta a contenere la spesa dello Stato comprimendo salari e stipendi, correva il rischio di scatenare la crisi sociale (puntualmente verificatasi, rispettivamente con l’ingresso dei nazisti nel Reichstag e con la vittoria del Fronte Popolare nel ’36).

In secondo luogo il controllo degli scambi, attuato in Sud America, Europa centrale e balcanica, Germania (dopo il 1933) e volto a risanare nel più assoluto isolamento l’economia, isolandosi dal mercato mondiale: in breve, il produttore straniero che attuava una vendita in una di queste nazioni doveva obbligatoriamente reinvestire il guadagno all’interno del circuito economico di quel paese; quest’ultimo poteva così stabilire il proprio dominio sui vicini, pressati dalla crisi e costretti quindi a vendere i propri prodotti a qualunque condizione.

Il terzo, e ultimo metodo consisteva nell’aumentare la quantità di moneta in circolazione, e soprattutto nel manovrare in senso espansivo la spesa pubblica accettando anche di infrangere il tabù liberale del pareggio del bilancio (anche a costo di arrivare al deficit, secondo la politica del deficit spending). Nonostante sia stato adottato in più paesi ( l’Inghilterra e la Francia del Fronte Popolare, i Paesi scandinavi, in forma particolare l’Italia fascista) il caso americano resta, senza dubbio, quello più noto, oltre che più rilevante per il successivo decorso della teoria economica.

La richiesta di politiche attive,infatti, si diffuse enormemente anche in America: è per questo che, nel novembre 1932, Franklin Delano Roosevelt vinse facilmente le elezioni ( stracciando Hoover con 22.822.000 voti contro 15.762.000) divenendo il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Il 4 marzo del ’33, nel discorso inaugurale, dichiarò: “Questa grande nazione (…) rivivrà e sarà di nuovo prospera (…) Lasciatemi affermare con forza la mia convinzione: la sola cosa che abbiamo da temere è la paura.”

Capì, e fu il suo merito, di trovarsi di fronte ad un trauma sociale collettivo senza precedenti. I suoi primi cento giorni furono una frustata, un’iniezione di fiducia, riassumibile col passaggio dallo Stato liberale a quello interventista in materia economica: il New Deal ( “nuovo corso”), prodotto dell’empirismo senza un piano accuratamente concertato, venne alla luce così, col contributo fondamentale del presidente e del suo “brain trust” ( Moley, Tugwell, Warren, Berle). L’entusiasmo, la sensazione di ripartire coinvolsero tutti.

Le prime misure furono prese a sostegno delle banche ( “Emergency Banking Bill”), per decretare la fine del proibizionismo, per tagliare salari e pensioni del 15%; fu creato un programma federale di sussidi per i disoccupati; fu svalutato il dollaro, approvate leggi per il controllo della speculazione in Borsa; ma, soprattutto furono creati alcuni organismi di particolare rilevanza:


-la Farm Credit Administration per l’aiuto agli agricoltori;

-la CWA (Civil Work Administration) per amministrare i lavori pubblici;

-il NIRA (National Industrial Recovery Act) per il sostegno delle rivendicazioni operaie, e per la ripresa industriale;

-la TVA (Tennessee Valley Auhorithy), organismo pubblico per la ripresa economica dell’omonima area;

-l’AAA (Agricultural Adjustment Act) per favorire la ripresa dei prezzi agricoli.

La dura opposizione dei conservatori, espressa nei ripetuti dinieghi per incostituzionalità della Corte Suprema alle riforme del New Deal, fu il principale ostacolo da superare. Per vincerla, Roosevelt fu costretto a proporre la nomina di nuovi giudici. Bastò agitare questo spauracchio, per avere partita vinta. Con il successivo ritiro di molti dei suoi membri, la Corte Suprema rimosse tutti gli ostacoli costituzionali all’intervento dello Stato federale nel sistema economico.

Il New Deal era realtà.

Pur introducendo il dirigismo, le riforme non intaccarono i valori basilari del mercato: il profitto ne rimase il fine ultimo. Per quanto la grande trasformazione del capitalismo rimase un fenomeno interno al sistema, Roosevelt ebbe il merito, e la forza, di diffondere un clima meno rassegnato, più coinvolgente e ottimista in un Paese fortemente traumatizzato.

Da quel momento in poi, inoltre, lo Stato divenne soggetto attivo dell’espansione economica, apportando alcune limitazioni alle scelte dei privati pur senza snaturarne l’autonomia; dopo il secondo conflitto, tutti i governi occidentali faranno lo stesso.

Che poi il piano non riuscì completamente negli intenti, è ormai certo.

La produzione industriale, ad esempio, non aveva ancora raggiunto, dieci anni dopo, i livelli del ’29.

“L’americano uscì da una crisi che l’aveva colpito più duramente della guerra. Ne uscì, nulla di più. Il suo ottimismo ricevette un tale colpo che egli rimase ripiegato su se stesso.”

Ne uscì, come tutti gli altri, con la guerra che, in vari modi, la crisi aveva nel frattempo provveduto a generare.

 



 

 

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