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N. 67 - Luglio 2013 (XCVIII)

PRIMO RISORGIMENTO ITALIANO
CAUSE E SCOPPIO DELLA RIVOLUZIONE DEL 1848 IN VENETO

di Luca Zampino

 

Nel 1848 l’assetto politico-territoriale della penisola italiana era praticamente immutato da quando il suo frazionamento in stati medio-piccoli con governi monarchici assolutistici fu deciso al Congresso di Vienna, nel 1815, data con cui si è soliti ad indicare l’inizio del periodo chiamato della Restaurazione.

 

A sud la dinastia dei Borbone governava il Regno delle Due Sicilie con pugno di ferro, mentre nel centro lo Stato della Chiesa e nel nordovest il Regno di Sardegna, pur essendo monarchie assolute, stavano aprendosi timidamente alla teorie liberali che stavano espandendosi in tutta Europa dall’Inghilterra e dalla Francia, a partire dal 1846. Con esse, nonostante il legame dinastico asburgico, procedeva sulla via delle riforme anche il Granducato di Toscana.

 

L’Austria, con il suo centralismo politico ed economico, si premurava che la situazione rimanesse statica, per evitare che teorie liberali o addirittura di matrice democratica e repubblicana potessero giungere nel Lombardo-Veneto, territorio controllato direttamente da Vienna e di fatto il più ricco di materie prime dell’Impero.

 

Tuttavia l’imperatore Ferdinando I, salito al trono nel 1835, non era in grado di gestire una situazione politica che si stava sempre più aggravando e che metteva in crisi la sua stessa posizione, soprattutto a causa della sua scarsa abilità politica e del suo carattere debole.

 

L’impero austriaco infatti era, ormai da molti anni, logoro e in declino: le cause principali stavano nel fatto che la gestione dei territori era attuata in modo tradizionale, tipico di uno stato del diciottesimo secolo, e che l’apparato governativo era troppo centralizzato e burocratizzato; di conseguenza tutta la macchina amministrativa era esageratamente lenta.

 

Oltre a ciò, assai più di altre monarchie assolutistiche, l’Austria doveva affrontare il problema della multietnicità. I sudditi, distribuiti su un territorio che andava da Milano a Budapest, da Zagabria alla Galizia, erano circa venti milioni di cui poco più della metà erano di etnia tedesca. Italiani, ungheresi, slavi e altre minoranze, completavano il quadro demografico dello stato, tutti con una storia propria e con esigenze diverse tra loro che non si potevano ignorare.

 

Lo stato asburgico era, inevitabilmente, uno stato di polizia. Il controllo dei territori era attuato con l’utilizzo dell’esercito, il quale era formato da uomini delle varie dell’impero, che erano stanziati in territori diversi dalla loro terra di provenienza. Ad esempio nel Lombardo-Veneto gran numero dei soldati era di origine ungherese e croata, oltre che austriaca e in minima parte italiana, così da evitare possibili fraternizzazioni fra la popolazione e gli uomini sotto le armi.

 

L’esercito austriaco era uno dei più efficienti d’Europa, nonché uno dei più numerosi. Secondo Piero Pieri gli eserciti dell’epoca si dividevano in due categorie: quello numerico e quello di qualità. Quello di numero prediligeva addestrare una gran quantità di uomini, accorciando gli anni di leva obbligatoria, e quindi di addestramento.

 

Ci si trovava così, in caso di guerra, ad avere un alto numero di soldati disponibile, ma con poca disciplina e spirito militare. Questa struttura era tipica dell’esercito prussiano. L’esercito di qualità invece preferiva attuare un lungo addestramento per un ristretto numero di uomini, così che, al momento di un eventuale guerra, il nucleo centrale dell’esercito fosse stato disciplinato e con un elevato spirito militare. T

 

ale tipo di esercito era prediletto dalla Francia. L’esercito asburgico era strutturato alla francese, quindi la macchina bellica austriaca era una delle armate qualitativamente più efficaci nel panorama militare europeo, inoltre era uno dei più grandi grazie alla sua estensione territoriale elevata. Solo nel Lombardo-Veneto erano stanziati all’inizio del 1848 poco più di 75.000 soldati.

 

Il problema di un esercito permanente, come quello austriaco, era di conseguenza soprattutto economico. Il mantenimento di così tanti soldati in un territorio come il Lombardo-Veneto, ricadeva inevitabilmente sulla popolazione locale.

 

Perciò il Regno Lombardo-Veneto doveva provvedere ai suoi stessi guardiani, incrinando enormemente i rapporti tra l’autorità e la cittadinanza. Fin dalla sua prima annessione, nel 1814, il Veneto, più della Lombardia, era sempre stato trattato come un territorio occupato, anziché come una parte dell’impero austriaco.

 

La fine della Repubblica di Venezia, conquistata e occupata da Napoleone Bonaparte nel 1797, fu un evento sicuramente traumatico per i veneti, consapevoli di aver perso quella libertà, di fatto centenaria, che avevano avuto le generazioni a loro precedenti. La mancata restaurazione della repubblica oligarchica, decisa al Congresso di Vienna, fu una delle più importanti modifiche territoriali avvenute nel 1815.

 

L’unione con la Lombardia inoltre era solamente un modo per semplificare l’amministrazione del territorio. Non furono date concessione di autonomia. L’Austria gestiva questa vasta zona ignorando una storia secolare, incancellabile nelle menti dei più, in soli pochi decenni. Ancora più grave fu che tale atteggiamento le autorità lo mantennero anche con la classe aristocratica, la più colpita dalla fine dell’indipendenza, perciò quella più delusa (che però non prese parte direttamente alla rivoluzione del 1848).

 

Infatti oltre a perdere la libertà, i nobili veneziani persero anche quei privilegi che erano stati una loro prerogativa per secoli. Tutti i cittadini erano quindi esclusi dalla vita politica. L’amministrazione austriaca era fortemente centralizzata, con una apparato burocratico lento e macchinoso. Tutto veniva spedito a Vienna, e molto di questo era visto personalmente dal sovrano.

 

In particolar modo Francesco I, imperatore fino alla morte nel 1835, visionava gran parte delle carte provenienti da le varie parti dell’impero, allungando ulteriormente i tempi delle procedure. Ciò fa comprendere perché le istituzionalizzazioni rappresentative in Veneto fossero state abolite fin da subito, e come le congregazioni che avevano il compito di sostituire tali organi fossero sostanzialmente inutili. Il tutto veniva aggravato e reso ancora più pesante, fin da subito, dall’organizzazione della magistratura, monopolio degli uomini di legge austriaci.

 

Agli avvocati italiani venivano affidati compiti di bassa importanza. Infatti i casi di cui essi si occupavano erano tutti civili, le cause penali erano affidate unicamente ad avvocati trentini e tirolesi. Di conseguenza, senza possibilità di partecipare alla vita politica e a quella giuridica, si intuisce come l’aristocrazia veneta fosse inevitabilmente impotente e priva di un qualsiasi potere decisionale.

 

Il controllo sulla vita dei cittadini era soffocante e rigido. Una forte censura costringeva la maggior parte degli intellettuali italiani a scrivere molte opere clandestinamente, come ad esempio Tommaseo e Cattaneo. Ciò venne attuato per evitare che si potessero fomentare, cosa che avvenne comunque, sentimenti nazionali e indipendentisti. L’alto clero appoggiava questa politica di censura in cambio del monopolio dell’istruzione nelle scuole.

 

Salvo alcune eccezioni infatti, quasi tutte le scuole erano affidate a preti o a parroci cattolici. Inoltre non era raro che le confessioni dei fedeli italiani, fossero, pur contro la regola ecclesiastica, passate alla polizia, dai preti, in caso le rivelazioni fossero state compromettenti. La chiesa dunque era un vero e proprio strumento di controllo nelle mani delle autorità asburgiche.

 

La situazione dell’economia veneta non era sicuramente sana, e fu un’ulteriore causa della ribellione del 1848. Venezia fu considerata, fin dall’inizio della sua inclusione nello stato asburgico, come il secondo porto dell’impero, per capacità di importazione ed esportazione, militarmente e politicamente.

 

Trieste godeva infatti di tutti i vantaggi possibili, grazie allo status di porto franco concesso da Maria Teresa nel XIII secolo. Solo nel 1830 Venezia poté usufruire della stessa condizione, ma a differenza della città rivale, era sempre soggetta a forti dazi, come ad esempio sul vino e sulla seta, i prodotti più pregiati della regione. Le leggi del mercato non favorivano dunque i commercianti veneziani.

 

I problemi della classe contadina invece erano di altra natura, ma di gravità superiore. La forte tassazione sui prodotti del suolo e l’incertezza sui diritti di proprietà, furono le complicazioni più gravi di questa categoria che includeva la maggior parte della popolazione veneta.

 

Anche a causa del forte aumento demografico, che si ebbe all’inizio degli anni trenta dell’ottocento, la loro situazione era talmente disperata che non furono rare le morti per inedia. Tuttavia e difficile spiegare come, con questa situazione tragica, le rivolte e le proteste dei contadini furono molto contenute, rispetto ad esempio a quelle che avvennero in Sicilia, e che  furono il motore trainante della rivoluzione contro i Borbone nel 1848.

 

Oltre a ciò i contadini veneti erano la classe che più di ogni altra, era soggetta alla coscrizione obbligatoria, in base alla quale i giovani erano costretti ad arruolarsi nell’esercito asburgico, per un minimo di tre anni, sottraendo così numerose braccia alla terra, aggravando ulteriormente la situazione delle famiglie più povere.

 

Questa dunque era la situazione socio-economica del Veneto alle soglie del 1848, anno della possibile consacrazione della classe borghese, a discapito dell’ormai logoro e consumato antico regime.

 

Nei decenni successivi al Congresso di Vienna infatti la rinfrancata nobiltà, che aveva tremato durante il dominio napoleonico, tentò di cancellare almeno una parte dei cambiamenti che vennero portati dall’ondata rivoluzionaria partita da Parigi nel 1789.

 

Tuttavia far passare quel periodo di cambiamenti solo come lunga parentesi era troppo semplicistico e in sostanza questo obiettivo fallì miseramente. I moti rivoluzionari, dei democratici italiani, partiti da Parigi nel 1830, se pur fallimentari misero in luce come una gran maggioranza della così detta classe media, e degli intellettuali rimpiangesse il periodo trascorso sotto il regime napoleonico.

 

Nella penisola italica i tentativi repubblicani più importanti furono organizzati e messi in atto da Giuseppe Mazzini. Fondatore delle Giovine Italia nel 1831, il suo sogno era la creazione di uno stato italiano indipendente, unito dalla Sicilia alle Alpi con capitale Roma.

 

Il regime doveva essere ovviamente repubblicano, salvaguardato da una costituzione che prevedesse il suffragio universale maschile. I metodi da lui proposti per raggiungere questo nobile obiettivo prevedevano un’educazione del popolo alla guerriglia e ai valori democratici. Una volta educati i cittadini si sarebbero sollevati contro i vari regimi assolutistici sotto i quali erano assoggettati.

 

Tuttavia i tentativi attuati dalla Giovine Italia non diedero i risultati sperati: sia in Savoia nel 1833, sia in Sicilia nel 1844 le rivoluzioni tentate si dimostrarono un insuccesso clamoroso, evidenziando come il popolo “italiano” non fosse ancora pronto per questo importante passo.

 

Oltre al mazzinianesimo,vi fu un’altra corrente di pensiero i cui membri sono considerati gli artefici della sollevazione del popolo italiano nel 1848: quella del movimento moderato liberale, che andava sotto il nome di movimento neoguelfo.

 

Esso basava la sua lotta sulle vie legali, cercando di scavare lentamente nell’organizzazione monarchico assolutista, inserendo idee liberali in maniera graduale. Questo movimento prese vigore con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Maria Mastai Ferretti, che prese il nome di Pio IX, nel 1846.

 

Egli era un papa considerato di idee liberali e meno conservatore del suo predecessore Gregorio XVI. In verità questa sua caratterizzazione fu forzata dagli stessi neoguelfi per ottenere l’appoggio della popolazione, quasi nella totalità ovviamente di religione cattolica.

 

Egli in verità era un papa tradizionalista e conservatore quasi quanto i papi che lo precedettero. La sua apertura riguardava semplicemente una minore rigidità della censura e delle deboli concessioni alla libertà di parola delle varie gazzette e quotidiani nello Stato Pontificio.

 

Il suo sbaglio più grave fu proprio cadere nell’adulazione dei neoguelfi. Infatti se pur non appoggiava le idee dei liberali, non rinnegò legittimamente gli elogi e gli appellativi sciovinisti che gli vennero affibbiati. Non si rese conto di quanto la rivoluzione fosse così vicino all’esplosione.

 

Non c’era da stupirsi se durante, ad esempio le cinque giornate di Milano, o durante la sollevazione di Palermo, i patrioti assediavano le truppe regie esaltandosi al grido di “Viva Pio IX”. Con l’allocuzione del 29 aprile1848 mostrò le sue vere intenzioni: impossibile fare  la guerra ad uno stato cattolico quale era l’Austria.

 

Questa dichiarazione avvenne però troppo tardi: la guerra era iniziata da più di un mese, e le truppe pontificie,guidate dal generale Durando, erano già in movimento per prestare soccorso ai veneti a all’esercito piemontese. La conseguenza fu la creazione della Repubblica romana e la sua cacciata dalla città eterna.

 

Assieme al papa “liberale” l’altra figura che fece sperare concretamente in un importante cambiamento fu quella di Carlo Alberto. Re di Sardegna, egli fu uno dei primi sovrani italiani che concesse la costituzione nel proprio Stato, che prese il nome di Statuto Albertino in suo onore.

 

Il popolo sperava, compresi alcuni proto-socialisti come Pisacane, che egli potesse essere il sovrano liberatore su cui fare affidamento per la sollevazione contro l’Austria, il principale nemico da abbattere, per poi discutere a guerra finita il regime giusto per l’eventuale neonato Stato italiano. In verità il suo intervento fu disastroso e non fece altro che rovinare ciò che i patrioti delle varie città italiane avevano fatto.

 

Egli scese in guerra contro l’Austria come un liberatore del popolo dal giogo straniero, ma si rivelò ben presto poco più di un sovrano che faceva solamente gli interessi della propria corona, tradizionalmente volta a conquistare la Lombardia. Le sue discutibili azioni, come ad esempio snobbare i volontari del Lombardo-Veneto o l’invio di aiuti mancato ai difensori della Repubblica Veneta e del Friuli, dimostrarono come egli avesse più avversione verso i repubblicani che contro il vero nemico, cioè l’Austria.

 

Condusse una guerra “d’invasione” schierando le truppe in maniera difensiva, come a voler mantenere la Lombardia conquistata nei primi giorni di campagna, quando invece sarebbe servita un’azione di forza contro delle truppe nemiche in fuga verso il Veneto, quali erano quelle di Radetzky alla fine del marzo del 1848, ovvero all’inizio dell’offensiva.

 

Perdendo praticamente quasi tutti gli scontri campali rischiò addirittura una controffensiva austriaca. Abbandonò i milanesi che avevano sperato nella suo intervento liberatorio, lasciandoli alla mercè degli austriaci, ritornati nella città ribelle pochi mesi dopo le cinque giornate. L’armistizio di Salasco fu probabilmente l’unica conclusione degna della sua azione di guerra nel 1848.

 

Ad ogni modo, la così detta “primavera dei popoli”, così chiamata perché la lotta venne iniziata e condotta appunto dal popolo, ebbe inizio a Parigi. Nel febbraio del 1848 il regno di Luigi Filippo finì e al suo posto venne istaurata la Repubblica.

 

A macchia d’olio le rivolte per chiedere la carta costituzionale si estesero in tutta Europa, come in Belgio e in Polonia. In Italia i primi a insorgere furono i siciliani nel gennaio del 1848, i quali costrinsero Ferdinando II sovrano del Regno delle Due Sicilie a concedere la costituzione, seguito da Leopoldo II sovrano del Granducato di Toscana e, come abbiamo visto, da Carlo Alberto re di Sardegna.

 

Le rivolte nel Lombardo-Veneto si ebbero solo quando giunsero le notizie, a Milano e a Venezia, della sollevazione di Vienna, con la quale i favorevoli a una costituzione liberale spinsero l’imperatore a fare importanti concessioni.

 

Milano fu la prima a insorgere e a cacciare le truppe del generale Radetzky, nel periodo noto come “le 5 giornate di Milano”, seguita poi da Venezia.

 

La città lagunare riuscì a liberarsi delle truppe austriache e a creare la Repubblica di San Marco senza praticamente sparare una pallottola. Ciò fu possibile grazie all’astuzia e alla rapidità d’azione dell’avvocato Daniele Manin, il quale grazie alla presa immediata dell’Arsenale e dei vari forti posizionati nell’entroterra, riuscì tra la notte tra il 22 marzo e il 23 marzo del 1848 ad essere padrone della città e a far allontanare tutte le truppe austriache già il 24 marzo.

 

Tuttavia Manin commise anche gravi errori, il primo dei quali fu di far imbarcare il governatore austriaco Palfy sulla stessa nave che avrebbe dovuto avvisare la flotta stanziata a Pola della rivoluzione.

 

Composta nella maggior parte dei marinai da italiani, essa era fondamentale per il controllo dell’Adriatico. Privare completamente l’Austria della forza navale significava poter attuare un blocco sul porto di Trieste, attuando un offensiva letale per l’economia asburgica. Ma ciò non avvenne. Sbarcato a Trieste, Palfy avvisò, come era prevedibile, le autorità le quali fecero rapidamente richiamare la flotta prima dell’arrivo della nave incaricata di avvisarla della rivoluzione di Venezia.

 

Di fatto la città che subì il blocco navale fu proprio Venezia. L’altro grave errore commesso dal Manin fu quello di concedere a più di 3000 soldati italiani stanziati a Venezia, precedentemente sotto le armi austriache, il congedo. Permettendo loro di tornare alle proprie case, perse il corpo di uomini che avrebbe dovuto formare lo zoccolo duro dell’esercito veneto, che era appena da creare.

 

Cosa ancora peggiore a queste truppe regolari, pur sapendo che si sarebbero sciolte appena sbarcate sulla terraferma, venne lasciato loro tutto l’equipaggiamento d’ordinanza che sarebbe potuto tornare utile successivamente durante la guerra.

 

Attuando queste leggerezze Manin, involontariamente, diede un colpo mortale a qualsiasi tentativo offensivo che la neonata Repubblica di San Marco avrebbe potuto attuare. Quindi, senza flotta e senza un esercito in grado almeno di compiere azioni di disturbo e di guerriglia, Venezia fu costretta per tutto il corso del biennio bellico a restare inerte.

 

I tentativi attuati da Manin  per far del bene alla città lagunare furono soprattutto diplomatici, ma purtroppo per lui essi non diedero alcun frutto. La Repubblica venne lentamente abbandonata a se stessa dalle varie potenze internazionali, anche quando fu l’ultimo baluardo europeo contro il regime imperialista e dispotico, ciò avvenne soprattutto agli errori all’inizio dell’insurrezione e sopra descritti.

 

Ad ogni modo con la perdita di Venezia l’esercito asburgico, nel marzo del 1848, vide cadere una dopo l’altra le città principali della regione: Treviso, Vicenza, Padova, Udine e la fortezza di Palmanova.

 

Solo Verona rimase agli austriaci, città importante strategicamente, avendo sotto controllo praticamente tutta la viabilità del Veneto, in cui pose il suo quartier generale il comandante, in fuga da Milano Radetzky.

 

Il compito dei patrioti, ormai padroni delle varie città, era quello di reclutare il maggior numero di soldati validi per contrastare la prevedibile controffensiva austriaca.

 

Molti furono i volontari, e, a capo delle operazioni militari, vennero scelti ex ufficiali italiani che avevano servito sotto l’Austria, facendosi la giusta esperienza, e coloro che avevano partecipato in gioventù alle guerre napoleoniche.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

P. Pieri, Storia militare del risorgimento, Torino, Luigi Einaudi, 1962.

G.B. Cavedalis, I Commentarii volume primo, Udine, tipografia G.B. Doretti, 1928.

P. Ginsborg,  Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49,Torino, Luigi Einaudi, 2007.

C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, Milano, edizione Avanti!, 1961.



 

 

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