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ATTUALITà


N. 51 - Marzo 2012 (LXXXII)

la croazia e un "sì" alla ue
nuove opportunità

di Alessandro Ortis

 

Non passa giorno che dai giornali, dalle televisioni e dai governi non arrivino messaggi poco rassicuranti sul futuro dell’Unione Europea, almeno per come l’abbiamo fino ad oggi conosciuta. Eppure, in questo vasto mare di tensioni politiche ed economiche, la Croazia, con un referendum tenutosi il 22 gennaio scorso, ha detto “sì” all’ingresso in Europa, previsto per il 1° luglio 2013.

 
Certo, non era difficile immaginare un risultato diverso, visto che il processo di adesione all’Unione è stato avviato nel lontano 2003. Quello che, però, colpisce di più è l’intenzione di una nazione di aderire ad un progetto politico che, secondo i retroscena più oscuri, non è detto sopravviva fino al 2013.

 

Le ragioni di un così forte sostegno alla causa europea si possono trovare nelle parole del Presidente della Repubblica di Croazia, Ivo Josipovic: «L’Europa non risolverà tutti i nostri problemi, ma è una grande opportunità». Un cauto sì, come l’ha definito il settimanale «The Economist», che però racchiude molte speranze di rinnovamento e miglioramento per tutti i cittadini croati.

 
Pochi giorni prima del referendum, infatti, il 15 gennaio, la Croazia festeggiava il ventennale della sua indipendenza dalla ex - Jugoslavia di Milosevic, che ebbe, tra la tante conseguenze, il ritorno nel cuore del continente europeo di drammi e barbarie che si credevano dimenticati del tutto.

 

Il peso di quei giorni si è fatto sentire anche in questo referendum, in cui la destra radicale e i partiti nazionalistici hanno promosso, sin da subito, il loro “no” alla domanda, rivolta ai cittadini croati su “Volete voi supportare l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea?”.

 

È curioso, comunue, sottolineare come lo stesso processo di negoziazione per l’ingresso in Europa fosse stato avviato dai governi guidati dal partito Hdz (Unione Democratica Croata), fondato dall’ex-presidente Franjo Tudjman, scomparso nel 1999, decisamente schierato a destra. Chi si è posto in favore del “no” dichiarava che la Croazia potesse perdere parte della sua sovranità se avesse deciso di aderire al progetto europeo, ovvero quella stessa indipendenza per cui si è combattuto negli anni Novanta.

 
La popolazione, in realtà, anche se è stato raggiunto il 63 % di “sì”, è stata la grande assente in questo momento, definito «storico» dalle più alte cariche politiche del paese. Infatti, solo il 43 % degli aventi diritto ha partecipato al voto, e in questa bassa percentuale molti vedono un motivo di debolezza politica.

 

Uno dei quotidiani più importanti della Croazia, «Vecernji List», ha apertamente parlato di «occasione persa per una larga fetta di cittadini, rimasti esclusi da una decisione importante per il paese». Per i prossimi mesi, scrive ancora questo giornale, è necessario che il governo di centro-sinistra del primo ministro Zoran Milanovic tenga in stretta considerazione anche l’opinione di chi ha detto “no” e non è andato a votare.

 
In molte contee croate i “no” hanno raggiunto anche il 40%, e non è difficile capire che cosa abbia spinto questi cittadini verso questa scelta. Oltre ad una disaffezione per la politica, tra le gente sono serpeggiati molti timori, spesso infondati e catastrofici, nelle settimane precedenti la consultazione: si diceva che con l’ingresso nell’Unione Europea al mercato si avrebbe avuto difficoltà a reperire i prodotti locali; che l’immigrazione straniera sarebbe aumentata in modo esponenziale. Addirittura che il governo, in futuro, sarebbe stato formato da soli immigrati.

 

È probabile che alcune di queste considerazioni, condite con una piccola dose di euroscetticismo, abbiano convinto parte dell’elettorato a votare “no” o a scegliere di astenersi.

 

Tuttavia, nel paese la maggioranza della popolazione guarda con fiducia al futuro in Europa, vista come una grande opportunità di rilancio sociale e di crescita economica. L’unica, al momento, su cui puntare.


All’orizzonte, comunque, anche senza considerare il valore e il peso del referendum, sta emergendo un’idea piuttosto diffusa fra quasi tutti i paesi del blocco balcanico: la «jugonostalgia». Giovani, adulti e qualche nostalgico di vecchio corso dichiarano apertamente la loro identità jugoslava, di appartenere ad un sistema di valori sano e vigoroso che, ormai, non esiste più.

 

La crisi economica, il precariato e una società più povera sono le motivazioni che inducono molte persone a credere in un passato che si è infranto con le crude guerre di vent’anni fa.

 
Sarà questo vario insieme di cose che spinge che molti analisti ad essere scettici dopo l’esito positivo del referendum, considerando che l’adesione all’Europa non porterà benefici economici immediati. Il paese, infatti, sta vivendo un periodo molto difficile, il più grave da quando è indipendente: è al quarto anno consecutivo di recessione, afflitto da uno schiacciante debito estero che tocca il 50 miliardi di euro, e dovrà provvedere a ridurre la spese pubblica di quasi 1 miliardo di euro.

 

Inoltre, la popolazione, già colpita da un basso potere d’acquisto, sarà toccata nel prossimo periodo da un importante aumento dell’Iva e di altre tasse. Chi guarda con cautela al voto del 22 gennaio scorso sostiene che le difficoltà economiche resteranno, e che per vedere qualche risultato positivo bisognerà aspettare il miglioramento dell’intera situazione economica, non solo europea ma mondiale. Lo stesso Ministro degli Esteri croato, Vesna Pusic, ha dichiarato che "l’Europa porterà stabilità e crescita economica, anche se nel lungo periodo".


Ad ogni modo, viste anche la posizioni degli europeisti convinti e degli euroscettici, la Croazia, divenendo il 28° esimo membro nel luglio 2013, ha concesso un’opportunità di credibilità all’idea di un’Europa unita. Ha dato una svolta alla sua storia, avvicinandosi a quel modello di governo a cui ha sempre guardato, non essendosi mai dichiarata parte dei Balcani e della sua ideologia, ma dell’Europa e della sua cultura.


Alla data d’ingresso nell’Unione Europea manca poco più di un anno e mezzo: non ci resta che aspettare.



 

 

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