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N. 112 - Aprile 2017 (CXLIII)

SULLA costruzione della cupola di santa maria del fiore
ponteggi e macchine di filippo brunelleschi - parte I

di Maria Laura Corradetti

 

Bisogna subito dire che la particolarità di avviare uno studio che si concentri sulle impalcature in uso al tempo di un cantiere edile da sempre esaltato per le difficoltà tecniche che poneva in molteplici settori, risiede nel fatto che ponteggi e macchine hanno ragione di esistere unicamente per il tempo necessario all’espletamento dei lavori di costruzione. In altre parole tali strumentazioni fungono sì da supporti tecnici indispensabili (senza i quali cioè sarebbe irrealizzabile qualsiasi progetto architettonico o comunque artistico di grandi dimensioni), ma hanno implicitamente una connotazione di provvisorietà che ne impedisce una sopravvivenza fisica.

 

Perciò, benché permangano le intenzioni di applicare il modus operandi ormai consolidato nella prassi investigativa di un’indagine storica/artistica/archeologica, secondo cui è indispensabile un uso incrociato di informazioni tanto di natura indiretta (scritti di vario genere) quanto diretta (cioè desumibili dall’osservazione degli oggetti in esame), per forza di cose, in questo caso, le fonti provengono perlopiù da terzi soggetti.

 

Unica eccezione in tal senso sono gli anelli in ferro e le buche pontaie, che tuttora visibili nel paramento murario hanno consentito di ipotizzare la tipologia dei ponteggi, anche grazie alle scoperte fatte durante l’ultimo intervento di restauro degli affreschi della cupola e dalle soluzioni tecniche adottate per questo ponteggio. Infatti l’impalcatura, dovendo per l’occasione ovviare ai medesimi inconvenienti occorsi al tempo dell’erezione della struttura architettonica, si è in qualche modo ispirata agli espedienti risolutivi attribuiti a Filippo Brunelleschi, poiché in entrambi i casi (costruzione e restauro) l’impalcatura non poteva poggiare a terra.

 

In sostanza si potrà fare affidamento alla sola documentazione indiretta da intendersi, tra l’altro, nella sua accezione più ristretta, dal momento che Brunelleschi, poco propenso a divulgare i suoi progetti per timore di vedere non riconosciuti se non addirittura usurpati i propri meriti, ha improntato tutto il lavoro alla segretezza di ogni cosa che fosse frutto della sua inventiva:

 

«[…] Averebbe potuto mostrare Filippo un modello piccolo che aveva fatto; ma non volle mostrarlo, avendo conosciuto la poca intelligenza de’ consoli, l’invidia degli artefici e la poca stabilità de’ cittadini che favorivano chi uno e chi l’altro, secondo che più piaceva a ciascuno; et io non me ne maraviglio, facendo in quella città professione ognuno di sapere in questo quanto i maestri esercitati fanno, come che pochi siano quelli, che veramente intendono; e ciò sia detto con pace di coloro che sanno. […] Per la qual cosa, inanimiti i consoli e gli operari e que’ cittadini, si ragunarono tutti insieme, e gli architetti disputarono di questa materia; ma furon, con ragioni assai, tutti abbattuti e vinti da Filippo: dove si dice che nacque la disputa dell’uovo in questa forma: eglino arebbono voluto che Filippo avesse detto l’animo suo minutamente, e mostro il suo modello, come avevano mostro essi il loro, il che non volle fare, ma propose questo a’ maestri e forestieri e terrazzani, che chi fermasse in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe l’ingegno loro. Tolto dunque un uovo, tutti que’ maestri si provarono per farlo star ritto, ma nessuno trovò il modo. Onde, essendo detto a Filippo ch’e’ lo fermasse, egli con grazia lo prese e datoli un colpo del culo in sul piano del marmo, lo fece star ritto. Romoreggiando gl’artefici che similmente arebbono saputo fare essi, rispose loro Filippo ridendo che gli arebbono ancora saputo voltare la cupola, vedendo il modello o il disegno. E così fu risoluto ch’egli avesse carico di condurre questa opera, e dettoli che ne informasse meglio i consoli e gli operai» (G. Vasari, Le Vite [1568], Novara, 1974, pp. 105-106).

 

Inutile dire, laddove fossero sopravvissuti i suoi appunti e disegni, il valore e l’attendibilità delle informazioni ivi contenute, in quanto strumenti guida dei lavori che non dovevano lasciare margini alla fantasia esecutiva ed interpretativa, anche relativamente all’organizzazione e destinazione d’uso degli spazi di cantiere e alla funzionalità degli impianti.

 

La copiosa bibliografia che si è interessata di dirimere la questione e che si è incrementata soprattutto dopo gli studi del Prof. Sanpaolesi iniziati nel 1940 circa, ha attinto da molteplici fonti seppur indirette: dalle biografie del Brunelleschi redatte da Antonio di Tuccio Manetti (Firenze 1423 - ivi, 1497) e da Giorgio Vasari (Arezzo 1511 – Firenze 1574) che di fatto ampliò quella del Manetti,dalla ricca documentazione d’archivio pubblicata nell’Ottocento, dai risultati di studio ottenuti anche in concomitanza dei restauri sopracitati, da fonti iconografiche quali le riproduzioni dei suoi macchinari per mano di Mariano di Jacopo detto il Taccola, di Francesco di Giorgio Martini, di Giuliano da Sangallo, di Leonardo da Vinci e di Bonaccorso Ghiberti nipote di Lorenzo, dalle occasionali rappresentazioni della cupola in fase di realizzazione (es.: medaglia di bronzo al Museo Nazionale del Bargello, n. inventario 6314; Biagio di Antonio, Tobia e gli arcangeli, olio su tela, Collezione Bartolini Salimbeni, Firenze), e, più in generale, anche dalle immagini di cantieri in dipinti o in altre opere artistiche.

 

Tuttavia, è bene precisare, relativamente all’ultimo punto, che tali raffigurazioni possono essere condizionate dal contesto culturale, dall’estro, dalle motivazioni compositive dell’autore e dal fatto che nell’illustrazione di cantieri e di ambienti lavorativi subentrano spesso fattori di disturbo, come la necessità di stilizzare ed epurare certi aspetti della rappresentazione. Purtroppo le impalcature non erano oggetto di analisi in trattati e manuali tecnici dell’epoca.

 

Analoga cautela anche nei confronti delle biografie di Manetti e di Vasari, sicuramente celebrative dell’acume e sagacia del Brunelleschi. Anzi il ritratto che restituiscono (in particolare il Vasari) è palesemente modellato sul topos antico e medievale dell’uomo piccolo, brutto ma intelligente, dove la bruttezza fisica è compensata dalla mirabile virtù dell’ingegno; tanto che l’evento attraverso cui quasi dare senso e risalto alla sua personalità è proprio la vicenda della travagliata realizzazione della cupola della chiesa di Santa Maria del Fiore, avviata il 1° agosto del 1420.

 

La costruzione del Duomo (iniziato da Arnolfo di Cambio nel 1296) si era arrestata, al momento del bando di concorso del 1418, al tamburo ottagonale di imposta della cupola. L’altezza totale, dal piano di calpestio alla sommità del tamburo (aggiunto nel 1410-1413), era di 54,60 metri, mentre l’ampiezza della base era di 72 braccia fiorentine, pari a circa 42 metri.

 

Il problema che Brunelleschi dovette risolvere era essenzialmente di struttura ed esecuzione, e non di forma poiché questa era obbligata da esigenze costruttive, giacché le notevoli dimensioni impedivano d’impiegare una forma semisferica. Non a caso si ritrova la forma a sesto acuto della cupola ancor prima dell’inizio dei lavori nell’affresco di Andrea di Bonaiuto, Chiesa militante e trionfante (1366-1368), nella Cappella degli Spagnoli nel convento di Santa Maria Novella.



 

 

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