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N. 91 - Luglio 2015 (CXXII)

CELEBRAZIONI CONTESE
SREBRENICA SENZA PACE

di Filippo Petrocelli

 

Non sono bastati vent’anni. Le ferite continuano a suppurare nella ex-Jugoslavia e ancora una volta sotto i riflettori c’è la martoriata Bosnia. Alla commemorazione per la strage di Srebrenica infatti il premier serbo Aleksandar Vučić è stato duramente contestato da una folla inferocita di musulmani bosniaci. Una giornata piuttosto movimentata per lo staff di sicurezza che si è dovuto districare fra lanci di sassi, di bottiglie e insulti.

 

Eppure Vučić è stato uno dei pochi politici serbi ad ammettere il massacro di Srebrenica e la sua visita al mausoleo di Potocari – costruito appunto per commemorare la strage di mussulmani bosniaci a opera di milizie serbe – sembrava preannunciare un periodo di distensione.

 

Invece non è andata così: nonostante l’impegno delle madri di Srebrenica – che in mattinata avevano accolto il premier, appuntandogli sul petto un fiore simbolo della sofferenza diventato icona della strage – la situazione è degenerata non appena il Primo ministro serbo si è avvicinato al monumento funebre per depositarvi un fiore, poco prima di mezzogiorno.

 

Da quel momento la sedizione è stata collettiva: e così una marea umana al grido di “Allah ou akbar” ha tempestato Vučić di oggetti vari al punto da far parlare il Ministro degli interni serbo, Nebojša Stefanović di un tentativo linciaggio del leader serbo, arrivando a definire l’evento, con un po’ di esagerazione, come un tentato omicidio.

 

Vučić sconta il suo passato nel Partito radicale serbo, e il conseguente orientamento nazionalista e “grandeserbo” nonché la sua posizione durante gli anni del conflitto jugoslavo. Paga l’appoggiato a Milosevic fino al 1993 e il sostegno durante la guerra alla Republika Srpska, guidata da Radovan Karadžić, enclave serbo-orotodossa nella Bosnia a maggioranza mussulmana, i cui paramilitari furono implicati proprio nel massacro di Srebrenica.

 

Nonostante oggi si sia distaccato da quelle posizioni politiche aderendo al Partito progressista serbo, il premier resta una figura legata al passato, almeno agli occhi dell’opinione pubblica. Non a caso la sua visita è stata vista come un affronto da una parte dei bosniaci presenti all’evento, scatenando una reazione istintiva della folla. Dimostrando di fatto, che il tempo non è maturo nemmeno per un’asettica celebrazione istituzionale.

 

In pochi minuti è tornato prepotente l’odio della guerra civile jugoslava, rimasto in verità radicato ma sottotraccia in tutti gli stati della area balcanica. Per un momento non era più l’11 luglio 2015, ma di colpo l’11 luglio 1995, quando le truppe di Mladic assediavano la città e i Caschi Blu olandesi dovevano difendere la popolazione, dopo che la zona era stata demilitarizzato dalle truppe bosniache guidate da Naser Orić.

 

Un’altra volta ortodossi serbi contro bosgnacchi musulmani, come vent’anni prima, dimenticando le grandi responsabilità della comunità internazionale e delle truppe dell’Onu in tutta la mattanza jugoslava, con le potenze mondiali impegnate a smembrare uno stato, fomentando e finanziando i nazionalismi locali per poi lasciare tutto irrisolto con gli accordi di pace Dayton, naufragati nel sangue della successiva guerra in Kossovo.

 

La Bosnia dei nostri giorni è uno stato federale, diviso istituzionalmente fra la Federazione della Bosnia e Erzegovina a netta maggioranza mussulmana e bosgnacchia e la Repubblica Serba di Bosnia, che rappresenta il 40% della popolazione e la minoranza serbo-ortodossa. Due entità che procedono vicine, unite sulla carta ma distinte nei fatti, che condividono in realtà solo un assetto istituzionale comune ma che restano fondamentalmente aliene l’una all’altra.

 

Un paese frantumato irrimediabilmente su linee etnico-confessionali in cui la guerra continua sotto altre forme, come il crollo dei matrimoni misti, che da consuetudine radicata sono diventati una rarità, dimostrando empiricamente la crescente segregazione etnica. Un paese prima emblema della Jugoslavia multiculturale, della civile convivenza dei popoli e poi triste monumento all’odio perpetuo fra genti e religioni diverse.

 

E se in Serbia e Croazia il nazionalismo è stato esasperato con risultati evidenti, anche in Bosnia ha attecchito, forse in leggero ritardo, legandosi in maniera indissolubile al radicamento del sentimento religioso. Bosnia e islam sono divenuti sinonimo ed è iniziato un processo di progressiva islamizzazione della società, scandito dal fiorire di moschee e centri culturali, spesso finanziati da denaro proveniente dai paesi del Golfo e dalla Turchia.

 

Con questi centri è anche proliferata una predicazione più radicale del Corano, lontana dalla tradizione dell’islam bosniaco molto tollerante, che ha fatto presa soprattutto fra le giovani generazioni delle aree rurali del paese. In realtà l’islamismo aveva fatto la comparsa nel paese già nei primi anni Novanta, quando l’indipendenza bosniaca era diventata una sorta di jihad internazionale e affluivano in Bosnia volontari da ogni parte del mondo, ma dopo vent’anni il binomio islam e politica inizia a occupare spazi importanti all’interno della società.

 

Non a caso la folla inferocita gridava “Allah è grande”, per ricordare a Vučić, le ragioni di un conflitto in realtà mai finito.



 

 

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