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N. 32 - Agosto 2010 (LXIII)

Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte I - uno stato d'eccezione

di Gianluca Seramondi

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Per tentare di comprendere il vissuto delle classi subalterne durante il primo conflitto mondiale è utile ricordare il quadro legislativo che definiva lo spazio pubblico in cui i cittadini generalmente operano.

 

Quello spazio pubblico era certo definito dallo Statuto Albertino. Ma la sua articolazione interna, come è ovvio, era costruita attraverso la normale attività legislativa. Ed è altrettanto scontato che fosse determinato dalle scelte politiche non solo del legislativo ma anche dell’esecutivo.

 

Conviene fare iniziare qui il viaggio all’interno della Grande Guerra riletta dal punto di visto della subalternità di classe.

 

Giurista pugliese, già ministro nel governo Pelloux, Antonio Salandra divenne primo ministro il 21 marzo 1914 su indicazione di Giovanni Giolitti. La scelta di Salandra era dettata dall’abituale e fin lì efficace tattica giolittiana di abbandonare la Presidenza del Consiglio per un periodo determinato.

 

La precipitazione della scena europea costrinse Salandra a ricoprire ruoli ben più importanti, che avrebbero deciso del destino della nazione.

 

E «Fra le molteplici variabili che, assommandosi, condurranno all’entrata in guerra, va annoverata anche questa: l’ambizione di Salandra di stabilire nuovi equilibri all’interno del partito liberale e di spostare a destra l’asse del potere che Giolitti aveva tendenzialmente orientato a sinistra. Alla morte di San Giuliano, al Ministero degli Esteri Salandra chiamò il suo capocorrente Sonnino, aristocratico toscano di tendenze autoritarie come il suo presidente, che rimase agli Esteri sotto tutti e tre i governi di guerra, trasformando il ministero in un centro di potere dotato di larga autonomia.

 

Salandra e Sonnino erano esponenti di quel notabilato arroccato in una concezione oligarchica del potere che, oltre a non riconoscere la propria responsabilità nei confronti dei governati, non riconosceva alla piazza una vocazione politica e non credeva in un movimento spontaneo delle masse.

 

Episodio rilevatore di questo comportamento fu il seguente. Nell’aprile del 1915, Salandra commissionò ai prefetti un’inchiesta che sondasse il sentire dell’Italia nei confronti di un’eventuale ingresso in guerra. L’inchiesta venne interrotta poco dopo.

 

Le 55 relazioni che comunque giunsero al ministero degli Interni mostravano che «A conti fatti la maggioranza della popolazione italiana, dopo qualche mese dello scoppio del conflitto, continuava a rimanere ostile alla guerra e indifferente ai richiami dell’interventismo». Era quindi «da escludersi l’esistenza di una forte pressione patriottica paragonabile a quella che aveva investito i maggiori paesi europei nell’estate del 1914».

 

Salandra non tenne affatto conto di questo orientamento delle masse e nemmeno cercò di sensibilizzarle alla guerra facendo leva sulle ritorsioni – isolamento internazionale e quindi probabile fame – che Francia e Gran Bretagna avrebbero adottato contro l’Italia se il governo si fosse deciso definitivamente per la neutralità.

 

Salandra concepiva la guerra – che nella fattispecie voleva essere di interessi e di potenza - come un’azione che doveva essere preparata da esercito e diplomazia segreta. Non comprendeva che il carattere della guerra moderna richiedeva di mobilitare le masse attraverso un’azione efficace di propaganda.

 

Di conseguenza, confidava che fosse più proficuo affidare i rapporti tra governo e paese a organi istituzionali- prefetti e deputati – piuttosto che a metodi che avrebbero potuto mettere in discussione la dirigenza liberale.

 

Per questa convinzione ideologica che non teneva conto del mutato scenario sociale, scelse la via della repressione del dibattito interno e impose alla società il proprio principio del «tacere e obbedire» con il regio decreto del 23 maggio 1915 che introduceva la censura della stampa: oscuramento dei giornali di opposizione e manipolazione retorica delle notizie che giungevano dal fronte.

 

Questa posizione lo portò a guardare con sospetto a tutte le manifestazione pro o contro la guerra che si tenevano nel paese. Il governo criminalizzò il dissenso, chiuse i circoli socialisti, ne incarcerò i dirigenti, chiuse le camere di lavoro.

 

Uno stesso atteggiamento Salandra lo tenne nei confronti del mondo cattolico e del clero in particolare. Salandra cercava nei cattolici il sostegno al suo progetto di rinsaldare il vacillante partito liberale, ma era fortemente avverso ad ogni ipotesi di partito cattolico. Sorvegliò con attenzione le iniziative del clero, che, anche per la vicinanza con il mondo rurale, nella maggior parte dei casi avversava la guerra.

 

Infatti «Fino ai primi mesi del 1918 … le informazioni che pervenivano a Roma circa l’atteggiamento politico del clero erano tutt’altro che confortanti; e se i vescovi si mantenevano in genere su posizioni patriottiche o comunque “neutrali” risultava invece che una non piccola parte del clero delle campagne, specie quello lombardo, veneto, emiliano e toscano, persisteva in un atteggiamento di ripulsa verso la guerra, sia pure con svariate motivazioni».

 

E l’attenzione repressiva di Salandra nei confronti di clero, invece di cercarne il valido mediatore tra la politica e la società, nocque essa pure alla «compattezza dello sforzo bellico [e impedì il formarsi di] quella unione sacrée realizzati negli altri stati belligeranti… un problema che Salandra, con grave errore di giudizio, riteneva del tutto marginale».

 

Il convincimento che non fosse necessario fare leva sulle masse per ottenere uno sforzo bellico efficace, non venne meno nei governi che si succedettero a Salandra. Tutta l’attività di assistenza e propaganda profusa dai governi per alleviare i disagi prodotti dal conflitto, che pure migliorò nel corso degli anni, era indirizzata però a radicare nella popolazione la virtù del silenzio e a vigilare su eventuali manovre ostili. Insomma si imperniava su fattori di coesione negativa: il nemico esterno e quello interno.

 

Contribuì così di fatto a creare un clima di tensione e di potenziale guerra civile, cui, ovviamente, non era estranea l’istituzione nel 1916 dell’Ufficio centrale di investigazione. L’ufficio di “polizia politica” – se mi si passa l’espressione - coordinava l’azione di una rete di spie che dovevano indagare sui diversi leaders dell’opposizione al fine di prevenire e reprimere il dissenso.

 

Il comportamento di Salandra spostò il peso dell’azione statale interamente sull’esecutivo – a discapito di una prassi istituzionale consolidata fin dai tempi di Cavour che privilegiava il rapporto con il Parlamento-, e questo nuovo squilibrio istituzionale non venne meno negli anni a venire.

 

Ora, se è vero che «L’aumento della sfera dell’esecutivo, a detrimento del legislativo, si verificò in tutti gli Stati belligeranti, collegato come era alla necessità bellica di decisioni rapide, non ostacolate dall’opposizione politica [e se è altrettanto vero che] in tutti i paesi vennero accentuate le misure coattive, di prevenzione e repressione del dissenso sociale e politico, e si accrebbe la sfera di potere dei militari [in Italia] il fenomeno assunse però … dimensioni sconosciute nelle democrazie parlamentari».

 

Di fatto, secondo Giorgio Agamben, «La prima guerra mondiale coincise nella maggioranza dei paesi belligeranti con uno stato di eccezione permanente. [Per esempio in Francia] Il 2 agosto 1914, il presidente Poincaré emise un decreto che metteva l’intero paese in stato d’assedio e che fu convertito in legge dal parlamento due giorni dopo [di modi che] molte delle leggi votate [durante la guerra] erano in verità, pure e semplici deleghe legislative all’esecutivo».

 

In Italia, lo stato d’eccezione si realizzò con il ricorso alla decretazione d’urgenza, uno strumento che nel corso del Novecento italiano è diventato ordinaria fonte di produzione del diritto e ha di fatto trasformato la democrazia italiana dell’era repubblicana da parlamentare in governamentale. Durante la Grande Guerra l’esecutivo si produsse in interventi massicciamente intensivi ed estensivi in ogni aspetto della vita sociale arrivando a più di 10 decreti al giorno fortemente restrittivi delle libertà civili e politiche dei cittadini italiani.

 

Furono proibite le riunioni pubbliche o che avvenivano in luogo pubblico o che, seppure private, per il numero dei partecipanti o per l’argomento erano da ritenersi pubbliche a tutti gli effetti. In caso di grave turbamento dell’ordine pubblico, si autorizzarono le autorità ad effettuare perquisizioni e chiusure immediate di associazioni (R. D. n. 674 del 23/5/1915).

 

Queste norme colpirono le attività politiche di base e difatti furono chiusi circoli socialisti e internati i dirigenti politici o sindacali più “indisciplinati”. Ma furono considerati reati anche la diffusione di notizie (termine che arrivò a indicare anche i semplici commenti e gli apprezzamenti) sull’andamento della guerra che potessero deprimere la popolazione, o che fossero da ritenersi “disfattisti”. Fu colpita inoltre la propalazione di informazioni sulla guerra (R. D. n. 675 del 23/5/1915; D. Lt. n. 885 del 20/6/1915;).

 

Tutte queste norme che introducevano reati di opinione furono aggravate dal D. Lt. n. 1561 del 4/10/1917, cosiddetto “Decreto Sacchi”, che diede alle autorità larga discrezionalità, affidando alla cure dei tribunali militari quanti fossero caduti nelle sue maglie.

 

Il decreto Sacchi accolse di fatto i «desiderata delle forze militari e dell’interventismo più fanatico che premevano da tempo per una più decisa azione repressiva contro il disfattismo».

 

Grazie ad esso non solo gli scioperi furono considerati illegittimi, ma venne giudicato reato qualunque situazione che impedisse lo svolgimento del lavoro (per esempio, le manifestazioni).

 

Non solo, ma quel decreto, a causa della campagna denigratoria degli interventisti più fanatici e più convinti del complotto interno ai danni dell’Italia, diffuse tra i cittadini la pratica della delazione incoraggiata dalle stesse autorità: «L’incoraggiamento che veniva dall’alto a usare largamente di tali sistemi, la sicurezza dell’impunità per chi se ne serviva, e la quasi assoluta certezza che il colpito sarebbe stato sottoposto a procedimento penale e a condanna, rendevano la denuncia facile strumento anche per soddisfare vendette e rivalse personali e, talvolta, per risolvere drasticamente intralci ad attività economiche o commerciali».

 

In questo stato d’eccezione, prodromo del regime totalitario fascista, solo i comandi militari godettero di ampia autonomia e, nelle zone di guerra – che dalle iniziali province venete e le coste arrivarono poi a coprire tutta l’Italia settentrionale, i centri industriali e la Sicilia – esercitarono poteri pressoché assoluti.

 

Dal canto suo l’esecutivo creò nuovi ministeri, per esempio quello delle Armi e Munizioni, con relativo incremento dei dipendenti pubblici. L’organizzazione pubblica di nuovo conio più importante fu quella della Mobilitazione Industriale, in cui accanto a militari e pubblici funzionari, collaboravano industriali, tecnici e sindacalisti.

 

Durante la guerra queste premesse, paradossalmente, non produssero un accentramento del potere decisionale.

 

L’esautoramento del parlamento svincolò i vari centri di potere – governo, vertici militare, organismi di gestione politica economica – da ogni controllo che solo il legislativo poteva assicurare, e sortì soprattutto una perniciosa duplicità decisionale tra poteri civili e poteri militari. La quale a sua volta si concretò in un modo di affrontare i problemi più urgenti aperti dalla conflagrazione attraverso il ricorso a soluzioni tampone, parziali, provvisorie e sempre insufficienti e con l’aumento del numero di organismi specializzati ma fra loro assolutamente scollegati.

 

Questi organismi non erano solo statali. A questi si affiancarono infatti le centrali industriali e finanziarie, le associazioni private di assistenza e propaganda e i gruppi di pressione politico-culturale.

 

Tutta una serie di enti fuori del controllo dello stato che contribuirono a peggiorare le condizioni di vita della popolazione aumentandone il disagio e l’avversione nei confronti dello stato.

 



 

 

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