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N. 60 - Dicembre 2012 (XCI)

dietro le quinte della crisi siriana
Le alleanze trasversali che allarmano la Turchia

di Federico Donelli

 

Con una dichiarazione – per nulla inaspettata – del 15 novembre scorso il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu ha ufficializzato qualcosa che da tempo già si sapeva, ovvero che il governo di Ankara da questo momento considera come unico rappresentante legittimo del popolo siriano la Coalizione nazionale siriana. Una dichiarazione accompagnata dalla formale richiesta che la Turchia rivolge all’intero universo musulmano e agli altri Paesi membri NATO di riconoscere come unico effettivo interlocutore la coalizione d’opposizione al regime di al-Assad.

                                                                                                          

Le alleanze trasversali allarmano la Turchia

 

La presa di posizione definitiva della Turchia fa seguito a mesi di alta tensione, tuttora vigente, proprio nelle zone di confine con i territori siriani dove ad innescare una pericolosa escalation di violenza culminata negli scontri dello scorso ottobre è stata la minoranza curda siriana fomentata ed appoggiata proprio da milizie fedeli al regime e da diversi gruppi di esuli del PKK.

 

A prima vista risulta molto complesso comprendere le ragioni di questi legami trasversali tra gruppi tanto eterogenei, diversi tra loro sia per storia che per tradizione e cultura, a cui si aggiungono finalità del tutto differenti accomunate però dal fatto di avere un più o meno dichiarato ostacolo più che nemico comune, ossia la Turchia.

 

Se nell’ottica del regime di Assad il tentativo di espandere oltre i propri confini il conflitto in modo da accentuarne il carattere di scontro tra gruppi etno-religiosi (sunniti-alawiti, curdi-turchi, sciiti-maroniti) rientra in una tattica perseguita anche su precise indicazioni iraniane fin dallo scoppio delle rivolte interne, nell’ottica della comunità curda-siriana il conflitto con la Turchia appare del tutto inevitabile in ragione del fatto che per il governo di Ankara la “questione curda” rimanga una delle principali e più delicate controversie di politica interna.

 

La diffusa sensazione secondo cui il regime siriano sarebbe destinato ad un lento ma progressivo sgretolamento interno come più volte tratteggiato dai principali organi di informazione occidentali appare una prospettiva non del tutto inverosimile ma necessariamente da temperare. Risulta sbagliato considerare l’attuale situazione siriana come uno scenario in cui i due opposti schieramenti appaiono ben definiti e statici, perché in realtà si assiste ad un elevato livello di dinamismo in cui le forze in campo continuano a rimescolarsi con alleanze ed accordi sottotraccia che possono anche variare a seconda delle regioni interessate.

 

La Turchia appoggia in maniera incondizionata l’opposizione siriana ma non tutte le sue componenti; in particolare se in principio, a seguito di precisi accordi con gli Stati Uniti, aveva svolto un importante ruolo di intermediario nel rifornire armi e aiuti ai ribelli attraverso i valichi del nord (sud della Turchia), la serie di attacchi subiti nelle zone di confine ad opera di un mix di combattenti curdo-siriani e guerriglieri del PKK ha convinto Ankara a rivedere attentamente tutte le proprie mosse nella polveriera siriana. Le continue e crescenti rivendicazioni da parte della comunità curda siriana di costituire un futuro Stato del Kurdistan autonomo nei territori della Siria settentrionale ha da una parte allarmato il governo turco e dall’altra inevitabilmente ridato vigore e fiducia alle ambizioni dei curdi turchi che da sempre lottano per la propria indipendenza.

 

Il pericolo è che la nascita di un Kurdistan autonomo, sulla falsa riga di quanto sta lentamente già avvenendo in Iraq, altro Paese di confine, legittimerebbe i curdi di Turchia ad accentuare le proprie rivendicazioni irredentistiche. Questa nuova tensione innescatasi tra curdi, sia siriani che turchi, e la Turchia si inserisce in una delicatissima fase del processo iniziato nel 2003 con l’elezione dell’attuale partito di governo AKP volto ad un progressivo inserimento della componente curda nella vita politica e sociale turca; un processo che ruota intorno all’inevitabile riconoscimento delle peculiarità e dei diritti collettivi della comunità curda.

 

Questo processo ha comportato e comporta non solo una lunga e difficile transizione suddivisa in più fase per provare a riabilitare i curdi in Turchia ( per esempio riconoscimento uso della lingua curda nelle scuole e nei tribunali) ma soprattutto una drastica revisione di quell’identità turca professata e inculcata da Mustafa Kemal Ataturk attraverso un rigido e autoritario processo di assimilazione delle diverse componenti ereditate dal crollo dell’Impero Ottomano.

 

Si può così comprendere le ragioni dell’interesse del regime siriano nel provare a coinvolgere il più possibile la Turchia non tanto provocandone un suo intervento diretto in territorio siriano, scenario da escludere perché controproducente per le mire regionali di Ankara, ma piuttosto cercando di esportare il conflitto, in questo caso settario, in territorio turco attraverso una serie di accordi con la guerriglia del PKK.

 

Il regime siriano per salvarsi vuole allargare il conflitto

 

La tattica di provare ad esportare le tensioni all’interno dei territori limitrofi alla Siria sta avendo esiti pericolosi soprattutto nella polveriera del comunitarismo libanese dove una situazione già ad alta tensione rischia da mesi di esplodere in una nuova fase, l’ennesima, di guerra interconfessionale. Da tempo si segnalano diversi attacchi con successivi regolamenti di conti nelle città del nord del Libano, su tutte Tripoli, dove la comunità sunnita in appoggio all’opposizione siriana è più volte arrivata allo scontro contro i membri della minoranza alawita (la stessa della famiglia Assad) locale.

 

Momento critico è stato l’attacco terroristico dell’ottobre scorso nel cuore di Beirut; l’attacco ha portato all’uccisione del capo dell’intelligence libanese, il Generale Wissam al-Hassan considerato uno degli artefici principali della creazione di quella rete di supporto logistico, militare e finanziario all’esercito di liberazione siriana.

 

Il Generale al-Hassan era a capo dell’unico apparato di sicurezza statale libanese dominato dai sunniti, i quali avevano fatto da fondamentale collegamento tra la comunità sunnita siriana e i tre principali sostenitori dell’opposizione al regime degli Assad, ossia Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Dietro l’attentato vi sarebbe proprio il regime siriano che, grazie all’appoggio dei servizi segreti iraniani tradizionalmente ben radicati in Libano, ha potuto lanciare un preciso segnale di intimidazione nei confronti dei gruppi e dei singoli leader delle comunità libanesi che in questi mesi si sono schierati più o meno apertamente in favore dell’opposizione siriana.

 

Non del tutto chiara al momento la posizione del braccio armato iraniano in Libano, ovvero Hezbollah che mosso da istinto di autoconservazione ha più volte in questi mesi cercato di prendere le distanze dalle feroci rappresaglie del regime siriano nei confronti degli oppositori. L’interesse strategico siriano nel fomentare le tensioni settarie in Libano è aumentato nel momento stesso in cui il regime si è sentito maggiormente in pericolo.

 

Ad accentuarne la sensazione di debolezza ed accerchiamento sono stati i diversi successi conseguiti dall’opposizione nel rafforzare le proprie rotte di rifornimento nelle zone di confine (Libano, Turchia, Giordania) ma anche una lacerante frattura interna allo stesso regime alawita che ha portato diversi membri vicini ad al-Assad a fuggire da Damasco e rifugiarsi oltre confine fornendo importanti informazioni di sicurezza nazionale ai servizi di intelligence degli Stati sostenitori dei ribelli.

 

La Siria ha provato anche a coinvolgere Israele; pochi giorni prima dell’escalation di razzi di Hamas sparati in territorio israeliano la Siria aveva provato inutilmente ad aumentare le tensioni anche con lo Stato ebraico attraverso una serie di provocazioni con colpi di mortaio nei confronti degli avamposti militari israeliani situati tra le alture del Golan.

 

Tutte queste rappresentano diverse sfaccettature di una stessa tattica e dimostrano come il regime siriano sia tutt’altro che inerme e passivo ma piuttosto, sempre con il neanche troppo celato appoggio dell’Iran ma anche – probabilmente - di altri Stati (Cina? Russia?), stia tentando di reagire, rafforzando ulteriormente la stabilità di Bashar al-Assad.

 

L’ingresso francese e le diverse posizioni della Comunità Internazionale

 

In questo drammatico scenario già di per sé confuso si è da qualche settimana a questa parte attivata la Francia, che per la prima volta a seguito dell’elezione del Presidente Francoise Hollande ha mostrato interesse nel raggiungere al più presto una soluzione della crisi siriana. Il Presidente Hollande, dopo aver incontrato il leader della Coalizione nazionale siriana Ahmed Moaz al-Khatib, ha annunciato pubblicamente di riconoscere la coalizione come unico interlocutore legittimo del popolo siriano; la dichiarazione ha avuto un forte valore perché rappresenta il primo ufficiale riconoscimento da parte di un governo occidentale rompendo quella cautela mostrata in questi mesi dagli Stati europei e dagli stessi Stati Uniti.

 

A suscitare però clamore è stata la decisione del governo francese non solo di legittimare l’opposizione siriana ma anche di avviare un preciso e concreto piano di aiuti, tra cui un mai ufficializzato ma nemmeno smentito accordo di forniture militari.

 

La notizia ha immediatamente fatto il giro delle cancellerie occidentali e non creando da una parte l’imbarazzo degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e dall’altra allarmando parte del mondo arabo e alcuni Stati tradizionalmente vicini alla Siria tra cui la Russia. Proprio da Mosca è arrivata una dura critica alla presa di posizione francese; infatti, per bocca del proprio Ministro degli Esteri Sergei Lavrov, la Russia ha affermato che la decisione di Parigi di armare gruppi che combattono contro un legittimo governo, quale quello siriano di al-Assad, rappresenta una palese violazione di alcune norme fondamentali del diritto internazionale.

 

A cercare di gettare acqua sul fuoco è immediatamente intervenuto il Dipartimento di Stato americano che dall’inizio della crisi siriana ha avuto il timore che eventuali rifornimenti militari a gruppi dell’opposizione non molto ben identificati potessero far pervenire le stesse in mano a cellule jihadiste difficilmente controllabili.

 

Il timore americano è condiviso anche dai colleghi del Foreign Office britannico che in questi mesi si sono resi protagonisti di diversi incontri sia con l’opposizione sia con uomini vicini al regime nel tentativo di trovare un soluzione diplomatica alla crisi. Al momento l’unica via che sembra trovare appoggio unanime riguarda gli aiuti umanitari.

 

Su proposta del governo australiano è stato preparato un piano di intervento, condiviso dalle Nazioni Unite e dalla Lega Araba, volto a garantire la protezione degli ospedali e dei ricoveri nelle zone di guerra.

 

Poche soluzioni all’orizzonte

 

In questo convulso scenario, mentre le diplomazie giocano su tavoli differenti senza precisi e validi obiettivi, le perdite continuano ad aumentare da entrambe le fazioni, tanto da aver raggiunto secondo cifre attendibili le 40 mila vittime (cifra datata fine novembre) dall’inizio degli scontri.

 

L’ipotesi di regime change promossa da molti, Stati Uniti e Turchia in primis, sembra essere la più accreditata tuttavia anche su intorno ad essa non si riesce a trovare un accordo, soprattutto perché si fatica ancora a capire chi dovrebbe assumersi la responsabilità di intervenire.

 

La realtà è che non si riesce a trovare alcuna intesa tra gli Stati perché ognuno di essi analizza la questione in maniera del tutto pragmatica secondo il proprio punto di vista ossia seguendo il proprio interesse, per cui al mondo risulta impossibile trovare una soluzione che nel rapporto costi-benefici accontenti tutti.



 

 

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