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N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

La minoranza che cercò di fermare il Concilio Vaticano II
l’opposizione conservatrice

di Roberto Rota

 

L’11 ottobre del 1962 si apre, a Roma, il Concilio Vaticano II. Solo alcuni anni prima pochi avrebbero potuto immaginare la possibilità di un concilio e tantomeno la partecipazione così ampia non solo del mondo cattolico, ma dell’intera famiglia cristiana e dell’opinione pubblica mondiale.

 

Le ragioni della sorpresa devono leggersi nella modalità della convocazione del concilio, caso sui generis rispetto alla tradizione conciliare.

 

Prima di tutto non vi era nella chiesa nessuna crisi in atto che giustificasse la riunione di tutti i vescovi della terra (si pensi invece al Concilio di Trento riunitosi per rispondere alla grande minaccia e sfida della riforma, oppure al Vaticano I che si tenne sotto i colpi di cannone delle vicende dell’unità d’Italia) e d’altronde esso non fu frutto della volontà generale della chiesa ma dell’intuizione e della sensibilità di un uomo fino a quel momento sottovalutato: il papa Giovanni XXIII.

 

È proprio dalla preoccupazione del pontefice di fronte ad un mondo che nella sua modernità sfuggiva alla riflessione e all’attenzione della chiesa che nasce l’idea del concilio. Decisone personale di un pontefice che era da molti considerato solo di “transizione”, un “papa buono” attento alla pastorale ma distante dalla speculazione teologica.

 

Il 25 gennaio 1959, quindi solo pochi mesi dopo la salita al soglio pontificio (28 ottobre 1958), nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, Giovanni XXIII annuncia le sue intenzioni, ma in verità gli scopi del concilio non sono per nulla definiti.

 

In ogni caso la preoccupazione della Curia Romana è notevole, in particolare il Segretario di Stato Tardini cercherà in ogni modo di ritardare la preparazione di un evento che avrebbe potuto sottrarre alla curia tutto il suo potere, rafforzatosi particolarmente dopo il Vaticano I.

 

Solo dopo la morte di Tardini (1961) i lavori potranno proseguire ma il suo posto, quale capo dei “conservatori”, sarà preso dal Card. Ottaviani, Prefetto del Sant’Uffizio (oggi Congregazione per la Dottrina della Fede), il quale a differenza del Segretario di Stato non cercherà di rallentare i lavori ma di assumere il controllo nelle commissioni conciliari che avrebbero dovuto creare i documenti da sottoporre all’assemblea (altri esponenti di questa minoranza erano il vescovo di Segni, mons. Carli; il superiore degli spiritani M. Lefebvre; il Coetus Internationalis Patrum capeggiato dal vescovo brasiliano Sigaud, e da mons. Staffa dell’Università Lateranense; l’arcivescovo di Genova Siri e il card. Ruffini).

 

La cosiddetta minoranza conciliare era l’insieme di tutti quei padri che volevano una conservazione della tradizione ecclesiastica. In particolare erano preoccupati di conservare il deposito della fede nella sua interezza, opponendosi a ogni apertura a quelli che reputavano i maggiori mali della modernità: marxismo, evoluzionismo, relativismo e ateismo.

 

Poiché molti padri di questa minoranza non avevano una profonda conoscenza storica, non si resero conto che le posizione che essi difendevano erano quelle giuridiche, nozionistiche e dogmatiche create a Trento e nel Vaticano I e non quelle delle Sacre Scritture.

 

Paradossalmente la maggioranza conciliare, che difendeva l’ecumenismo, l’apertura al mondo contemporaneo, il rinnovamento della liturgia e dell’esegesi, non era il gruppo più “moderno” ma era quello che, ispirandosi alle Scritture e ai Padri della Chiesa, si richiamava al vero messaggio evangelico.

 

Il 5 giugno 1960 con il motu proprio Superno Dei nutu il pontefice istituisce 10 Commissioni pre-conciliari e 2 Segretariati i quali avrebbero dovuto ideare i documenti che poi l’assemblea conciliare avrebbe votato.

 

L’idea della Curia romana era quella di monopolizzare queste commissioni per far si che l’assemblea, poi, avrebbe dovuto semplicemente (senza discussioni o emendamenti) approvare i propri documenti. Infatti, la composizione delle commissioni era abbastanza ambigua, in quanto i vari presidenti erano gli Cardinal Prefetti delle corrispondenti Congregazioni Vaticane i quali potevano scegliere anche i propri vicepresidenti e i propri segretari. Ottaviani e la Curia romana avevano il completo controllo. Il primo “attacco” avviene ancor prima dell’apertura del concilio in quanto il 22 febbraio 1962 il pontefice promulga la costituzione apostolica Veterum Sapientia sulla difesa del latino all’interno dei seminari.

 

Il testo è abbastanza ambiguo in quanto non corrisponde alle preoccupazioni e agli interessi del pontefice, in quale, invece, aperto al dialogo anche a causa della sua esperienza come delegato apostolico in Bulgaria (poi anche in Grecia e Turchia), è ben attento alle questioni ecumeniche. In verità un’analisi attenta del testo (grazie alla linguistica computazionale) ci dimostra che esso non è frutto della penna del pontefice ma bensì di pressioni esterne.

 

Si tratta proprio di quella fazione conservatrice che vedeva nel latino un simbolo di quella chiesa autosufficiente sanzionata dal Vaticano I; il latino, quindi, non era il simbolo della tradizione ma il simbolo dell’uniformità tridentina e di quell’immagine monolitica della chiesa quale societas perfecta.

 

La costituzione sul latino nei seminari voleva essere un monito affinché le cose non cambiassero, una specie di pressione sui padri conciliari, ma in verità pochi ne tennero conto e rimase un semplice documento sull’insegnamento del latino (per inciso, un ulteriore prova dell’estraneità del documento rispetto alla sensibilità roncalliana è data dal fatto che lo stesso giorno della pubblicazione della costituzione il pontefice pronuncerà il famoso discorso ai parroci e predicatori quaresimali sul fatto che tutte le lingue sono rappresentate nella chiesa).

 

L’11 ottobre finalmente il concilio si apre, i padri conciliari sono 2381. Nel discorso d’apertura Gaudet mater ecclesia il pontefice sottolinea, tra l’altro, quelli che saranno i due grandi obiettivi del concilio: l’ecumenismo (aperto non solo alla religione cristiana ma a tutti gli uomini), e l’aggiornamento (nel senso non di riforma ma di continua ricerca, cioè di apertura al mondo moderno, di adattamento del messaggio evangelico alla realtà contemporanea in quanto sebbene la sostanza della verità salvifica non cambiasse la maniera in cui questa verità veniva presentata doveva essere necessariamente adattata ai tempi per essere più efficace).

 

 Mi propongo di esporre solo alcuni dei fatti più eclatanti in cui si espresse la fazione conservatrice senza scendere nel particolare delle procedure e dei lavori conciliari che, per la loro complessità, richiederebbero una delucidazione specifica.

 

Il concilio, che si chiuderà l’8 dicembre 1965, divide i suoi lavori in 4 sessioni di lavoro corrispondenti agli autunni dei rispettivi anni: Prima Sessione: 12 ottobre – 8 dicembre 1962; Seconda Sessione: 29 settembre – 4 dicembre 1963; Terza Sessione: 14 settembre – 21 novembre 1964; Quarta Sessione: 14 settembre – 7 dicembre 1965.

 

Durante la prima sessione si discusse, tra gli altri, il documento sulla Rivelazione (De Fontibus Revelationis), creato dalla Commissione Teologia di Ottaviani. Questo testo non riconosceva le ultime ricerche in campo teologico né accettava una discussione sul tema, esso rappresentava semplicemente la canonizzazione del punto di vista dell’Accademia Teologia Romana (e dell’Università Lateranense) che ci presentava la rivelazione quale insieme nozionistico e dogmatico così com’era stato presentato dal Vaticano I.

 

In particolare il Vaticano I superando la prospettiva di Trento secondo cui tutta la verità salvifica e la disciplina morale sono contenute nel Vangelo affermava che la rivelazione è contenuta nella tradizione della chiesa e nelle sacre scritture dando, quindi, un carattere dualistico alla parola di Dio.

 

Questa prospettiva (nozionistica e dualistica) non era condivisa dai padri conciliari i quali avevano una visione della rivelazione più incentrata sull’esperienza di cristo e sulla libertà umana di far propria questa esperienza, sul carattere unitario della rivelazione (tradizione e scritture hanno una stessa origine: la Parola di Dio), e sulla possibilità di usare strumenti filologici (Redaktionsgeschichte e Formgeschichte) nella ricerca esegetica sulle scritture. Nel momento in cui il testo doveva essere votato (ogni approvazione richiedeva, secondo il regolamento conciliare, una maggioranza di 2/3) la domanda da porre ai padri conciliari fu formulata in maniera ambigua in quanto non chiedeva “approvate il testo proposto?” ma bensì “approvate che il testo sia rinviato in commissione per la revisione?”; se nel primo cosa c’era bisogno dei 2/3 dei voti per far passare il testo (cosa impossibile in quanto la minoranza conservatrice non disponeva di questo consenso) nel secondo caso ne bastavano 1/3 per bloccare il ritorno in commissione dello stesso e quindi, di fatto, approvare il testo della minoranza.

 

In effetti lo stratagemma riuscì (i padri non raggiunsero per un centinaio di voti i 2/3 ) e fu solo grazie all’intervento di Giovanni XXIII che la vittoria della minoranza non fu totale, infatti, il pontefice creò una Commissione mista (Commissione teologia insieme al Segretariato per l’unione dei cristiani) che avrebbe dovuto rivedere il testo. La vittoria era sfumata solo per un intervento extra-conciliare del Papa che non poteva essere posto in discussione.

 

Un nuovo “attacco” si ebbe nel corso della seconda sessione, durante la discussione sul testo concernente la Chiesa (De Ecclesia). Il testo era uno dei più importanti del concilio poiché si affrontavano in esso due temi scottanti: il diaconato permanente e la collegialità episcopale. Sebbene il testo trovasse un largo consenso durante la votazione generale, il problema era che molti furono gli emendamenti proposti per migliorarlo. Se alcuni di questi rappresentavano la volontà di molti padri conciliari, altri erano approvati solo da pochi. Era necessario conoscere la vera volontà dell’assemblea per poter approvare gli emendamenti giusti e più condivisi.

 

A questo proposito Dossetti (consigliere del card. Lercaro vescovo di Bologna), personaggio straordinariamente competente circa le vicende conciliari (aveva fatto parte della Costituente italiana), propose di sottoporre alla commissione 4 quesiti per conoscere la volontà conciliare. Il 15 ottobre il card. Suenens (arcivescovo di Bruxelles) annunciò la prossima votazione dei quesiti, solo a questo punto la minoranza si mosse preoccupata dal fatto che i quesiti avrebbero dimostrato palesemente quale fosse la volontà dell’assemblea.

 

Il Segretario di Stato card. Cicognani (anche presidente della Commissione Di Coordinamento) e il Segretario Generale del Concilio, mons. Felici, fecero pressioni sul pontefice Paolo VI (Giovanni XXIII era scomparso il 2 giugno 1963) il quale, preoccupato di far approvare un testo condiviso dalla maggior parte dei padri, e quindi anche dalla minoranza, bloccò l’iniziativa di Dossetti. In verità ben più profonde erano le preoccupazioni dello stesso pontefice il quale, a differenza del suo predecessore, era più moderato e soprattutto rigoroso circa testi che avrebbero potuto avere interpretazioni ambigue.

 

La Curia, conoscendo le esitazioni del pontefice, non esitava nel suscitare le sue inquietudini. Fu solo l’intervento dei Moderatori (nuovo organo creato dallo stesso Paolo VI) e soprattutto il famoso discorso di Suenens nella celebrazione della salita al soglio pontificio di Giovanni XXIII (28 ottobre) che convinsero il pontefice a creare una Commissione d’Arbitrato la quale, per un solo voto, accettò i quesiti. Questa volta la minoranza aveva perso, infatti, i quesiti dimostrarono la debolezza delle loro posizioni. Ma la loro reazione non si fece attendere e fu particolarmente forte durante la terza sessione.

 

Il 14 settembre 1964 si apre, in una grande euforia, la terza sessione. Molti speravano che si trattasse dell’ultima ma i lavori conciliari dovettero subito arrestarsi dinanzi all’analisi del testo sui vescovi. In particolare il voto dei quesiti di Dossetti aveva dimostrato il grande consenso che la questione della collegialità aveva tra i vescovi, ma la minoranza non poteva accettare la messa in discussione dell’infallibilità papale e della sua piena podestà sulla chiesa (e quindi anche il potere della curia).

 

All’ultimo momento dal testo presentato fu eliminata la dicitura plena potestas circa il collegio episcopale e quindi, grazie soprattutto all’intervento del Collegio Belga il testo non fu approvato.

 

Era chiaro che la terza sessione non sarebbe stata l’ultima. La terza sessione doveva concludersi con la cosiddetta “Settimana Nera “ che rappresento la più forte imposizione della minoranza conciliare. I primi problemi si ebbero circa il testo sulla chiesa. Per smorzare la potenzialità del capitolo III sulla collegialità episcopale il pontefice impose la Nota Explicativa Praevia (il 16 novembre) cioè una spiegazione delle modalità adottate per l’inserimento degli emendamenti della minoranza.

 

In pratica si evidenziavano limiti dell’autorità del collegio episcopale. In particolare si sottolineava che il concetto di collegialità non implicasse un’uguaglianza tra i vescovi e il pontefice e anche se si sottolineava il carattere sacramentale del titolo di vescovo si ribadiva che questo titolo conferisse solo poteri d’ordine (circa le funzioni sacre) ma non poteri giuridici (di azione) i quali dovevano essere conferiti giuridicamente e canonicamente dall’autorità gerarchica. Inoltre la nota sottolineava che il pontefice aveva tutta una serie di poteri che i vescovi e la loro collegialità non potevano avere e che il suo potere può essere esercitato in qualsiasi momento (così non è per il collegio episcopale).

 

Sebbene la nota non cambiasse nella sostanza il testo, essa fu una vittoria di Ruffini e Ottaviani perché metteva in risalto il carattere limitato, di compromesso, del testo, inoltre la preoccupazione di non sminuire l’autorità del Papa portò alla ripetizione (più di 40 volte) nel testo del fatto che i vescovi avevano autorità non solo cum Petro ma anche e soprattutto sub Petro.

 

Una seconda discussione si accese circa il testo sulla libertà religiosa. Il documento, creato da mons. Pavan e da mons. Murray sottolineava il fatto che le società civili non possono imporre una religione come premessa per accedere ai diritti civili, invece Ottaviani sosteneva che in quegli stati in cui la religione cattolica fosse stata maggioritaria, solo questa doveva essere protetta dallo stato, invece in quelli dove fosse stata minoritaria si richiamava al diritto dell’uguaglianza di tutte le sette.

 

A detta di Ottaviani: due pesi e due misure, uno per la verità e uno per l’errore. In verità lo scontro era ben più profondo: da una parte si partiva dal presupposto imprescindibile secondo cui la Verità fosse solo nella religione cattolica, dall’altra parte si partiva dalla persona umana e dai suoi diritti fondamentali, tra i quali, per l’appunto, la possibilità di accedere liberamente alla verità riconosciuta dalla coscienza.

 

Sotto la pressione della minoranza fu creata una commissione per riesaminare il testo, i membri di questo gruppo, però, erano i massimi esponenti della minoranza: il card. Brown, Fernandez generale dei domenicani, M. Lefevbre superiore degli spiritani (la sua nomina fu un errore, doveva essere nominato J.Lefevbre di Bourges) e C. Colombo (ausiliare di Milano), l’unico che condivideva gli orientamenti di Pavan e Murray. Fu solo grazie all’intervento dell’arcivescovo Frings di Colonia che si potette arrivare ad una nuova commissione mista la quale modificò profondamente il testo.

 

Sconfitti circa la commissione, i conservatori non si arresero e il 19 novembre fecero notare alla presidenza che poiché il testo era stato profondamente rimaneggiato non poteva essere immediatamente approvato, senza una preliminare discussione, ma la sua votazione doveva essere rimandata all’ormai inevitabile quarta sessione.

 

L’annuncio del rinvio fu fatto dal card. Tisserant a nome della presidenza, la qual cosa lo portò immediatamente allo scontro con il card. Meyer di Boston, anche lui facente parte della presidenza, ma sulla qual cosa non era stato interpellato (per inciso i padri statunitensi erano i più attenti alla questione della libertà religiosa).

 

Subito si creò un movimento di più di 1000 padri conciliari i quali richiesero “instanter, instantitus, instantissime” l’intervento del pontefice, ma il regolamento era chiaro e il testo doveva essere rinviato. Ma la settimana nera non si era ancora conclusa. Prima di essere promulgato (21 novembre) il testo sull’ecumenismo, il decreto Unitatis Redintegratio,fu modificato dal pontefice il quale introdusse alcuni emendamenti che ne attenuarono la portata, inoltre Paolo VI dissuase i padri conciliari dalla canonizzazione conciliare di Giovanni XXIII, il padre del concilio veniva messo in secondo piano. Nel discorso di chiusura della terza sessione (21 novembre) il pontefice dichiara, di propria autorità, “Maria Madre della Chiesa”, titolo che non era stato introdotto dal concilio nel testo sulla Vergine.

 

La terza sessione terminava con grande delusione di coloro che s’ispiravano ancora all’opera roncalliana e con la consapevolezza che il concilio stava perdendo il suo vero spirito. Era opportuno chiuderlo al più presto.

 

La consapevolezza dell’affievolirsi dello spirito di Giovanni XXIII fu evidente anche nel fatto che Paolo VI rifiuto di sottoporre all’attenzione del concilio temi scottanti quali: il celibato ecclesiastico, la questione del controllo delle nascite, il ruolo della donna nella chiesa e la questione circa la possibilità di risposarsi da parte di chi era stato abbandonato dal coniuge. Il concilio doveva concludersi cercando di salvare tutto quello che c’era di buono nei testi che avevano conservato lo spirito inziale.

 

In quest’ottica deve essere letta la quarta sessione caratterizzata da un lavoro estenuante da parte delle commissioni e dell’assemblea per votare i documenti restanti (11 su 16 totali). Durante quest’ultima sessione l’azione della minoranza si concretizzò soprattutto nell’influenza sulla stesura dello schema XIII (quella che poi sarebbe diventata la costituzione pastorale Gaudium et spes sul rapporto tra la chiesa e il mondo contemporaneo).

 

A causa di un errore del segretario della Commissione dei Laici (mons. Glorieux) un emendamento della minoranza fu tralasciato la qual cosa accese la reazione dei conservatori i quali fecero pressione sul pontefice affinché fosse inserita una nota che ricordasse le encicliche anticomuniste. Inoltre Paolo VI impose degli emendamenti, circa il matrimonio, ispirati all’enciclica Casti Connubi di Pio XI, di chiara matrice conservatrice.

 

L’8 dicembre 1965 si chiudeva il Concilio. Molti erano stati i risultati ottenuti. Si pensi alla novità della costituzione sulla rivelazione (Dei Verbum), alle modifiche sulla liturgia (in particolare circa l’uso della lingua volgare) nella costituzione Sacrosanctum Concilium , ai testi sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae) e sulle religioni non cristiane (Nostra Aetate) in cui si sottolineava la dignità umana nella libera scelta del proprio culto e i valori positivi presenti nelle altre religioni.

 

Si pensi alle aperture ecumeniche (culminate con l’incontro a Gerusalemme tra il papa Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, e alla successiva revoca delle reciproche scomuniche che resistevano da quasi mille anni) e alla rinnovata attenzione della chiesa verso il mondo contemporaneo (si pensi alla visita del pontefice alle Nazioni Unite). Nonostante ciò molti furono i limiti del concilio.

 

È vero che l’opposizione della minoranza portò, molto spesso, al riesame dei documenti e al loro miglioramento, ma è pur vero che l’opposizione portò alla creazione di documenti di compromesso, troppo poco coraggiosi e molto ambigui. Paradossalmente uno dei limiti principali del concilio fu il fatto che esso si svolse nei prosperi anni 60, le nubi della crisi erano ancora lontane.

 

Gli anni ‘70 presenteranno tutta una serie di problemi (crisi del sacerdozio, crisi economica, questioni dell’aborto e del divorzio) sui quali il concilio non si era espresso e per questo le sue riflessioni, soprattutto quelle sul rapporto della chiesa con il mondo, divennero ben presto superate.

 

Ritornando alla minoranza, fu soprattutto la volontà di Paolo VI, di mediare tra le due realtà (maggioranza e minoranza), a portare a testi di compromesso. Si potrà sottolineare il fatto che questo è stato il prezzo da pagare per un più ampio consenso, ma resta sempre il rammarico di uno spirito conciliare schiacciato nel compromesso e di una visione, quella roncalliana, che difficilmente ritornerà ad ispirare un nuovo concilio.



 

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