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N. 19 - Luglio 2009 (L)

IL CREPUSCOLO DEI VINTI

CRONACA DELLA SCONFITTA DELL'IMPERO INCA
di Cristiano Zepponi

 

“La tribù predatoria degli Incas si espanse” scrisse Richard Schaedel “attraverso una rapida incorporazione di successive popolazioni vinte, in un modello cumulativo di aggressioni espansive, subito seguite da ricompense riparatrici”.

L’impero quechua si estendeva così, attorno al 1525, per quattromila chilometri lungo la costa Pacifica e a ridosso delle Ande, dalla frontiera dell’attuale Colombia fino al nord del Cile e dell’Argentina. Occupava quasi un milione di chilometri quadrati (il Tahauantinsuyu, “la terra dei quattro quadranti o punti cardinali del mondo“, divisa nelle quattro regioni di Antisuyu, Collasuyu, Cuntisuyu e Chinchasuyu) celebrati e rinomati per la proverbiale ricchezza elargita da Pacha Mama, la Madre Terra, ed organizzati attraverso una rigida amministrazione politica ed economica dei settori da dieci, cento, mille e dieci mila abitanti in cui l’Impero era diviso, ognuno dei quali a carico di persone nominate dall'Inca, il sovrano; al welfare del popolo minuto, frattanto, provvedeva l’ “ayllu”, il gestore dell’annona, che amministrava le derrate e i prodotti della terra considerati di proprietà collettiva in cambio di una corvée gratuita nelle terre destinate al patriziato regale e alle gerarchie sacerdotali.

L'Impero consisteva dunque in una teocrazia dominata dall'Inca, adorato come dio vivente: ma vigeva comunque un sistema di potere duale, per cui tutte le autorità apparivano sempre accoppiate; per esempio, vigeva il sistema dei due Inca che governavano simultaneamente, uno dei quali (l’ “hanan”) ad un livello superiore ed uno (l’ “hurin”) sottoposto.

Lo stesso accadeva alle autorità locali: al livello degli “ayllu”, le massime autorità erano i curacao, anch’essi divisi in hanan ed hurin.

Le famiglie degli Inca supremi scomparsi, che formavano gruppi di parentela conosciuti come panacas (o " famiglia nobile"), erano incaricate di mantenerne il ricordo, di realizzare cerimonie in loro nome e di curarne beni ed alleanze, ed in più detenevano grande influenza nella nomina dei successori. Scendendo nei gradini gerarchici, si trovavano i capi dei popoli conquistati che, in caso di sottomissione, ricevevano un’educazione quechua oltre ad una serie di privilegi. La gente comune era raggruppata nella categoria degli “hatun runa”, contadini membri di un “ayllu”, mentre alcuni gruppi (conosciuti come “mitimaes” o “mitmaqunas”) potevano uscire temporaneamente da questa condizione ed essere trasferiti lontani dal luogo d'origine. L’ultimo scalino della piramide sociale era occupato dagli “yanoconas”, separati dagli “ayllu” per svolgere alla diretta dipendenza dell’Inca alcuni lavori specializzati.

Il dio supremo degli Inca era Huiracocha, creatore e signore di tutti gli essere viventi, attorniato dal dio della creazione e della vita, Pachacamac, del Sole, Inti (non si dimentichi che gli Inca si erano assegnati il titolo di “Figli del Sole”), e dalle dee della Luna, Mamaquilla, della Terra Pachamama, del fulmine e della pioggia, Ilapa. Le cerimonie e i rituali in loro onore erano numerosi e frequentemente complessi, oltre ad essere basicamente relazionati con questioni agricole e di salute, ed in particolare con la coltivazione, la raccolta e la guarigione delle più diverse malattie.

In onore del dio Inti i quechua celebravano la “Intip Raymi”, la danza del Sole, due volte l’anno: a giugno in occasione del solstizio d’inverno, a dicembre di quello estivo, producendo il fuoco sacro che sarebbe servito per un intero anno per mezzo delle proprietà di specchi ustori d’argento o dello sfregamento di due pezzi di legno. Un collegio di vergini sacre, dette “spose del Sole”, custodiva detto fuoco, sotto la guida del “Villa umu” (“colui che parla col dio”), attenendosi ad una rigida castità (la trasgressione veniva punita mediante la sepoltura da viva della fanciulla, e gli eventuali complici del sacrilegio erano messi a morte sulla pietra del sacrificio “intihuatana”, l’altare del dio Inti, dove s’innalzava anche lo gnomone per i calcoli astronomici legati al ciclo solare).

Era, quella comminata ai responsabili del sacrilegio con le spose del Sole, l’unico caso di esecuzione capitale, perché, a differenza di Maya e Aztechi, gli Inca non organizzavano normalmente sacrifici umani a scopo religioso: alle loro divinità offrivano normalmente cibi e bevande, e raramente immolavano lama e volatili.

I quechua coltivavano soprattutto mais e patate, e poi il peperoncino, la chirimoya, la papaia, il pomodoro e i fagioli, ignoravano l’uso del ferro, della volta e della ruota e usavano la forma di scrittura “Quipus”, un sistema di fili annodati che ancora oggi aspetta di essere decifrato.

Templi ciclopici si innalzavano maestosi, ed enormi edifici di mattoni, come il Tempio del Sole a Cuzco, venivano incastrati con cura senza calcina e con una minima attrezzatura. Terrazzamenti e pendii opportunamente trattati per la coltivazione, canali d'irrigazione, ponti sospesi a base di corde intrecciate (alcune di 100 metri di lunghezza), miniere e luoghi per la lavorazione dei metalli coloravano il paesaggio, e umanizzavano la natura negli spazi tra le fortezze strategicamente localizzate, come Machu Picchu, Ollantaytambo e Sacsayhuaman presso Cuzco.

Una complessa rete di camminamenti lastricati collegava le varie parti dell’Impero mentre messaggeri addestrati - i chasquis -, operando a staffetta, assicuravano le comunicazioni; allo stesso tempo, forme artistiche e artigianali di rara maestria e bellezza si elaboravano di continuo: "a Tiahuanaco, ad esempio, ci sono pietre lunghe 12 metri, larghe 6 e alte 2 metri. A Cuzco ancora più grandi. La cosa più incredibile è che pur essendo di forma irregolare sono incastrate in modo così bene che anche senza cemento neppure la punta di un coltello riesce a penetrare le unioni.." (Garcilaso de la Vega Inca "Comentarios Reales" Biblioteca di Cultura Peruana - Parigi 1938). La conservazione del patrimonio storico/culturale, come strumento di coesione sociale, era inoltre affidata alle cure dei khipukamayoq, i custodi dell’ “arte della memoria”.

La pax incaica resisteva grazie alla dipendenza politica – senza tralasciare la pratica delle punizioni esemplari - oltre che all’assistenza e ai doni elargiti ai sudditi. L’impero non pretendeva tributi eccessivi, forniva il necessario per vivere alle provincie improduttive ed organizzava il tradizionale criterio di autosufficienza e reciprocità delle popolazioni andine conosciuto come “mita”, in base al quale l'inca chiedeva come tributo esclusivamente manodopera, inviata poi a lavorare sulla terra, modellare la ceramica, costruire marciapiedi o grandi opere architettoniche; in cambio, ricompensava questi servizi organizzando rituali, mantenendo i camminamenti, distribuendo i beni in caso di necessità o nelle feste.

Lo Stato era florido, organizzato e vitale, quando (intorno al 1525) morì l’inca Huayna Càpac; negli ultimi anni del suo regno, come da tradizione, si verificarono “terremoti di violenza inusitata, il fulmine colpisce il palazzo dell’Inca, comete solcano l’aria (…), un condor solitario viene inseguito da falchi mentre attraversa il cielo di Cuzco e si abbatte sulla piazza della capitale (…).

Uno spettacolo ancor più sinistro colpisce gli abitanti della città: in una notte chiarissima, la luna appare circondata da un duplice alone: color del sangue, color cupo e color grigio fumo. Un indovino interpreta: l’alone color del sangue indica una guerra crudele, che avrebbe dilaniato i discendenti di Huayna Càpac; il colore oscuro rappresenta la rovina della religione dell’Impero incaico, ormai incombente; il color fumo simbolizza che presto tutto si convertirà in fumo”.

Lo stesso Inca, dicono alcuni, suggerì di sottomettersi agli stranieri, il cui arrivo era stato previsto da una profezia risalente al periodo dell’ottavo sovrano.

La successione al trono di Càpac non fu rapida né indolore: una guerra mortale si scatenò infatti tra Huàscar (il successore legittimo) e Atahualpa, stabilitosi a Quito.

Fu per questo che Huàscar uscì da Cuzco per andare incontro all’avversario, e costringerlo a battersi. Atahualpa, però, trionfò a Riobamba, e continuò a tallonare l’avversario fino alla sua definitiva sconfitta sul campo di Cotabamba, nei pressi della capitale, dove Huàscar stesso fu catturato.

Nel frattempo, a Panamà, Francisco Pizarro, Diego de Almagro e l’ecclesiastico Hernando de Luque avevano organizzato alcune spedizioni alla ricerca dell’Impero, la cui fama doveva essere giunta fino ai domìni spagnoli; nella prima, verso la fine del 1524, Pizarro e Almagro esplorarono il fiume Virù, mentre nella seconda, facilitata dall’ausilio della guida Bartolomè Ruiz, venne scoperta l’Isola del Gallo.

Qui, Ruiz, oltre a catturare alcuni prigionieri (e futuri interpreti) potè osservare attraenti scambi di oro e tessuti.

Almagro ritornò dunque a Panamà, per riferire quanto visto; e in quel frangente la personalità di Pizarro si impose sugli spagnoli giunti nell’Isola del Gallo. Li trascinò allora ad esplorare il golfo di Guayaquil, e poi lungo la costa verso sud, fino a Tùmbez, dove le mura dei templi erano ricoperte da enormi placche d’oro.

Lungo il percorso, ottenne informazioni precise sulla posizione, ed i contrasti che agitavano lo Stato incarico.

Ritornò a Panamà, e da qui (nel 1528) raggiunse la Spagna per ottenere direttamente dall’imperatore Carlo V la benedizione all’impresa; nel luglio del 1529, finalmente, il sovrano firmò le “Capitolazioni”, incaricandolo di fatto di “continuare la scoperta, la conquista e il popolamento della detta provincia di Perù”.

L’anno seguente fece ritorno a Panamà, accompagnato dai fratelli Hernando, Gonzalo e Juan.

Aveva ottenuto il comando, scalzando Almagro.

Il 13 maggio 1532 tre imbarcazioni scaricarono quindi presso Tùmbez duecento uomini circa, di cui settantadue a cavallo – animale sconosciuto ai locali – e soprattutto 20 cannoni. Stretti nelle loro armature di acciaio, dotati di archibugi e spade temprate, i “portatori di tuono” entrarono quindi nella città deserta.

Atahualpa, che si trovava a Cajamarca, fu subito informato del loro arrivo; immediatamente rinviò la partenza per Cuzco ma credette, come prevedibile, ad un ritorno degli dèi, ad un ritorno di Huiracocha.

Inviò osservatori e messaggeri, e questi riferirono delle violenze, dell’avanzata degli uomini di Castiglia verso le montagne, e verso Cajamarca stessa, oltre che della fondazione di una città, San Miguel (“di giorno e di notte in sogno dicevano tutti: le Indie, le Indie, oro, argento del Pirù..” scrisse Guamàn Poma). Curioso e preoccupato, nonostante fosse avvenuto il consueto scambio di doni, attese gli invasori nella piana adiacente la città, con i suoi quarantamila guerrieri, le sue tende ed i suoi falò.

Per questo, quando gli spagnoli entrarono in città, il 15 novembre 1932, la trovarono ancora una volta deserta.

A quel punto Atahualpa abbandonò ogni riserva, e decise di incontrarsi con loro, dimentico delle antiche profezie, che volevano

la rovina provenire dalla schiuma del mare a Oriente, su vascelli con grandi ali candide.

Difeso da una guardia di nobili – gli orejone -, assiso sulla portantina, si fece trasportare verso la piazza di Cajamarca: ma qui lo aspettavano gli spagnoli, appostati nella zona per catturare il tredicesimo Intip Churin, il Figlio del Sole, con un’imboscata.

Le fonti di entrambe le parti (Francisco de Jerez, Poma de Ayala) raccontano che Pizarro parlò con l’Inca servendosi di un’interprete, Felipillo, si presentò come ambasciatore di un gran signore, e chiese amicizia.

L’Inca rispose duramente, e affermò di credere alla grandezza del signore che aveva inviato Pizarro, “ma che non era tenuto a fare amicizia, giacchè anche lui era un grande signore nel suo regno”.

Si avvicinò allora Fra Vicente de Valverde, con una croce nella mano destra ed un breviario nella sinistra. Gli ordinò di adorare Dio, la croce, il Vangelo, “perché tutto il resto era cosa da niente”.

Atahualpa si irrigidì, e rispose che “non doveva adorare nessuno se non il Sole che non muore mai”, e gli altri dèi della sua legge; e chiese al frate chi gli aveva insegnato la dottrina che andava predicando.

Questi rispose chiamando in causa il Vangelo; e l’Inca, incuriosito, ne chiese la copia, “dallo a me, il libro”, disse, “perché me lo dica”.

Ne sfogliò allora alcune pagine; dopo di che, aggiunse: “Non me lo dice, né mi parla, a me, detto libro”, e concluse la frase lasciandolo cadere di mano, maestosamente.

“A me, cavalieri, contro questi indios gentili (che) sono contro la nostra fede!”, gridò allora l’uomo di Chiesa, lanciando il segnale dell’attacco.

La cavalleria caricò la scorta, che disponeva solo di zagaglie e lance di rame e legno, e si riparava con elmetti di stoffa e piume, prima che gli archibugi spazzassero via quel che ne restava, e “morì tanta gente tra gli indios che è possibile contare”; nella confusione della mischia l’incauto Atahualpa fu fatto prigioniero, secondo le fonti, “sul suo stesso trono”.

Subito dopo lo scontro l’Inca, conscio della rapace avidità degli avversari, offrì di pagare un riscatto in oro che arrivasse a riempire la stanza che gli faceva da prigione, dopo aver dato ordine di uccidere il fratello Huàscar.

L’oro arrivò dunque da ogni angolo dello Stato incarico, e riempì la camera fino al livello convenuto; ciò nonostante, con freddezza, Pizarro preferì disfarsi del suo avversario, e lo accusò dell’uccisione di Huàscar, di idolatria, di incesto con la sorella, e di altri crimini.

Venne dunque regolarmente battezzato, evitando almeno di spirare sul rogo, e poi giustiziato, il 29 agosto dell’anno 1533, con il supplizio della garrote.

“Nella città di Cajamarca finì la sua vita”.

L’avvenimento sembrò segnare la fine dell’Impero: l’una dopo l’altra caddero le sontuose città, i santuari rivestiti d’oro, i grandi palazzi del potere; il 15 novembre fu presa Cuzco, e poi lo stesso accadde a Quito, Tambu Machay, Sacsahuaman, dalle possenti mura ciclopiche. Si salvò però Machu Picchu, osservatorio e tempio solare, sito tra vette inaccessibili. “Gli spagnoli si sparsero dovunque nel territorio del regno, a due a due, e alcuni anche da soli (…) ciascuno in cerca del proprio vantaggio e si arrangiava facendo agli indios e molto male e molto danno, col chiedere oro e argento, col portare via i vestiti e il cibo”.

Ma come era avvenuto in Messico dieci anni prima con Montezuma, la cui efferata soppressione da parte di Cortes aveva scatenato la famigerata vendetta, culminata nella rivolta indigena della “noche triste”, anche l’uccisione disumana e fraudolenta dell’ultimo sovrano Atahualpa diede avvio a una nemesi inarrestabile ai danni degli uomini di Castiglia.

Nel frattempo, “per amore della ricchezza, l’Imperatore mandò governatori e presidenti di tribunale e vescovi e sacerdoti e frti e spagnoli e signore. Bastava dire Pirù e ancora Pirù”.

Agli inizi del 1534, comunque, si scatenarono le prime lotte interne al gruppo dei vincitori, quando Pedro de Alvarado, protagonista della conquista del Messico e del Guatemala, arrivò da nord attratto dalla possibilità di partecipare alla spartizione del bottino; ma al nord tornò, convinto dall’eloquenza di Almagro e da un probabile (ricco) risarcimento.

L’anno seguente, per pacificare i quechua, gli spagnoli incoronarono come Inca Manco II, fratellastro di Atahualpa; ed in più fondarono la Città dei Re, Lima, nuova capitale del Perù.

Ma Manco II si ribellò ben presto alle pretese, ed alle violenze dei conquistatori, ed insieme a lui prese le armi il popolo intero, da ogni parte, ed in particolare a Lima e Cuzco, attaccate in forze.

“Si ribellò contro di loro per i maltrattamenti e gli scherni con cui svillaneggiavano l’Inca e gli altri signori di questo regno. Davanti ai loro occhi prendevano le loro donne e figlie e donzelle, con cattiveria e scarso timor di Dio e della giustizia; e perché avevano subito molti altri torti”.

Per miracolo gli uomini di Castiglia mantennero il controllo della regione, nonostante la morte di Juan Pizarro; ma non riuscirono sulle prime a riprendere possesso di un triangolo fortificato (formato dai fiumi Apurìmac, Urubamba e Vilcamajo) dove il sovrano rivoltoso aveva creato una sorte di piazzaforte, con capitale Vilcabamba.

Da qui, sortite e assalti di sorpresa molestarono a lungo gli spagnoli, mentre questi si massacravano tra loro a causa della mai sopita rivalità tra Almagro e Pizarro, che si trasformò presto in una faida familiare.

Nel giugno del 1537, infatti, Almagro prese Cuzco (ed insieme a questa catturò Alonso ed Hernando Pizarro), prima di essere a sua volta catturato e trucidato dal vecchio compagno; ma ancora, Diego, il figlio di Almagro, assassinò Francisco Pizarro il 26 giugno 1541.

Intorno al 1545 morì Manco II e gli succedette il figlio Sayri Tùpac, che poi, dieci anni più tardi, abbandonò la fortezza e si arrese, prima di morire avvelenato. Fu incoronato allora suo fratello, Titu Cusi Yupanqui, che riprese le sortite contro gli spagnoli e continuò a resistere fino all’anno 1569 (secondo le stime più realistiche), quando morì di polmonite.

Ancora, gli succedette il fratello Tùpac Amaru, l’ultimo Inca; nel 1572 dovette subire un assalto spagnolo da più direzioni, e, costretto alla fuga sul fiume Vilcamajo, fu raggiunto e sommariamente giudicato e giustiziato.

Per quarant’anni, i quechua avevano combattuto contro quelli che avevano creduto dèi; da quel momento, invece, il loro opulento e potente regno smise di esistere.



“Sotto estraneo dominio, cumulati i tormenti,
e distrutti,
perplessi, sperduti, negata la memoria, soli;
morta l’ombra protettrice,
piangiamo,
e non sappiamo a chi o dove rivolgerci.
Stiamo delirando.
Sopporterà il tuo cuore,
Inca,
questa nostra errabonda e dispersa vita,
da pericoli incontabili accerchiata, in mano d’altri,
calpestata?
I tuoi occhi, che come avventurose saette ferivano,
aprili;
le tue magnanime mani
stendile;
e da questa visione rincuorati
salutaci”
.



Riferimenti bibliografici:



Miguel Leòn-Portilla, “Il rovescio della conquista”, Adelphi 1994
Francesca Cantù, “Coscienza d’America”, Ed. Associate 2001
Poma de Ayala, Guamàn, “nueva corònica y Buen gobierno (codex pèruvien illustrè)”, ed. a cura di Paul Rivet
Apu Inca Atawallpaman, “Elegìa quechua anònima, traducciòn de Josè M. Arguedas”
“Tragesia del fin de Atawallpa, monografìa y traducciòn de Jesùs Clara”, Imprenta Universitaria 1937



 

 

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