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ATTUALITà


N. 35 - Novembre 2010 (LXVI)

 i GERMOGLI RECISI
bambini vittime di mafia

di Giuseppe Tramontana

 

Quella che sto per raccontarvi non è una storia come le altre. E temo anche che sia una di quelle storie difficilmente sentite o lette.

 

Della mafia se n’è parlato e fortunatamente se ne continua a parlare in tutte le salse ed in tutte le svariate, possibili, barocche declinazioni. Bisogna farlo. È un dovere. È una questione di dignità, di umanità, di resistenza.

 

Se si è siciliani o meridionali- a rischio di apparire monomaniacali o fissati - il compito e dovere diventano più ponderosi, più impellenti. Senza deroghe o scusanti.

 

Proprio il 26 ottobre la piccola Denise Pipitone ha compiuto 10 anni. Ricordate? Denise scomparve (rapita?) il 1 settembre 2004. Da allora, tante voci, qualche insinuazione, inchieste aperte, chiuse e riaperte, ma nessuna certezza.

 

Ci piace pensare ostinatamente che Denise sia viva. E lo è senz’altro. Con i suoi begli occhioni neri, più alta, magari meno paffutella e con un enigma nel cuore. Ma non è di lei che voglio parlare. Denise mi ha rimandato ad altre storie, storie di bambini. Di bambini e di mafia.

 

Non è di Denise che voglio parlare. Ma degli altri. Di quelli che hanno guardato in faccia, anche se per un momento soltanto, l’inenarrabile.

 

Siamo al pomeriggio del 7 ottobre 1986, 24 anni fa. Un bambino di nome Claudio, Claudio Domino, sta passeggiando con un amichetto in via Fattori, quartiere di san Lorenzo, a Palermo. Si trova lì non per caso, visto che ad un paio di metri c’è la cartolibreria della madre.

 

Una moto accosta. Il motociclista, un giovane, lo chiama per nome. Claudio lascia l’amichetto e si avvicina. Non ha nemmeno il tempo di chiedere cosa voglia. L’uomo tira fuori una pistola e gli conficca un proiettile in fronte. Così, a bruciapelo, lasciando sul volto del bimbo un’espressione incredula, perplessa, come di chi non capisce il perché di un rimprovero, la promessa non mantenuta, l’errore che non ti aspetti nel compito in classe.

 

Oggi Claudio avrebbe 35 anni. Ma l’orologio della sua vita e dei suoi sogni si infranse quel pomeriggio di ventiquattro anni fa, su quel marciapiedi di San Lorenzo. Allora, lui, di anni, ne aveva solo undici. Undici. Ripetete: undici anni. Non vi si torcono le budella? Come farsi strappare un dente a carne viva.

 

Si parla subito di mafia, per quel delitto. E come non parlarne, in una città come Palermo. È il contesto, amico bello. I boss rinchiusi dietro le celle dell’aula bunker per il maxiprocesso prendono le distanze. Troppo squallore, troppo rumore e sgomento persino in una città abituata a digerire di tutto.

 

Ma un bambino no, un bimbo non si può. Giovanni Bontade, fratello di Stefano, chiede la parola e il Presidente Giordano gliela concede. “Noi condanniamo questo barbaro delitto – disse Bontade, mettendo mano ad una nota concordata con Pippo Calò ed altri galantuomini dietro le sbarre - che provoca accuse infondate verso gli imputati di questo processo.”

 

“Noi…” ha detto Bontade. Noi. Quel “noi”, intanto, non è un’implicita ammissione dell’esistenza, sempre negata, dell’organizzazione mafiosa siciliana?

 

Sì, secondo gli esperti. Una sorta di autogol. Clamoroso, storico, per certi versi. In base a quello che racconterà un pentito anni dopo, per quel “noi”, Bontade verrà ucciso. Anche se è più probabile che avesse pagato in questo modo la sua affiliazione alla cosiddetta “mafia perdente”, quella di cui era massimo esponente il fratello Stefano.

 

Ma torniamo ancora una volta al punto. Se non è stata la mafia, chi ha ucciso Claudio?

 

I carabinieri sembrano brancolare nel classico buio screziato di asfalto. Poi, la svolta. Qualcuno racconta ai militi il motivo dell’omicidio: Claudio avrebbe assistito, casualmente, al confezionamento di eroina in un magazzino vicino al negozio dei genitori. E, ad ucciderlo, sarebbe stato un tossicodipendente inviato da Salvatore Graffagnino, entrambi scovati e fatti fuori a tempi di record dagli uomini di Cosa Nostra.

 

La conferma avvenne nel 1994 da Salvatore Cancemi.

 

Tra molti – time out

 

Ma, purtroppo, Claudio non è stato l’unico né l’ultimo. Prima di lui altri bambini, ragazzini ci hanno rimesso la pelle. Bambini di pochi anni e ragazzini poco meno che adolescenti.

 

Maschi e femmine. Figli di boss e pastorelli, studenti e figli di gente normale, con genitori impiegati, insegnanti, casalinghe.

 

Quanti sono? Almeno una ventina.

 

Morti, uccisi per vendetta, per non lasciare testimoni scomodi o morti semplicemente per caso – ammesso che il caso esista. E già, perché in alcune zone d’Italia – è risaputo – si può morire più facilmente per caso, per una via del paese imboccata sovrappensiero o per un bus che arriva in ritardo.

 

Tu stai lì ad aspettare, pensando ai fatti tuoi, all’interrogazione andata così così e a quel fesso di prof. che ti ha fatto la domanda stronza e, zac!, sei falciato da un sventagliata di kalashnikov o colpito da un proiettile vagante o ti piomba addosso una macchina della scorta di un magistrato.

 

In alcuni posti accade. È accaduto. Ma è accaduto anche che dei ragazzini siano stati ammazzati come cani, o come boss, solo per aver fatto lo scippo alla persona sbagliata. O perché accidentalmente quello che si spaccia per il geometra tizio in realtà ha un’altra identità e questo cambio di nomi nasconde una latitanza…

 

Insomma, i casi sono tanti e, spesso, stravaganti.

 

Colpire il figlio per educare il padre

 

Di come sia morto Giuseppe Di Matteo, figlio del boss Santino, si sa praticamente tutto. Ma ricordarlo non nuoce: che non sia mai che l’oblio ci faccia vincere l’orrore, ci faccia digerire queste schifezze. Ricordare, bisogna. In ogni caso.

 

Giuseppe aveva 12 anni. Venne sequestrato diciotto mesi prima di essere ucciso. Quando venne strangolato era il novembre 1995. Venne strangolato e sciolto nell’acido.

 

Di lui non rimase nemmeno una ciocca di capelli, quei capelli morbidi, neri, lucenti, tenuti leggermente a caschetto che accompagnavano ritmicamente le sue galoppate in groppa al suo pony preferito. La sua unica colpa era quella di essere il figlio del boss Santino.

 

Ad ordinarne l’eliminazione fu Giovanni Brusca, subito dopo aver appreso di essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, delitto a cui aveva partecipato anche Santo Di Matteo. Almeno, in base alla ricostruzione dei fatti venne effettuata, nel 1996, da Giuseppe Monticciolo, uomo di Brusca, pentitosi all’indomani della cattura. Monticciolo raccontò di essere stato presente quando Brusca ed un complice strangolarono il bambino, in un casolare vicino san Giuseppe Jato.

 

Ma Monticciolo non fu l’unico a parlare di questa bestemmia contro la vita di un bimbo. Ne parlò anche un altro pentito, Pasquale Di Filippo, il quale raccontò come il killer Salvatore Grigoli gli avesse confidato di aver ucciso don Pino Puglisi e di aver partecipato al sequestro di Giuseppe.

 

Lo prelevarono per potere ricattare il padre che stava collaborando con la giustizia. Andarono a prenderlo al maneggio nei pressi di Monreale dove era solito recarsi per cavalcare il pony. Indossavano dei giubbetti della DIA e dissero al bambino che l’avrebbero accompagnato dal padre, che voleva vederlo.

 

Il bimbo sorrise e, tutto contento, sussurrò: “Sangue mio, sangue mio…. andiamo subito…” E non tornò mai più.

 

“Non è cinema”

 

Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro vennero trucidati come dei boss. Erano tutti di Catania ed avevano fatto una cosa che, in quella città, non si poteva nemmeno immaginare: avevano scippato inconsapevolmente la madre di Nitto Santapaola. Era il 13 aprile 1978. Giovanni e Riccardo avevano 15 anni, Lorenzo 14 e Benedetto, detto Nitto come il suo boia, appena 13.

 

Anche di questa strage si sa ormai tutto. L’ha raccontato il pentito Antonino Calderone. “La cosa più infame della mia vita” l’ha definita. E ne ha ben donde. I quattro ragazzini vennero rapiti e portati in una cascina presso Riesi, Caltanissetta, di proprietà del boss Giuseppe Di Cristina.

 

Non c’era stato verso di dissuadere Santapaola: dovevano morire, punto e basta. E così fu. I quattro vennero portati nel casolare. Uno era così piccolo – raccontò Calderone ai magistrati – che quasi ce lo dimenticavamo tra i sedili della macchina. Li presero e li strangolarono. Dopo, i corpi, li gettarono in un pozzo.

 

Pino Marchese, uno dei killer, raccontò a Calderone, di cui era anche cugino, che, in un caso, non aveva avuto il coraggio di stringere fino in fondo il laccio attorno alla gola e così il bambino era stato catapultato ancora vivo nel pozzo. Ingoiato vivo.

 

Tra morti. “Qualcuno – sbottò Calderone davanti a Pino Arlacchi - può dirmi, ora, se ci sono giudici in grado di giudicare noialtri? O se fa una cosa giustissima, lodevolissima, chi mi spara e mi ammazza non appena esco da questa stanza?

 

Come potevo restare ancora dentro quella congrega maledetta? Eppure ci sono rimasto ancora diversi anni. Con questa ferita, con questo macigno dentro di me che c’è ancora e ci sarà sempre. Ecco perché mi vergogno ogni volta che entro in chiesa: perché non ce la faccio ad alzare gli occhi. Non è cinema quello che racconto.” Già, non è cinema.

 

 

Quel giorno a Pizzolungo

 

A volte si muore per un caso assurdo, beffardo. Perché ci si trova al posto sbagliato, al momento sbagliato. O al posto giusto, ma nel momento sbagliato.

 

La mattina del 2 aprile 1985 la signora Barbara Asta uscì di casa assieme ai due gemellini Giuseppe e Salvatore, di 6 anni. La signora, di anni, ne aveva 38. Solitamente a quell’ora uscivano in quattro poiché con loro c’era anche la sorella maggiore, Margherita, di 11 anni.

 

Ma quel giorno Margherita, che frequentava la prima media e quindi un’altra scuola rispetto ai fratelli minori, era stata affidata ad un vicino di casa proprio perché la mamma era in ritardo sulla consueta tabella di marcia. A bordo della sua Volkswagen Scirocco azzurra la signora Barbara percorreva la strada di Pizzolungo, una mano al volante, un occhio allo specchietto retrovisore a controllare i due monelli che si agitavano, come al solito.

 

Era una bella giornata. Il cielo profondo, azzurro cobalto. L’aria tersa, corroborante, invitava a riempiersi i polmoni, a respirare la brezza marina che veniva da lì in fondo, da Favignana, da Marettimo. Le due isolette sbucavano dal mare. Sembrava che si potessero afferrare in un pugno o raggiungere con due bracciate.

 

Il sole caldo, dolcemente accondiscendente, si appoggiava sulla nuca come per una carezza, una carezza e un incoraggiamento: non aver paura, sono con te e mi ritroverai qui ad aspettarti, qualunque cosa tu stia per fare.

 

Ad un tratto si udirono le sirene di una scorta. Niente di straordinario. La signora rallentò ed accostò al bordo della carreggiata per lasciarla passare. La manovra non riuscì del tutto. Proprio in quel punto, al bordo della strada, era parcheggiata un’utilitaria. La Scirocco l’affiancò. Sul lato sinistro, l’auto del giudice Carlo Palermo stava per superarla e, in quel momento, si aprì la bocca dell’Inferno.

 

L’utilitaria era un’autobomba. La Volkswagen venne sventrata, dilaniata, facendo da scudo inconsapevole al giudice di passaggio. Vennero raccolti resti umani nel raggio di centocinquanta metri. Un grumo di essere umano andò a macchiare di rosso la facciata del palazzo di fronte. La mafia di Trapani aveva condannato a morte il giudice Carlo Palermo per le sue indagini sui trafficanti di droga e di armi. Ma lui fu ferito solo leggermente.

 

Aspettando il bus

 

Biagio e Giuditta, invece, si trovavano al posto giusto, ma al momento sbagliato. Sbagliatissimo. Il posto giusto era quello sotto la pensilina dove prendevano il bus per tornare a casa, dopo la scuola. Erano entrambi due studenti del Liceo “G. Meli”.

 

Biagio aveva 14 anni, Giuditta 17. Non avevano nessuna colpa, se non quella di aspettare l’autobus alla solita ora, le 13.40. In lontananza si udì il fischio intermittente delle sirene di alcune auto scorta. A bordo c’erano i giudici Leonardo Guarnotta e Paolo Borsellino, del pool antimafia.

 

All’incrocio con piazza Croci, il conducente di una macchina bianca non si accorse del segnale di stop di un vigile: si arrestò un metro avanti. La prima Alfetta non fece in tempo: l’impatto fu inevitabile.

 

La carambola sbalzò l’auto di scorta sulla piccola folla in attesa del bus. Biagio Siciliano morì sul colpo, Giuditta Milella, figlia di un dirigente della polizia, spirò dopo una settimana di agonia. Altri venti ragazzi vennero ricoverati in vari ospedali e uno, Pierluigi Lo Monaco, restò in rianimazione per parecchie settimane, poi si salvò. Il contesto, il cotesto incise. E uccise.

 

Quando il caso determina il destino

 

E 17 anni aveva Graziella Campagna quando venne ammazzata a Forte Campone, una collina sopra Messina.

 

Era il 12 dicembre 1985. Graziella lavorava come stiratrice nella lavanderia la “Regina”, a Villafranca Tirrena, un paese poco distante. Guadagnava 150mila lire al mese, al nero, e così aiutava la famiglia: padre, madre e 7 fra fratelli e sorelle.

 

La sera del 12 dicembre del 1985, intorno alle 20, mentre aspettava l’autobus che l’avrebbe riportata a casa, a Saponara, venne fatta salire su un’auto e portata a Forte Campone. Pochi chilometri di viaggio, sotto una pioggia battente, lungo una strada sterrata, piena di buche come la superficie lunare, ma lontana dalle luci del paese.

 

Su quel prato, i piedi affogati nel fango, le spararono frontalmente, a una distanza di meno di due metri: cinque colpi di fucile a canne mozza. I pallettoni la colpirono al braccio con il quale tentò di ripararsi, al viso, allo stomaco, alla spalla. Quando era già a terra la finirono con un ultimo colpo alla testa. Graziella aveva indosso un giubbotto rosso, una maglia a righe, un paio di pantaloni neri e gli stivaletti. Aveva con sé una borsetta che non fu mai ritrovata. Fu un’esecuzione.

 

Nessuno ha saputo mai dire il perché di quell’accanimento bestiale. Il cadavere di Graziella fu ritrovato due giorni dopo. Un giovane medico, durante una passeggiata con la famiglia, scoprì il corpo. Erano le quattro del pomeriggio quando, insieme con la polizia arrivò Piero Campagna, il fratello carabiniere che fece il riconoscimento.

 

Graziella era distesa su un fianco con le braccia raccolte al petto. Il suo orologio era fermo alle 9 e 12. A quell’ora aveva lasciato questo mondo.


L’autopsia accertò che Graziella non era stata né violentata né picchiata e non aveva bevuto o ingerito nessun tipo di sostanza: era lucida, cosciente e consapevole.

 

Dopo 19 anni da quel delitto la Corte di Assise di Messina condannò all’ergastolo, per quel delitto, due mafiosi, ex latitanti: Gerlando Alberti jr., nipote di Gerlando Alberti, detto “U paccarè”, e Giovanni Sutera, con precedenti accuse di omicidio e tentata rapina sul groppone.

 

Insieme a loro, con l’accusa di favoreggiamento, vennero condannate a due anni di galera la titolare della lavanderia, Franca Federico, e la collega di lavoro Agata Cannistrà.

 

Resta una domanda: perché uccidere una ragazzina di 17 anni e in quel modo, poi? Graziella Campagna, qualche giorno prima del fatidico 12 dicembre, aveva tirato fuori un’agendina dalla camicia sporca che Gerlando Alberti jr. aveva consegnato in lavanderia.

 

Per lei, quell’uomo che veniva spesso in lavanderia era un ingegnere e si chiamava Eugenio Cannata. Insieme a lui, c’era sempre il cugino, Gianni Lombardo, geometra, in realtà Giovanni Sutera. Due latitanti che ormai da mesi vivevano indisturbati in quella zona della provincia messinese, tra amici e protettori. La provincia “babba” era un ottimo posto in cui godersi la latitanza come una vacanza. Basta poco. Ad esempio, una nuova identità.

 

Detto, fatto. Alberti divenne l’ingegner Cannata e Sutera il geometra Lombardo. Graziella tutto questo non lo poteva sapere. Per lei, quella era soltanto una camicia da lavare e da controllare prima di infilarla in lavatrice. Ma trovò l’agendina. Non sappiamo neanche se l’aprì e se si rese conto di quanto aveva scoperto. Ma, in fondo, questo non ha molta importanza.

 

La cosa importante è che i suoi assassini credettero che Graziella li avesse scoperti. E con un fratello carabiniere…. Quando Gerlando Alberti si accorse di aver lascato l’agenda nella tasca della camicia, spedì di corsa Sutera a recuperarla. Il “cugino” latitante tornò soltanto con un portadocumenti rosso e una foto di Giovanni XXIII.

 

E l’agendina? Così fu deciso il destino di Graziella. Lei non lo sapeva, ma aveva visto ciò che non doveva vedere.

 

“Vi ho riconosciuti!”

 

Ida Castellucci aveva 20 anni. Venne uccisa insieme al marito Antonio Agostino. Si erano sposati due mesi prima. Assistette al suo assassinio mentre tornava dal mare, il 5 agosto 1989. Ai killer gridò: “Vi ho riconosciuti!”

 

E così firmò anche la propria condanna a morte. Morì così. Con una mano allungata verso il corpo del marito e una sul grembo come a proteggerselo: era incinta di tre mesi.

 

La punizione

 

Come Claudio Domino, anche Angelo Selvaggio venne ucciso a 11 anni. “Selvaggio di nome e di fatto…” borbottavano gli adulti, guardandolo e scuotendo il capo.

 

Eh sì, perché Angelo era un demonietto. Orfano di padre, viveva con la madre a Sciara, il paese di Salvatore Carnevale. Era uno di quei bambini di cui i maestri o i professori dicono: “è intelligente, è furbo, è perspicace, ma ha l’argento vivo addosso!”

 

La madre Santina Rizzo ne aveva denunciato la scomparsa il 23 gennaio 1990. Due giorni dopo venne trovato sotto un cespuglio all’ingresso del paese: era stato ucciso a coltellate per avere rubato due pecore.

 

Da sola non ci sto

 

Anche Rita Atria è da annoverare tra le vittime della mafia. Sorella e figlia di due uomini d’onore ammazzati a Partanna, Trapani, si ribellò alla sua condizione di donna passiva, votata al silenzio ed alla rassegnazione.

 

Conobbe Paolo Borsellino e con lui si confidò, raccontò il mondo in cui era cresciuta e dal quale voleva fuggire. Insieme alla cognata Piera Aiello fu costretta ad andare via dalla Sicilia: a Roma, in un anonimo palazzone dell’Eur. E non era solo una distanza fisica.

 

La sua famiglia, la madre Giovanna Cannova non accettarono mai l’idea che la ragazza si fosse confidata con gli ‘sbirri’, i nemici del figlio e del marito uccisi (uccisi da altri mafiosi, però). Anzi, nel Natale del 1991, quando ancora la notizia della collaborazione non era ufficiale, la madre le disse, chiaro e tondo: “se scopro che collabori con gli sbirri, ti faccio fare la fine di tuo fratello Nicola…. Ci penserò io stessa a parlare con le persone conosciute e fidate.”

 

Quando, il 19 luglio 1992, Rita seppe della morte del giudice Borsellino venne risucchiata dallo sconforto: “non ci proteggerà più nessuno”, disse alla cognata. E una settimana dopo, il 26 luglio, la fece finita, gettandosi dalla terrazza della casa romana.

 

Ai suoi funerali, a Partanna, non partecipò nessuno: nemmeno la madre. La quale, anzi, qualche tempo dopo, venne sorpresa mentre, a colpi di martello, cercava di distruggere la tomba della figlia, al cimitero del paese. Quando si dice cuore di mamma…

 

Alla porta sbagliata

 

Di tanti altri, invece, nessuno sembra più ricordarsi. Uccisi e ingombranti. Bambini, esseri umani poco più o poco meno che adolescenti di cui si è persa ogni traccia nella memoria. Facciamolo noi un piccolo sforzo.

 

Giuseppe Letizia aveva 14 anni. Era un pastorello di Corleone. Si racconta che abbia assistito, il 2 agosto 1948, all’omicidio del medico palermitano Francesco Russo, il quale aveva chiesto un passaggio al dottor Giuseppe Navarra, capomafia incontrastato di Corleone e direttore dell’ospedale dei Bianchi della stessa cittadina.

 

Ad un certo punto, appena fuori il paese, la macchina di Navarra si fermò e Russo venne ucciso. Casualmente assistette alla scena il piccolo Giuseppe, il quale, terrorizzato, corse in paese per avvertire qualcuno. Bussò ad alcune porte prima che qualcuno gli desse retta. Sfortunatamente per lui, bussò anche a quella del dottor Navarra, l’assassino di Russo. Per calmarlo, il buon medico gli fece un’iniezione. Letale.

 

Una fine così…

 

Anna Prestigiacomo aveva 15 anni quando venne fulminata da diversi colpi di fucile, nel rione San Lorenzo, a Palermo. Era il 26 giugno 1959.

 

La sorellina, Rosetta, di 11 anni, riconobbe in Michele Cusimano, un vicino di casa, il killer. Cusimano venne arrestato con il padre Girolamo. Al processo si scoprì che vari rancori dividevano le due famiglie.

 

Tra l’altro Cusimano aveva chiesto in moglie Graziella Trapani, zia materna di Anna, ottenendone un rifiuto. Venne a galla anche che, tredici anni prima, il padre di Anna, Francesco, aveva convinto Cusimano a costituirsi ai carabinieri dopo un conflitto a fuoco. E così era stato bollato come un “confidente dei carabinieri”.

 

In primo grado Cusimano venne assolto con tanto di baci e abbracci da parte del suo avvocato, il principe del foro palermitano, nonché deputato alla camera e sottosegretario alla Difesa Giacomo Bellavista.

 

Ma in appello le cose andarono diversamente. Cusimano vene condannato, seppur con il riconoscimento di alcune attenuanti. Perché, in Sicilia, per chi non lo sapesse, uccidere a freddo a colpi di pistola una ragazzina di quindici anni può presentare delle attenuanti!

 

Giocando, senza un perché

 

Sempre nel 1959, il 19 settembre, cadde Giuseppina Savoca, di 12 anni. Stava giocando sotto casa, in via Messina Marine, a Palermo, quando venne raggiunta da un proiettile vagante. L’obiettivo dell’agguato era Filippo Drago, un pregiudicato di 51 anni, proprietario di una profumeria. Giuseppina morì subito.

 

Chi c’entra, c’entra

 

Passò un mese ed a cadere furono i fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro, rispettivamente di 10 e 19 anni. Rimasero vittime della cosiddetta “strage di Godrano”, il 26 ottobre 1959. Nell’attacco vennero feriti anche il padre Francesco e il compaesano Demetrio Pecorino.

 

I killer – i fratelli Francesco e Salvatore Maggio – si erano nascosti, travestiti da carabinieri, nella casa disabitata di Agostino Barbaccia, vicino dei Pecoraro. Fecero irruzione a casa delle vittime e cominciarono a sparare. In casa c’erano Francesco, il padre, la moglie Francesca ed il bambino Antonio, oltre che Demetrio Pecorino.

 

I colpi di fucile e lupara raggiunsero Pecorino alle gambe e Francesco e Antonino al torace. Il bambino sarebbe morto due giorni dopo. Udendo gli spari, l’altro figlio, Vincenzo, che in quel momento si trovava nella stalla, accorse, ma venne falciato pure lui. I killer avrebbero fatto carriera, portando a temine numerosi delitti e agguati nel palermitano e nel trapanese.

 

Un destino segnato

 

Faceva molto freddo il 19 gennaio 1961 sulle pendici del monte Billemi, a Tommaso Natale, borgata di Palermo. Stava quasi per nevicare. Ma ciò non scoraggiò i killer del tredicenne Paolino Riccobono. I primi due colpi lo raggiunsero al petto. Lui tentò di scappare, ma altre due fucilate alle spalle lo stesero definitivamente. Era un predestinato Paolino. Il padre era stato ucciso il 16 novembre 1957, suo fratello Giuseppe era stato sequestrato ed ucciso nel 1960. Uno sterminio frutto della faida, che andava avanti dal 1953, tra le famiglie di Tommaso Natale e di Cardillo.

 

Nel ’66, un pentito ante litteram, Simone Mansueto, dichiarò di conoscere i nomi degli assassini del piccolo Paolino. Venne insultato, vituperato, emarginato persino dalla moglie e dichiarato pazzo.

 

Molti anni dopo lo si vedeva andare al Palazzo di Giustizia per chiedere qualche spicciolo a Cesare Terranova, uno dei pochi che aveva creduto alla sua versione. Di lui si è persa ogni traccia. Per l’uccisione di Paolino venne condannato a trent’anni Giovanni Chifari, soprannominato “crozza munnata” (cranio sbucciato, spoglio).

 

Due, ma come se fossero mille

 

A margine, val la pena ricordare altri due ragazzi. Anzi due giovani uomini. Entrambi ventiseienni, entrambi figli di piccoli imprenditori, entrambi uccisi mentre si trovavano in macchina con le rispettive fidanzate ed entrambi ammazzati nel gennaio 1986, ad otto giorni di distanza l’uno dall’altro: prima Paolo Bottone e poi Francesco Alfano.

 

Paolo venne freddato il 21 gennaio 1986. Era figlio di un imprenditore di un’azienda metalmeccanica. Si era appartato con la fidanzata, Angela D’Amelio, in via De Saliba, vicino all’ufficio di collocamento. Era un posto noto perché frequentato da coppiette.

 

Due uomini armati si avvicinarono all’auto, aprirono lo sportello di guida e puntarono le pistole contro i due fidanzati. Poi uno dei due si rivolse alla ragazza: “tu non muoverti – le disse – voltati e non guardare.”

 

L’altro sparò un colpo secco al collo di Paolo. Che morì immediatamente. Angela, illesa, si gettò sul corpo del fidanzato, poi scese in cerca di aiuto, intanto le altre coppiette erano fuggite.

 

Perché venne ucciso Paolo? Gli inquirenti seguirono la pista degli appalti: il padre forse si era aggiudicato qualche commessa che non avrebbe dovuto vincere. Chissà.

 

Nei giorni successivi, i muri di Palermo furono tappezzati da manifesti con la foto dei due fidanzati abbracciati e un messaggio che offriva una ricompensa per chiunque fornisse elementi per far luce sul delitto.

 

Erano stati affissi dal padre, ma nessuno si fece vivo. E nessuno ha mai pagato per quel delitto.

 

Stessa dinamica e stessa tecnica servirono per eliminare Francesco Alfano. Era il 29 gennaio dello stesso 1986. Francesco era andato a trovare la fidanzata Germana Ferreri all’Addaura, residenza estiva della famiglia di lei.

 

Aveva appena finito di allenare la sua squadretta di calcio, la Virma. Quando decisero di uscire per una passeggiata in centro, salirono sulla Seat Ibiza di Francesco, parcheggiata in via Gualtiero da Caltagirone. Fu allora che dal buio spuntò un uomo che si avvicinò alla vettura e sparò quattro colpi di pistola contro il finestrino lato guida. Francesco non morì subito.

 

Il killer infilò una mano ed esplose altri colpi per finirlo. Anche Germana venne ferita. Gli spari richiamarono l’attenzione del padre della ragazza, Ippolito, che corse in strada e trovò la forza per soccorrere la figlia e trasportarla in ospedale. Francesco era già morto. Come Paolo era un ragazzo normale, pulito, attivo. Il padre era titolare di una piccola industria del ferro. Francesco lavorava in proprio. Era stato rappresentante di vini e di articoli di cuoio e dava una mano come cameriere nel ristorante del padre di Germana. E poi il suo hobby: il calcio e la squadretta che allenava con serietà e passione. Anche per il suo omicidio non si sono trovati killer e mandanti.

 

Basta un ricordo

 

Morire è tremendo, ma l’idea di morire senza avere nemmeno vissuto dovrebbe essere insopportabile. O no?

 

Eppure i vivi dimenticano. Dimenticano tutto. Dimenticano che spesso i bambini, i ragazzi periti, uccisi, massacrati, erano solo innocenti che non temevano e vedevano pericoli perché non conoscevano peccati e malizia.

 

Oggi, questa umanità recisa prematuramente da certe mani assassine avrebbe 35, 40, forse anche 50 anni.

 

Ma cosa avrebbe potuto costruire nel corso di questa vita non vissuta? A quanta felicità, amore, dolore, a quanti patemi, soddisfazioni, desideri hanno dovuto rinunciare? A quante persone avrebbero potuto essere utili, da quante amate, coccolate, sognate?

 

Chissà. Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio, la gelosia o la vendetta, ma l’indifferenza.

 

È questa l’essenza dell’inumanità. E noi non vogliamo esserne complici.


 

 

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