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Michail Alexandrovič bakunin, dio e lo stato

 

(nota: tratto da "Dio e lo Stato", Edizioni “RL”, Pistoia 1974)


Dio appare, l'uomo si annienta; e più la Divinità si fa grande, più l'umanità diventa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni: ecco l’effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni divine. Nella storia, il nome di Dio è la terribile vera clava con la quale tutti gli uomini divinamente ispirati, i "grandi geni virtuosi", hanno abbattuto la libertà, la dignità, la ragione e la prosperità degli uomini.
Abbiamo avuto prima la caduta di Dio. Abbiamo ora una caduta che c'interessa assai più: quella dell’uomo, causata dalla sola apparizione di Dio o manifestazione sulla terra. Vedete dunque in quale orrore profondo si trovano i nostri cari ed illustri idealisti. Parlandoci di Dio, essi credono e vogliono elevarci, emanciparci, nobilitarci, ed al contrario ci schiacciano e ci avviliscono. Col nome di Dio, essi immaginano di poter edificare la fratellanza fra gli uomini, ed invece creano l’orgoglio e il disprezzo, seminano la discordia, l’odio, la guerra, fondano la schiavitù.
Perché con Dio vengono necessariamente i diversi gradi d’ispirazione divina; l’umanità si divide in uomini ispiratissimi, meno ispirati, non ispirati.
Tutti sono egualmente nulla davanti a Dio, è vero, ma confrontati, gli uni agli altri, alcuni sono più grandi degli altri; non solamente di fatto, ciò che non avrebbe importanza perché una ineguaglianza di fatto si perde da se stessa nella collettività quando non può afferrarsi ad alcuna finzione o istituzione legale; ma alcuni sono più grandi degli altri per volere del diritto divino dell’ispirazione: il che costituisce subito una in eguaglianza fissa, costante, pietrificata.
I più ispirati devono essere ascoltati ed obbediti dai meno ispirati e questi dai non ispirati.
Ecco il principio di autorità ben stabilito e con esso le due istituzioni fondamentali della schiavitù: la Chiesa e lo Stato.

Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono anch'essi liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è invece la condizione necessaria e la conferma. Divento veramente libero solo con la libertà degli altri, di modo che più numerosi sono gli esseri liberi che mi circondano e più estesa e più ampia diventa la mia libertà.
La schiavitù degli uomini, al contrario, è di ostacolo alla mia libertà, o, ciò che è la stessa cosa, è la loro bestialità che è una negazione della mia umanità perché ancora una volta non posso dirmi veramente libero se non quando la mia libertà o, se si vuole, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano (il quale consiste nel non ubbidire a nessun altro uomo ed a determinare le mie azioni conformemente alle mie intime convinzioni) riflessi dalla coscienza egualmente libera di tutti, mi ritornano raffermati dall’approvazione di tutti.
In tal modo la mia libertà personale, assicurata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito.


E’ facile constatare, dunque, che la libertà, così come viene concepita dai materialisti, è una cosa assai positiva, assai complessa e soprattutto sociale, perché non può essere realizzata che dalla società e soltanto nella più stretta uguaglianza e solidarietà di ciascuno con tutti. In questa libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo, tre elementi, di cui il primo, che è superlativamente positivo e sociale, consiste nel pieno sviluppo e nel pieno godimento, per ciascuno, di tutte le facoltà e di tutte le attitudini umane attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, beni questi che possono essere dati solo dal lavoro collettivo, materiale ed intellettuale, muscolare e cerebrale, dell’intera società.
Il secondo elemento o momento della libertà è negativo.
E’ quello della rivolta dell’individuo umano contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale. Innanzitutto è la rivolta contro la tirannia del fantasma supremo della teologia, contro Dio. E’ evidente che sino a quando avremo un padrone in cielo, saremo schiavi sulla terra. La nostra ragione e la nostra volontà saranno ugualmente annientate.
Sino a quando crederemo di dovere obbedienza assoluta a Dio - e non esiste altra obbedienza di fronte ad un Dio - dovremo necessariamente ed acriticamente sottometterci alla santa autorità dei suoi intermediari e dei suoi eletti: messia, profeti e legislatori ispirati da lui; imperatori, re e tutti i loro funzionari e ministri, rappresentanti e sacri servitori delle due grandi istituzioni - la Chiesa e lo Stato - imposte perché stabilite dallo stesso Dio per dirigere gli uomini.
Ogni autorità temporale o umana promana direttamente dall’autorità spirituale o divina. Ma, poiché l’autorità è la negazione della libertà, Dio, o piuttosto, la finzione di Dio, è quindi la consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla terra, e la libertà degli uomini sarà piena solo allorquando essa avrà completamente distrutto la nefasta finzione di un padrone celeste.
Successivamente e conseguentemente c’è la rivolta di ciascuno contro la tirannia degli uomini, contro l’autorità sia individuale e sia sociale rappresentata e legalizzata dallo Stato. A questo punto, per meglio intendersi, è bene fare una netta distinzione tra l’autorità ufficiale e di conseguenza tirannica, della società organizzata in Stato, e l’influenza e l’azione naturale della società non ufficiale, ma naturale su ciascuno dei suoi membri.


Per l’individuo la rivolta contro questa influenza naturale della società è molto più difficile della rivolta contro la società ufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene spesso la prima rivolta sia tanto inevitabile quanto lo è la seconda. La tirannia sociale, spesso opprimente e funesta, non presenta quel carattere di violenza imperativa, di dispotismo legalizzato e formale che distingue l’autorità dello Stato. Essa non viene imposta come una legge alla quale ogni individuo deve obbedire sotto pena d’incorrere in un castigo; la sua azione è più mite, più insinuante, più impercettibile, ma tanto più vigorosa di quella dell’autorità dello Stato. Essa domina gli uomini con le consuetudini, le usanze, con l’insieme dei sentimenti, dei pregiudizi e delle abitudini della vita materiale, intellettuale, affettiva e che costituiscono ciò che viene chiamata la pubblica opinione.
Essa avviluppa l’uomo dalla sua nascita, lo ferisce profondamente, lo penetra e forma la base stessa della sua esistenza individuale, cosicché ciascuno ne è più o meno ed in certo qual modo il complice contro se stesso e, molto spesso, senza che ne abbia il sospetto.


Ne deriva che, per ribellarsi contro questa influenza che la società esercita sopra di lui, l’uomo deve almeno in parte ribellarsi contro se stesso, giacché, con tutte le sue tendenze e le sue aspirazioni materiali, intellettuali e morali, esso non è altro che il prodotto della società. L’immenso potere esercitato sugli uomini dalla società deriva appunto da ciò. Dal punto di vista della morale assoluta, cioè da quello del rispetto umano - e dirò tra poco che cosa io intenda con questa espressione - questo potere della società può essere benefico oppure anche nocivo. E’ benefico quando tende allo sviluppo del sapere, della prosperità materiale, della libertà, dell’uguaglianza e della fraterna solidarietà degli uomini; è dannoso quando ha inclinazioni contrarie.
Un uomo nato in una società di bruti, resta, salvo rarissime eccezioni, un bruto; nato in una società governata dai preti, diventa un idiota, un bigotto; nato in una banda di ladri diventerà probabilmente un ladro; nato nella borghesia, sarà uno sfruttatore del lavoro altrui; e se ha la sfortuna di nascere nella società dei semidei che governano questa terra - nobili, principi, figli di re - sarà, a seconda delle sue capacità, dei suoi mezzi e delle sue forze, uno spregiatore, un oppressore dell’ umanità, un tiranno.
In tutti questi casi, l’umanizzazione dell’individuo, la sua ribellione contro la società che lo ha visto nascere diviene indispensabile.
Ma, ripeto, la ribellione dell’individuo contro la società è ben più difficile della sua ribellione contro lo Stato.


Lo Stato, infatti, è una istituzione storica, transitoria, una forma effimera della società - allo stesso modo della Chiesa, di cui lo Stato è il fratello primogenito - e non ha il carattere fatale ed immutabile della società, la quale è anteriore a tutti gli sviluppi dell’umanità e che, essendo pienamente partecipe delle leggi, dell’azione e delle manifestazioni naturali, costituisce la base stessa di ogni umana esistenza. L'uomo, almeno dopo che ha fatto il primo passo verso l’umanità, dopo che ha incominciato a divenire un essere umano, cioè un essere più o meno parlante e pensante, nasce nella società, come la formica nasce nel suo formicaio e l’ape nel suo alveare; l’uomo non sceglie la società, ne è, al contrario, il prodotto ed è quindi anche fatalmente sottoposto alle leggi naturali che presiedono ai suoi sviluppi necessari, così come obbedisce a tutte le altre leggi naturali.
La società, come la natura, è anteriore e contemporaneamente sopravvive a ciascun individuo umano; essa è eterna come la natura; o, meglio, dato che è nata sulla terra, essa durerà tanto quanto durerà la nostra terra.


Una rivolta radicale contro la società sarebbe altrettanto impossibile quanto una rivolta contro la natura, giacché la società umana non è altro che l’ultima grande manifestazione o creazione della natura su questa terra; e un individuo che volesse mettere in dubbio la società, cioè la natura in generale e specialmente la propria natura, si porrebbe per ciò stesso al di fuori di tutte le condizioni di una esistenza reale, si getterebbe nel nulla, nel vuoto assoluto, nella morta astrazione, in Dio.
Non ci si può quindi chiedere se la società sia un bene o un male, allo stesso modo come è impossibile chiedere se la natura, l’essere universale, materiale, reale, unico, supremo, assoluto, sia un bene o un male; è più del bene e del male, è un immenso fatto positivo e primitivo anteriore ad ogni coscienza, ad ogni idea, ad ogni apprezzamento intellettuale e morale, è la base stessa, è il mondo in cui fatalmente e successivamente si sviluppa per noi ciò che chiamano il bene e il male. Non è così per lo Stato e non esito a dire che lo Stato è il male, ma un male storicamente necessario, tanto necessario nel passato quanto sarà prima o poi necessaria la sua estinzione, tanto necessario quanto necessarie sono state la bestialità primitiva e le divagazioni teologiche degli uomini.


Lo Stato non è la società, ne è solo una forma tanto violenta quanto astratta. Lo Stato è sorto storicamente in tutti i paesi dal connubio della violenza, della rapina, del saccheggio, cioè della guerra e della conquista, con gli Dei creati successivamente dalla fantasia teologica delle nazioni.
Sin dalle origini, lo Stato ha rappresentato, e rappresenta ancora attualmente, la sanzione divina della forza brutale e dell’iniquità trionfante. Ed anche nei paesi più democratici, come gli Stati Uniti d’America e la Svizzera è la consacrazione normale del privilegio d’una qualsiasi minoranza e del reale asservimento dell’immensa maggioranza.
La rivolta è molto più facile contro lo Stato perché c’è nella natura stessa di esso qualcosa che spinge alla rivolta. Lo Stato è l’autorità, è la forza, è l’ostentazione e l’esaltazione della forza.
Esso non si insinua dolcemente, né cerca di trasformare: e tutte le volte che esso tenta di farlo, lo fa con grande sgarbataggine, giacché la sua natura non è quella di persuadere, ma d’imporsi, di usare violenza, e vana risulta la preoccupazione di mascherare la sua essenza sia di manomissore legale della volontà degli uomini e sia di negatore permanente della loro libertà.
Anche quando comanda il bene, esso lo deprime e lo guasta, appunto perché lo impone e perché ogni imposizione provoca e suscita le legittime ribellioni della libertà; e perché il bene quando viene imposto, dal punto di vista della vera morale umana e non già divina, diventa il male.


La libertà, la moralità e la dignità umana sono tali solo in quanto l’uomo fa il bene non perché gli viene imposto, ma perché lo sente, perché lo vuole, perché lo desidera.
La società, invece, non viene imposta formalmente, ufficialmente, autoritariamente, ma s’impone naturalmente ed è appunto per questo motivo che la sua azione sull’individuo è incomparabilmente più potente di quella dello Stato. Essa crea e forma tutti gli individui che nascono e si sviluppano nel suo seno. Essa travasa nei singoli, dal primo giorno della nascita fino a quello della loro morte, tutta la sua natura materiale, intellettuale e morale, e s’individualizza, per così dire, in ciascuno di essi.
L’individuo umano reale è così poco un essere universale ed astratto che ciascuno, sin dal momento in cui si forma nel ventre materno, si trova già determinato e condizionato da una quantità di cause e di azioni materiali, geografiche, climatologiche, etnografiche, igieniche e, conseguentemente, economiche, che costituiscono precisamente la natura materiale esclusiva e particolare della sua famiglia, della sua classe, della sua nazione, della sua razza, e, per quanto le inclinazioni e le attitudini degli uomini dipendano dall’insieme di tutte queste influenze esteriori o fisiche, ciascuno nasce con una natura o un carattere individuale materialmente determinato.
Inoltre, a causa dell’organizzazione relativamente superiore del cervello umano, ogni uomo, nascendo, possiede d’altronde gradi diversi, non di idee e di sentimenti innati come pretendono gli idealisti, ma di capacità, sia materiale che formale, di sentire, di parlare e di volere.


L’uomo porta con sè soltanto la facoltà di formare e di sviluppare le idee, nonché, per come dirò, un potere di attività del tutto formale, senza alcun contenuto. Ed è precisamente la società che dà a questa sua attività il primo contenuto.
Non è questa la sede più opportuna per ricercare come si siano formate le prime cognizioni e le prime idee, la maggior parte delle quali furono naturalmente assai false nelle società primitive. Tutto ciò che possiamo dire con piena certezza è che esse non sono state generate isolatamente, spontaneamente dalla mente miracolosamente illuminata di individui ispirati, bensì dal lavoro collettivo, il più delle volte impercettibile, della mente di tutti gli individui che appartennero a quelle società; di quelle idee gli individui più ragguardevoli, gli uomini di genio, han potuto dare soltanto la più fedele o la più fortunata espressione, in quanto gli uomini di genio, hanno fatto sempre come Molière, cioè “hanno preso il loro bene dovunque essi lo trovassero”.
E’ quindi il lavoro collettivo delle società primitive che ha creato le prime idee. Dapprima, queste idee furono soltanto semplici constatazioni, naturalmente assai imperfette, dei fatti naturali e sociali, e deduzioni ancor meno esatte derivate da quei fatti. Tale fu l’inizio di tutte le rappresentazioni, immaginazioni e pensieri umani.
Il contenuto di questi pensieri non è stato creato da un’azione spontanea dello spirito umano, bensì fu dato dapprima a quest’ultimo dal mondo reale sia esteriore che interiore.


Allo spirito dell'uomo, cioè al lavoro o al funzionamento completamente organico e, di conseguenza, materiale del suo cervello, provocato dalle impressioni tanto esterne che interne trasmessegli dalle sue fibre, si aggiunse un’azione del tutto formale, consistente nel comparare e nel combinare queste impressioni delle cose e dei fatti in sistemi esatti o falsi.
Così nacquero le prime idee. Queste idee o, meglio, queste prime immaginazioni si precisarono per mezzo della parola e si fissarono comunicandosi da un individuo umano all’altro, per modo che le immaginazioni individuali, di ciascuno si modificarono, si completarono scambievolmente e, mescolandosi più o meno in un sistema unico, finirono col formare la coscienza comune, il pensiero collettivo della società.
Questo pensiero, tramandato attraverso la tradizione da una generazione all’altra, e sviluppandosi sempre di più col lavoro intellettuale dei secoli, costituisce il lavoro intellettuale e morale d'una società, d'una classe, d'una nazione.
Ogni generazione nuova trova già nella sua culla tutto un mondo d'idee, d’immaginazioni e di sentimenti che essa riceve in eredità dai secoli passati.


All’uomo novellamente nato, questo mondo dapprima non si presenta sotto la sua forma ideale, cioè come sistema di rappresentazioni e d'idee, come religione, come dottrina, giacché il bambino sarebbe incapace di accettarlo e comprenderlo sotto questa forma; ma s’impone a lui come un mondo di fatti incarnato e realizzato sia nelle persone e sia in tutte le cose che lo circondano comunicando ai suoi sensi tutto ciò che egli ode e vede sin dai primi giorni della sua esistenza. E ciò perché le idee e le rappresentazioni umane (le quali dapprima sono soltanto i prodotti dei fatti reali, sia naturali e sia sociali, nel senso che ne sono stati il riflesso o l’eco nel cervello umano e la riproduzione per così dire ideale e più o meno esatta di questi fatti a mezzo di quell’organo assolutamente materiale del pensiero umano) acquistano nella coscienza collettiva di una qualsiasi società solo successivamente, dopo che sono ben fissate nel modo che sto per spiegare, la forza per divenire a loro volta cause produttive di fatti nuovi, non precisamente naturali, ma sociali.


Esse finiscono per modificare e per trasformare, sia pure molto lentamente, l’esistenza, le abitudini e le istituzioni umane, cioè, in breve, tutti i rapporti degli uomini nella società e, con la loro incarnazione nelle cose più quotidiane della vita di ognuno, esse diventano sensibili, palpabili per tutti, anche per i bambini.
Avviene così che ogni nuova generazione se ne compenetra sin dalla più tenera infanzia e che, quando perviene all’età virile, in cui inizia precisamente l’elaborazione del proprio pensiero, necessariamente accompagnata da una nuova critica, questa novella generazione, trova in se stessa, oltre che nella società che la circonda, tutto un mondo di pensieri o di rappresentazioni consolidate, che le servono di punto di partenza e che le danno in certo qual modo la prima sostanza o il materiale per il proprio lavoro intellettuale e morale. Di questo tipo sono le immaginazioni tradizionali e comuni che i metafisici, ingannati dal mondo del tutto insensibile ed impercettibile con cui, provenendo dal di fuori, esse penetrano e s’imprimono nel cervello dei bambini, ancor prima che siano pervenuti alla coscienza di se stessi, chiamano falsamente idee innate.


Tali sono le idee generali od astratte sulla divinità e sull'anima, idee completamente assurde, ma inevitabili, fatali nello sviluppo storico dello spirito umano il quale, pervenendo soltanto molto lentamente ed attraverso i secoli alla conoscenza razionale e critica di se e delle proprie manifestazioni, parte sempre dall’assurdo per giungere alla verità e dalla schiavitù per conquistare la libertà; idee approvate dall’ignoranza generale e dalla stupidità dei secoli, oltre che dall’interesse ben calcolato delle classi privilegiate, al punto che, ancora attualmente, non ci si saprebbe pronunciare apertamente e con un linguaggio contro di esse, senza provocare lo sdegno di una notevole parte delle masse popolari e senza correre il pericolo di essere lapidati dall’ipocrisia borghese.
Oltre a queste idee del tutto astratte, con le quali è sempre in contatto molto stretto, perché le trova nella società, l’adolescente, in conseguenza dell’influenza assai massiccia esercitata da quest’ultima sulla sua infanzia, trova in se stesso anche una quantità di altre rappresentazioni od idee molto più determinate e che riguardano più da vicino la vita reale e l’esistenza quotidiana dell’uomo.
Tali sono le rappresentazioni sulla natura e sull’uomo, sulla giustizia, sui doveri e sui diritti degli individui e delle classi, sulle convenienze sociali, sulla famiglia, sulla proprietà, sullo Stato e molte altre ancora che regolano i rapporti degli uomini tra loro. Tutte queste idee che l'uomo, nascendo, trova incarnate nelle cose e negli uomini e che s’imprimono nella sua mente attraverso l’educazione e l’istruzione che riceve, ancor prima che sia pervenuto alla conoscenza di se, esso le ritrova successivamente consacrate, spiegate, commentate dalle teorie che esprimono la coscienza universale o il pregiudizio collettivo e da tutte le istituzioni religiose, politiche ed economiche della società di cui fa parte. E l'uomo ne è impregnato a tal punto che, interessato o meno a difenderle, ne è involontariamente il complice, con tutte le sue abitudini materiali, intellettuali e morali.


Ciò di cui bisogna meravigliarsi non è tanto l'azione assai vigorosa esercitata sulla massa degli uomini da parte di queste idee che esprimono la coscienza collettiva della società, quanto, invece, che si trovino, in questa massa, degli individui che hanno il proposito, la volontà ed il coraggio di combatterle.
Giacché, essendo la pressione della società sull’individuo immensa, non c’è carattere tanto forte, né intelligenza tanto poderosa che possano dirsi al riparo dagli assalti di questa influenza tanto dispotica quanto ineluttabile.
Nulla prova meglio il carattere sociale dell’uomo quanto la detta influenza. Si direbbe che la coscienza collettiva di una qualsiasi società, incarnata sia nelle grandi istituzioni pubbliche e sia in tutte le minuzie della sua vita privata e che serve di base a tutte le sue teorie, formi una specie di ambiente, d'atmosfera intellettuale e morale, nocivo ma assolutamente necessario all’esistenza di tutti i suoi membri. Questa coscienza collettiva li domina e nello stesso tempo li sostiene, collegandoli tra loro con rapporti consuetudinari e necessariamente da essa determinati; infondendo a ciascuno la sicurezza, la certezza e costituendo per tutti la condizione suprema dell’esistenza dell’enorme massa, la banalità, il luogo comune, la routine.
La maggioranza degli uomini, appartenenti non soltanto alle masse popolari, ma alle classi privilegiate che sono spesso più colte delle masse, si sentono tranquilli ed in pace con se stessi solo quando, nei pensieri ed in tutte le azioni della loro vita, seguono fedelmente, ciecamente, la tradizione e la consuetudine. “I nostri padri hanno pensato ed agito cosi, perché dovremmo pensare ed agire diversamente da tutti gli altri?”. Queste parole esprimono la filosofia, la convinzione e la pratica del 99% dell’umanità, presa indifferentemente in tutte le classi della società. E, per come ho già rilevato, ciò costituisce il più grande ostacolo al progresso ed all’emancipazione più rapida della specie umana.


Quali sono le cause di questa lentezza desolante e così vicina alla stasi che costituisce, a mio giudizio, la più grande sciagura dell’umanità? Le cause sono molteplici ed una di esse, tra le più considerevoli certamente, è l'ignoranza delle masse. Private generalmente e sistematicamente di ogni educazione scientifica, grazie alle paterne cure di tutti i governi e delle classi privilegiate le quali traggono utilità nel mantenerle il più a lungo possibile nell’ignoranza nella devozione e nella fede - tre sostantivi che esprimono all’incirca la stessa cosa - le masse non conoscono neppure l’esistenza e l’uso di quello strumento di emancipazione intellettuale che si chiama critica, senza la quale è impossibile una completa rivoluzione morale e sociale.
Le masse che hanno tutto l’interesse a ribellarsi contro lo ordine stabilito delle cose, sono ancora più o meno legate ad esso a causa della religione dei loro padri, che è la provvidenza delle classi privilegiate.
Le classi privilegiate - che non hanno più oggigiorno né la devozione né la fede, anche se dicono il contrario - sono a loro volta, legate a quest’ordine di cose a causa del loro interesse politico e sociale. Tuttavia non è possibile affermare categoricamente che soltanto il detto interesse sia la ragione del loro vivo attaccamento alle idee dominanti.
Quale che sia la mia opinione negativa circa il valore attuale, intellettuale e morale, di queste classi, non posso però ammettere che il solo interesse sia il movente dei loro pensieri e delle loro azioni.


In ogni classe ed in ogni partito esiste indubbiamente un gruppo più o meno numeroso di profittatori intelligenti, audaci e scrupolosamente disonesti, chiamati uomini forti, liberi da ogni pregiudizio intellettuale e morale, egualmente indifferenti a tutti i princìpi, di cui però si servono, all’ occorrenza, per ottenere il loro scopo.
Ma questi uomini forti, sono in seno alle classi più corrotte, solo una infima minoranza, giacché la maggioranza è pecoresca come lo è la maggioranza in seno al popolo.
Essa subisce naturalmente l’influenza dei propri interessi che fanno della reazione una condizione di esistenza. Ma è impossibile ammettere che, facendo della reazione, essa obbedisca solamente ad un sentimento egoistico. Una gran massa d’uomini, sia pure parzialmente corrotti, quando agisce collettivamente, non saprebbe essere così depravata.


In ogni associazione numerosa e, a maggior ragione, nelle associazioni tradizionali e storiche come le classi, sia pure giunte al punto da essere divenute assolutamente malefiche e contrarie all’interesse ed al diritto di tutti, esiste un principio di moralità, una religione, una credenza qualsiasi, certamente pochissimo razionali, il più sovente ridicole e, di conseguenza, molto grette ma sincere e che costituiscono la condizione morale indispensabile della loro esistenza.

 

 

 

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