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filosofia & religione


N. 2 - Febbraio 2008 (XXXIII)

Il Canone del Nuovo Testamento

UN PUNTO DI VISTA ALTERNATIVO

di Francesco Arduini

 

Quella che oggi l’uomo chiama Bibbia è in effetti una collezione di antichi documenti composti e messi per iscritto nel corso dei secoli. Tutta insieme questa collezione di documenti forma ciò che Girolamo ben definì in latino la Bibliotheca Divina.

 

Alla collezione o elenco di libri accettati come Scritture autentiche e ispirate si fa spesso riferimento come al canone biblico. Questo termine trae origine dall’antico uso della canna (ebraico: qanèh - greco: kanòn) come strumento di misura,  alla pari del nostro odierno metro. I libri canonici dovrebbero pertanto essere quelli impiegati come “metro” per determinare l’ortodossia di una dottrina.

 

Se, per il credente, le Sacre Scritture sono inscindibilmente legate al concetto di ispirazione divina  (2 Timoteo 3:16), non può che dirsi lo stesso del concetto di “canone”; da ciò deriva che la sua formazione, oltre che fatto storico, risulta essere fatto dogmatico.[i]

 

Purtroppo però, non sempre la verità storica prevale su quella dogmatica.

 

E’ infatti molto diffusa l’idea che la formazione del canone neotestamentario trovi la sua origine a seguito di pronunce autoritarie delle gerarchie ecclesiastiche. Anche se la questione fu discussa in vari concili a partire dal quarto secolo, si potrebbe essere portati a credere che la chiesa Cattolica abbia stabilito e dogmaticamente definito il canone con decisione ex-cathedra al Concilio di Trento del 1546 con il decreto De Canonicis Scripturis[ii].

 

Ma questo non sembra essere un corretto punto di vista; per dirla alla Bertrand, “non spetta alla Chiesa di decidere se la Scrittura sia veridica, ma spetta alla Scrittura di testimoniare se la Chiesa è ancora cristiana”[iii] e ortodossa. Anche a parere di chi scrive, gli avvenimenti andrebbero visti da una prospettiva ribaltata: le gerarchie ecclesiastiche hanno semplicemente ratificato un fatto ormai compiuto. I singoli Scritti sono stati riconosciuti come canonici perché erano già stati adottati dalle comunità cristiane come Scritture ispirate da Dio, e ciò in virtù di una loro intrinseca valenza.

 

Testimonium Spiritus Sanctis Internum

 

La necessità di stilare canoni biblici sorse quando, sin dall’inizio del secondo secolo, una massa di scritti apocrifi si andava affiancando agli scritti originali, quando cioè numerosi gruppi dissidenti ed ereticali iniziarono ad inquinare l’originale messaggio evangelico scrivendo libri contro ciò che era tradizionalmente accettato. Come tipico esempio potremmo menzionare Marcione, il quale, ritenendo che il messaggio autentico di Gesù fosse stato di proposito alterato dagli apostoli giudeo-cristiani, redasse un suo Canone, intorno al 140, in cui inserì il solo Vangelo di Luca, gli Atti degli Apostoli e dieci Lettere di San Paolo, depurando tutto il testo da ogni allusione positiva agli Ebrei o all'Antico Testamento[iv].

 

Questo fatto spinse i catalogatori ad elencare i libri che si ritenevano canonici, tracciando quindi una linea di confine, più o meno netta a seconda della zona e del tempo in cui si viveva. Va riconosciuto come fatto storico che la canonizzazione consistette in un processo di adozione che non fu lineare ed uniforme, ma si perfezionò nel corso del tempo. La domanda è: quanto tempo fu necessario? E cosa spinse le comunità cristiane ad adottare alcuni libri e a rigettarne altri?

 

La selezione/adozione, seppur attuata con tempi diversi, avvenne principalmente in base ad un criterio interno agli stessi Scritti, cioè al loro Kerygma.

 

Il termine Kerygma deriva dal greco e significa “annuncio”, si riferisce alla nuda proclamazione della morte e risurrezione di Gesù Cristo, effettuata da chi ne è stato testimone, cioè dagli apostoli. Un esempio di Kerygma è costituito dal discorso di San Pietro riportato in Atti 2:22: “Uomini d'Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto”[v].

 

Questo fatto è estremamente importante per il canone neotestamentario proprio perché, come scrisse C. F. D. Moule, “per i primissimi cristiani i dodici rappresentano il “canone”, cioè il metro di riferimento, il modello per mezzo del quale si poteva stabilire, finché essi vissero, l'autenticità del messaggio cristiano”[vi].

Questa semplice constatazione sembra avvalorare l’ipotesi di una definizione del canone molto vicina all’epoca apostolica; in caso contrario, più tempo sarebbe passato, e maggiori difficoltà ci sarebbero state ad arginare gli scritti eretici, in specialmodo quelli gnostici.

 

Il ritardo con cui alcuni Scritti furono adottati da certe comunità cristiane si deve alla minor chiarezza con cui il loro kerygma evangelico fu percepito in determinate località. Potè costituire un ulteriore freno anche il fatto che determinati libri fossero “troppo” divulgati in ambiente eretico. Si ricorda ad esempio che fu solo dopo il quarto secolo che l’Apocalisse di Giovanni fu generalmente accettata in oriente e l’Epistola agli Ebrei in occidente. Ciò che conta è che la forza del messaggio kerygmatico di questi libri, cessate le “influenze esterne” che ne ostacolarono una piena percezione, finì con l’imporsi universalmente.

 

Il kerygma fu senz’altro il principale criterio selettivo, ma non fu l’unico. Ad esso si affiancò anche l’armonia che gli Scritti dovevano manifestare nei confronti di una lettura cristologica dell’Antico Testamento. Giova ricordare che la Chiesa primitiva avviò quel processo ermeneutico che vide nelle Scritture Ebraiche l’annuncio del vangelo; era quindi impensabile accogliere nelle comunità cristiane delle lettere o degli scritti in conflitto con una simile lettura. Nessun libro che, ad esempio, distinguesse il Dio degli Ebrei dal Dio dei cristiani avrebbe potuto essere incluso nel canone.

 

Le pretese degli scritti eretici e gnostici furono bloccate sul nascere dai primi cristiani che fecero proprio l’incoraggiamento di San Paolo allorchè disse ai corinti di “non andare al di là di ciò che è scritto” (1 Corinti 4:6). Un tipico esempio è dettato dal Vangelo di Tommaso il quale identifica Giacomo come vicario di Cristo affermando che “i cieli e la terra vennero all’esistenza per lui”[vii].

Non ci volle molto alla Chiesa per comprendere che queste affermazioni si contrapponevano apertamente a quanto potevano leggere nella lettera ai Colossesi (cap. 1:15-16), così come non poterono accettare quanto riportato nel vangelo di Tommaso al verso 114: “Simon Pietro disse loro: Cacciate via Maria, perché le femmine non sono degne della vita” in quanto in conflitto con Galati 3:28: “Non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù”.

 

Possiamo quindi dire che la prima epistola ai Corinti attesta già il valore normativo che veniva assegnato alle lettere e possiamo anzi supporre che, alle orecchie dei compagni di Paolo, le sue parole rappresentassero un autorevole invito a “cristallizzare” la traditio orale in forma scritta. Non va infatti sottovalutata l’importanza per le Scritture che culturalmente caratterizzava i primi giudeo-cristiani. Un retaggio il cui abbandono parrebbe difficilmente giustificabile, e che anzi trova riscontro nei tentativi degli eretici di falsificare le lettere apostoliche per conferire autorità al loro messaggio. Ciò, ad esempio, è testimoniato da quanto si può leggere nella seconda epistola ai Tessalonicesi: “…di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra”. ( 2 Tessalonicesi 2:2 – vedi anche 3:17)

 

A quanto sopra si deve aggiungere che il protocristianesimo individuò molto presto nel “trascorrere del tempo” un nemico della retta dottrina, cioè l’apostasia[viii].

Anche alla luce di ciò è difficile credere che non abbiano prontamente raccolto gli scritti dell’era apostolica classificandoli come canonici. In tal senso si muove il commento sui vangeli del prof. Giulio Michelini, docente di Nuovo Testamento all'Istituto Teologico di Assisi: “Si sta facendo passare l'idea che i quattro scritti canonici furono scelti dalla Chiesa tra decine di vite di Gesù disponibili. E invece Luca &  C. sono i testi più antichi e fedeli alle fonti. Gli altri non hanno la stessa età, anzi li copiano con molta fantasia” [ix]

 

Brevi cenni storici

 

Nella letteratura apologetica si incontrano molte espressioni che indicano una chiara consapevolezza della canonicità delle Sacre Scritture Greche. I vangeli, le lettere pastorali e quelle cattoliche mostrano di avere un’importanza equiparabile agli scritti veterotestamentari.

 

Giustino Martire (morto nel 165 ca.), nel suo Dialogo con Trifone (XLIX), usa l’espressione “è scritto” nel citare Matteo, così come fanno i Vangeli stessi quando citano le Scritture Ebraiche. La stessa cosa fa una precedente opera, la “Lettera di Barnaba”.

 

Teofilo di Antiochia, nel secondo secolo, dichiarò: “Circa la giustizia comandata dalla legge, espressioni di conferma si trovano sia fra i profeti che nei Vangeli, perché tutti parlarono mentre erano ispirati dal medesimo Spirito di Dio”. Teofilo usa espressioni come “il Vangelo dice” citando Matteo (5:28, 32, 44, 46; 6:3) e “la parola divina ci dà istruzioni” citando la prima lettera a Timoteo (2:2 e Ro 13:7, 8).[x]

 

Leggiamo che “verso la fine del primo secolo, Clemente vescovo di Roma conosceva la lettera di Paolo indirizzata alla chiesa di Corinto. Dopo di lui, le lettere sia di Ignazio vescovo di Antiochia che di Policarpo vescovo di Smirne, attestano la diffusione delle lettere paoline entro il secondo decennio del II secolo”[xi].

 

Tutti questi antichi scrittori, Clemente di Roma, Policarpo, Ignazio di Antiochia, ecc... inclusero nei loro scritti citazioni e brani di vari libri delle Scritture Greche Cristiane. La canonicità di questi scritti era evidentemente un dato già acquisito da tempo.

 

Il canone Muratoriano

 

La prima evidenza storica di una lista canonica, degna quindi di particolare attenzione, è nota con il nome di Frammento Muratoriano e fu scritta in latino. Fa parte di un codice manoscritto di 76 fogli di pergamena di 27x17cm ciascuno. Fu scoperto da Ludovico Antonio Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e pubblicato nel 1740.

 

Sembra che il codice sia stato prodotto nell’ottavo secolo nell’antico monastero di Bobbio, vicino a Piacenza, e poi trasferito nella Biblioteca Ambrosiana agli inizi del diciasettesimo  secolo. Si suppone che l’originale sia stato scritto in greco nel secondo secolo. A questa datazione si giunge attraverso un  indizio contenuto nello stesso Frammento: la menzione del libro “Il Pastore”. Si legge che l’autore, Erma, lo aveva scritto “molto recentemente, ai nostri giorni, nella città di Roma”. Gli studiosi datano questo libro attorno al 140-160 per cui si pensa che l’originale greco del Frammento Muratoriano sia stato scritto tra il 170 e il 200.

 

Esso riporta i seguenti libri:

 

·4 Vangeli [xii]

·gli Atti degli apostoli

·13 Lettere di Paolo

·3 Lettere cattoliche (Giuda e due di Giovanni)

·l’Apocalisse di Giovanni

·l’Apocalisse di Pietro

·Il Pastore di Erma

E’ da notare che il Frammento non menziona la lettera agli Ebrei[xiii], le due lettere di Pietro, quella di Giacomo e una delle tre di Giovanni.

 

L’interpretazione tradizionale, condivisa dalla quasi totalità degli studiosi, vede in ciò la prova di un tardo riconoscimento di questi scritti da parte della Chiesa. Esistono però alcune voci “fuori dal coro” che cito brevemente:

 

1-Commentando in un suo libro la qualità del lavoro dell’emanuense che copiò il manoscritto, Geoffrey Mark Hahneman[xiv] considera “ragionevole ipotizzare che il Frammento possa aver contenuto altri riferimenti ora perduti, e che Giacomo ed Ebrei possano essere stati fra questi”.

 

2-Un’altra opera di consultazione afferma che le due lettere di Giovanni menzionate “non possono che essere la seconda e la terza, in cui lo scrittore si definisce semplicemente come “l’anziano”. Avendo già accennato alla prima, sebbene solo incidentalmente in relazione al quarto vangelo, e avendo ivi dichiarato la propria assoluta convinzione che essa era di origine giovannea, l’autore si sentì qui giustificato a limitarsi alle due lettere minori”. [xv]

 

In quanto all’apparente assenza di qualsiasi accenno alle lettere di Pietro, “L’ipotesi più probabile è quella che manchino alcune parole, forse un rigo, in cui [le lettere di] Pietro e l’Apocalisse di Giovanni erano menzionati fra i libri riconosciuti.”[xvi]

 

Infatti appare molto strana l’omissione della prima lettera di Pietro, riconosciuta invece da Ireneo, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Ippolito e da quasi tutti i Padri del tempo. Così come appare strana l’assenza della lettera agli Ebrei, in considerazione del fatto che il manoscritto Chester Beatty P46, datato alla fine del secondo secolo, la riporta insieme alle restanti lettere di Paolo.

 

Interessante notare inoltre come il Frammento indichi che alcuni libri (Pastore di Erma, Apocalisse di Pietro) per quanto utili, non dovevano essere letti in Chiesa “perché il fiele non può essere mescolato con il miele”.

 

Il Frammento Muratoriano parrebbe quindi una conferma che la maggior parte dei libri (forse tutti?) che oggi formano le Scritture Greche Cristiane erano già considerati canonici nel secondo secolo e che fosse più che mai viva l’opera censoria verso tutti quei libri che avrebbero potuto minare la verità kerygmatica così come ricevuta dagli apostoli e dai primi discepoli.

 

Conclusione

 

Le evidenze storiche ci portano quindi a concludere che “dalla fine del secondo secolo, sia in Occidente che in Oriente, il Nuovo Testamento era fissato nelle sue parti essenziali”[xvii]. Mentre dunque “la base era molto chiara, e questo sin dal primo secolo, c’era solo bisogno di una maturazione per i suoi aspetti marginali”[xviii]: riflessioni, discussioni, tentennamenti. E siccome l'origine apostolica era fondamentale, “furono ritenuti quei testi dei quali si potè provare la provenienza dai discepoli di Gesù. Così, alla fine del secondo secolo la scelta era finita”.[xix]

 

Se quindi al canone oggi in nostro possesso alcuni legano il concetto di “ufficialità” riconosciuta a partire dal quarto secolo (il primo a compilare un canone uguale a quello di oggi fu Atanasio di Alessandria in una lettera pasquale del 367) o al più tardi al concilio di Trento, possiamo senza dubbio introdurre il concetto di un “canone prima del canone”. Per dirla con le parole di Girardet, un “canone vivo”[xx], un “fiume” le cui acque della sorgente, quand’anche agitate, finirono molto presto con lo sfociare in un lago dove rimasero tranquille e stabili fino ai nostri giorni.

 

[i] B. Cardano, Introduzione al Nuovo Testamento, Ed. Claudiana 1991, p. 28

[ii] www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_appendix_decretum-can-script_lt.html

[iii] A.M. Bertrand, Protestantesime, p. 168, Je Sers 1931

[iv] http://it.wikipedia.org/wiki/Marcione

[v] Bibbia Nuova Riveduta, 1994

[vi] C.Fr. Moule, Le origini del N.T. , Brescia 1971, p. 249

[vii] Vangelo di Tommaso, verso 12 – Ed. Mondadori, 2005

[viii] Vedi 2 Tessalonicesi 2:3

[ix] Avvenire, 3 maggio 2006

[x] Ad Autolycum (XII, XIII).

[xi] The International Standard Bible Encyclopedia, a cura di G. W. Bromiley, 1979, vol. 1, p. 603

[xii] Si legge di Luca come del terzo Vangelo e di Giovanni come del quarto, si deve quindi supporre che nella parte oggi mancante si potesse leggere di Matteo come del primo e di Marco come del secondo vangelo.

[xiii] L’opinione generale è che la lettera agli Ebrei non sia stata scritta da Paolo in quanto priva di “titolatio”  e compilata con stile diverso da quello paolino. Ciò nonostante, B. F. Westcott osservò che “l’autorità canonica dell’Epistola è indipendente dal fatto che Paolo ne sia l’autore”. (The Epistle to the Hebrews, 1892, p. lxxi)

[xiv] G.M.Hahneman, The Muratorian Fragment and the Development of the Canon, Oxford University Press, 1992

[xv] The New Schaff-Herzog Enciclopedia of Religious Knowledge, 1956, pagg. 55-56

[xvi] Ibid.

[xvii] Grande enciclopedia illustrata della Bibbia, Ed. Piemme p. 252

[xviii] Ibid. p. 252, 254

[xix] Introduzione della Bibbia delle Paoline, 1965  - corsivo aggiunto

[xx] Girardet, Bibbia Perché, Roma, Ed. Claudiana, 1993



 

 

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