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N. 67 - Luglio 2013 (XCVIII)

Aristofane
la mimesis e la critica letteraria

di Paola Scollo

 

Nell’incipit della Poetica Aristotele definisce l’arte poetica nel suo complesso, poietiké téchne, come una forma di mimesis, ovvero di arte imitativa: «l’epica, la poesia tragica, la commedia, l’arte di comporre ditirambi, la maggior parte dell’auletica e della citaristica, tutte considerate come un insieme, si trovano a essere imitazioni» (1447 a 15). L’attività del poetare, poiesis, è un atto mimetico e il poeta, poietes, è artefice dell’imitazione che ha come risultato la produzione di immagini, mimemata.

 

Nella dimensione mimetica della poiesis le uniche differenze riguardano tre aspetti: mezzo, oggetto e modo (1447 a 16). All’origine dell’arte poetica vengono quindi individuate due cause naturali, physikaí. Anzitutto, l’uomo è l’animale mimetico per eccellenza, poiché «è il più portato a quella creazione rappresentativa che si fa cultura, che si fa poesia, che non soltanto è in grado di simulare un mondo nel pensiero, ma anche di farlo vedere a tutti» (1448 b 5). La mimesis è un’abitudine dell’anima: è parte integrante della physis dell’individuo. Ed è al contempo imprescindibile presupposto per l’acquisizione della conoscenza: è il modo più naturale per procurarsi le prime forme di apprendimento. In secondo luogo, tutti traggono piacere dalle imitazioni.

 

La poesia nasce come atto di improvvisazione a opera di coloro che per natura, physei, sono più inclini alla mimesis, all’imitazione che si fa rappresentazione. Segue la prima importante differenziazione dell’arte poetica riguardo ai caratteri imitati: «i più seri imitarono le azioni nobili e quelle degli uomini di questo genere, mentre i più volgari quelle delle persone dappoco» (1448 b 25).

 

La forma più alta di mimesis è quella simulativa degli attori: tragedia e commedia si configurano come i generi letterari più imitativi in assoluto, in quanto realizzati da coloro che agiscono sulla scena. La commedia è «mimesis di persone dappoco, non però per un vizio qualsiasi, ma il ridicolo è parte del brutto» (1449 a 35); di contro, la tragedia è «mimesis di un’azione seria e compiuta, dotata di una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non attraverso una narrazione, la quale per mezzo di pietà e terrore porta a compimento la purificazione da tali passioni» (1449 b 25). A partire da queste osservazioni, risulta evidente come la nozione di mimesis sia destinata ad assumere un ruolo di centralità nella dimensione teatrale e, più in generale, nella riflessione letteraria di ogni epoca. Ancor più che nella tragedia, questo principio di identificazione trova ampia realizzazione nella commedia, laddove l’attaccamento al reale è molto forte.

 

Nella commedia antica, archaía komodía, la mimesis si configura come strumento dell’onomastì komodein, ossia di critica del reale. Il processo di identificazione nell’altro da sé è ottenuto in vari modi. L’uso della maschera, a esempio, serve a segnalare il personaggio portato sulla scena, quindi a nascondere l’identità dell’attore dietro a quella dei suoi personaggi. Ancor più che la maschera e la voce, la mimesis favorisce quel processo di immedesimazione nell’altro da sé, che si pone alla base della finzione drammatica.

Nelle commedie di Aristofane la mimesis trova ampia applicazione grazie anche a travestimenti, finzioni, scambi di personalità e parodie.

 

Una prima commedia illuminante è rappresentata dagli Acarnesi. Qui Euripide si presenta coperto di stracci come i personaggi da lui, secondo Diceopoli, portati in scena. All’ingresso del tragediografo, Diceopoli esclama: «Componi con i piedi in alto, pur potendo posarli per terra? Naturale che crei degli zoppi!» (410 b). Segue quindi un elenco degli eroi tragici degradati da Euripide: Eneo, Fenice, Filottete, Bellerofonte, Telefo, Tieste e Ino (418 - 434). Già al v. 399 Diceopoli allude alla consuetudine euripidea di comporre «con i piedi sollevati da terra». Si tratta di una delle principali accuse rivolte da Aristofane a Euripide: il degrado degli eroi trasformati in mendicanti, zoppi e coperti di stracci. Nell’espressione «con i piedi sollevati da terra» sono contenuti i germi delle successive riflessioni sulla mimesis.

 

La polemica letteraria di Aristofane nei confronti di Euripide scaturisce dalla convinzione di una esatta corrispondenza tra autore e personaggi, tra autore e opera. Nell’atto stesso del comporre Euripide abbandona la propria identità per assumere, attraverso atto mimetico, quella degli eroi portati sulla scena.

 

L’atto mimetico presuppone quindi una identificazione emotiva dell’autore col personaggio. Ma è a un tempo inevitabile che la poesia sia mimesis della physis del poeta. Alla luce di queste osservazioni, sembrerebbe che dapprima Aristofane spieghi la mimesis in rapporto al poeta, successivamente in rapporto al prodotto letterario. Questo processo di identificazione è ben delineato nelle Tesmoforiazuse (145 - 174) laddove, secondo Raffaele Cantarella, sarebbe presente la prima teorizzazione del concetto di mimesis. Tale criterio è messo in bocca ad Agatone, poeta tragico, che afferma di indossare l’abito conforme al pensiero. Se un autore compone un dramma femminile, occorre che il corpo abbia modi da donna.

 

Le parole di Agatone sollecitano almeno due riflessioni: il poeta deve conformarsi alla natura dei suoi tropoi; la composizione poetica riflette la physis del poeta.

Di seguito Agatone fornisce alcuni esempi desunti non dalla tragedia, ma dalla poesia lirica. Ibico, Anacreonte, Alceo hanno dato sapore alla musica, portando cappelli eleganti, muovendosi con la grazia degli Ioni. Frinico era bello e di conseguenza erano anche i suoi drammi. È inevitabile che l’opera del poeta sia conforme alla sua natura. L’altro interlocutore, il Parente, osserva quindi che la bruttezza di Filocle è la causa della bruttezza delle sue opere. Senocle è cattivo e di conseguenza sono le sue opere. Teognide è freddo e crea opere in modo freddo. Agatone conclude dicendo che tutto avviene secondo necessità. Proprio sapendo ciò, si preoccupa di farsi bello.

Le affermazioni di Agatone non possono lasciare indifferenti. Qualora il poeta non sia in possesso delle doti fisiche per porsi nei panni dei personaggi rappresentati, esiste sempre la possibilità di fare ricorso alla mimesis (154 - 156).

 

Aristofane mostra di avere grande familiarità con la mimesis. Anzi, sembrerebbe che ricorra a questo principio ogni qual volta intenda condurre una polemica letteraria. L’esempio senz’altro più efficace giunge dalle Rane. L’agone fra Eschilo ed Euripide è interamente intessuto di riflessioni sulla mimesis. Eschilo definisce Euripide «raccoglitore di chiacchiere, creatore di accattoni, rattoppatore di stracci» (841 - 842), «presuntuoso fabbricatore di zoppi» (846). Euripide ha vestito di stracci gli dèi per suscitare compassione. Questi versi suscitano un interesse che va oltre la polemica letteraria nei confronti del teatro di Euripide. Al di là dell’accumulo di topoi antieuripidei, è qui presente una valutazione poetica della mimesis che negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse non è ancora evidente.

 

Nelle Rane Aristofane spiega la mimesis non solo in rapporto al poeta e alla sua opera, ma anche in rapporto ai destinatari dell’opera stessa. Emerge la questione degli effetti della poesia sugli spettatori. Di qui la necessità di rappresentare i personaggi portati sulla scena come migliori rispetto alla vera natura per proporli come modelli di comportamento. Ma in generale il principio di mimesis espresso da Aristofane è in fondo quello individuato da Platone per la commedia e la tragedia: per l’autore il modo migliore per comporre una bella opera, per rappresentare le vicende o descrivere i personaggi è quello di identificarsi, nel corpo e nel carattere, nei personaggi stessi. Da questo principio di mimesis deriva, sia tramite la riflessione di Platone sia tramite l’immagine di Aristotele nel Peripato, il metodo teorizzato e praticato successivamente da Cameleonte. Partendo dall’idea della corrispondenza tra autore dell’opera letteraria e opera letteraria, Cameleonte va alla ricerca di aneddoti, di dati biografici di varia natura, per lo più curiosi e piacevoli, che mescola con ricostruzioni storico - letterarie. La biografia diviene una sorta di contenitore della critica letteraria: non c’è decodificazione di dati caratteriali e biografici dell’autore in quanto riflessi nel testo. Alla luce di queste considerazioni, una incursione in Platone appare doverosa. La mimesis, infatti, assume un ruolo di assoluta centralità nel pensiero di Platone.

 

Nel terzo libro della Repubblica (392 c 6 ss.) Platone affronta il problema della mimesis in relazione allo stile dell’opera letteraria. Platone qui sostiene che la narrazione possa essere realizzata in forma diretta di semplice narrazione, diéghesis, in forma mimetica, dià mimeseos, o attraverso la mescolanza di entrambe le forme. La forma narrativa semplice avviene in terza persona, quindi in maniera oggettiva. In altre parole, l’autore non si nasconde dietro i personaggi. Al contrario, l’imitazione comporta l’assimilazione dell’autore, nella voce e nei gesti, al personaggio rappresentato.

 

La poesia drammatica è l’esempio più alto di mimesis, in quanto poesia agita sulla scena; il ditirambo è un genere narrativo; la poesia epica è misto di narrazione e di imitazione (394 b 8 - c 5). Successivamente, Platone affronta il problema della mimesis in una prospettiva paideutica, prendendo in considerazione gli effetti della mimesis sull’ethos dei phylakes. A tal proposito, osserva che è impossibile imitare bene diversi modelli contemporaneamente, poiché la natura umana è suddivisa in parti molto piccole (395 b 3 - 6). In generale, l’imitazione comporta un frazionamento della propria personalità per conformarsi a ciò che è altro da sé. I phylakes devono quindi dedicarsi esclusivamente alla cura e alla libertà dello Stato, senza imitare o fare altro. Le imitazioni, se si prolungano nel corso di tutta la vita, divengono un’abitudine naturale per l’indole dell’uomo. Pertanto, occorre imitare solo le persone oneste, che abbiano un comportamento serio e ragionevole.

 

La riflessione sulla mimesis viene ulteriormente approfondita da Platone nel decimo libro della Repubblica (595 c ss.) nell’ottica della teoria delle Idee, quindi in un contesto ontologico non più paideutico. In queste pagine sono espresse parole di condanna nei confronti della pittura e della poesia che, in quanto arti imitative, sono rappresentazioni, immagini di immagini, deformazioni a tre gradi di distanza dalla verità delle cose.

 

Platone si interroga sulla distanza del modello dall’immagine, ovvero dell’essere dall’apparire, ricorrendo alla celebre metafora del letto. In particolare, distingue: l’idea del letto (il letto in sé), creata da un dio; il letto fabbricato, realizzato dall’artigiano; il letto dipinto, creato dal pittore impegnato nella rappresentazione della realtà sensibile. In base a questo ragionamento, il letto in sé esprime la nozione dell’Idea, ossia di un ente stabile, immutabile. Il letto fabbricato e il letto dipinto sono metafora delle apparenze, delle deformazioni delle Idee. L’ente diviene mimema, rappresentazione, nel momento in cui si rende visibile. In ogni caso, è bene ricordare che l’atto mimetico presuppone sempre l’esistenza di un modello al quale ci si conforma. La conoscenza del modello è da porre a fondamento del giudizio corretto sulla mimesis. L’oggetto, ovvero il modello, è sempre uguale a se stesso. La percezione dell’oggetto, ossia la copia, è destinata a modificarsi. In tal senso, anche il tragediografo, in quanto lontano dall’Idea in sé, si configura come «terzo a partire dal re e dalla verità» (597 e 6 - 8). In sintesi, per Platone le opere dei pittori e dei poeti sono parvenze, eídola, non enti reali, distanti di tre gradi dalla verità (596 a 5 - 597 e 6).

 

Platone condanna la mimesis che prende come modello il mondo sensibile, a sua volta mimesis delle Idee. La mimesis deve piuttosto scegliere come modello a cui tendere il mondo delle Idee, avendo uno sguardo verso l’alto, ovvero verso la dimensione eidetica. In tal senso, l’attività stessa del filosofo si configura come un atto mimetico. Esiste dunque per Platone la possibilità di una mimesis positiva.

 

Secondo Lidia Palumbo, la mimesis rappresenta per Platone «la modalità universale dell’espressione» o, più precisamente, «la modalità attraverso la quale le cose sono al mondo». La tecnica mimetica rende possibile, attraverso l’identificazione, un graduale avvicinamento ai modelli delle cose, alle Idee. La mimesis, in quanto desiderio di alterità, si manifesta come possibilità di dare forma all’invisibile, all’intellegibile: diviene, pertanto, una nozione fondamentale per comprendere il rapporto tra il mondo delle Idee e la realtà sensibile, tra universale e particolare. Il legame tra Idee e cose si esprime attraverso un atto mimetico: le cose sono mimemata, ovvero rappresentazioni, immagini di altrettanti modelli, le Idee. E le rappresentazioni sono «quanto di più prossimo alla verità esista nella realtà sensibile».

 

Sul problema della correttezza dell’imitazione riflette anche Aristotele nella Poetica. Dopo aver ricordato le norme che stanno alla base dell’attività mimetica, Aristotele prende in considerazione un aspetto essenziale dell’imitazione poetica: la orthótes. A tal proposito, sottolinea l’incapacità dell’imitazione di essere fedele all’oggetto imitato e individua due tipologie di errori in cui il poeta può incorrere nell’imitare: l’errore in sé e l’errore di coincidenza. In ogni caso, ci troviamo di fronte a una mancanza di verità. Tuttavia Aristotele osserva che il poeta non è tenuto a narrare solamente la verità: l’arte poetica è essenzialmente mimesis, riproduzione, finzione, quindi il poeta narra ciò che potrebbe accadere. Il senso di questa affermazione risulta comprensibile solo alla luce della distinzione tra poesia e storiografia delineata al capitolo 9 (1451 a 36 - 1451 b 11): la poesia narra ciò che potrebbe accadere; la storiografia ciò che è accaduto. Il poeta non è chiamato a rappresentare ciò che avviene nella realtà, ma ciò che è possibile secondo la verosimiglianza o la necessità. La poesia attinge all’universale, ta katholou, la storia al particolare. La fedeltà al modello naturale non è l’aspetto prioritario da ricercare nella mimesis. L’essenziale è altrove.

 

Questa sintetica ma necessaria incursione in Platone e in Aristotele ci consente di ricavare alcune importanti conclusioni. Ricostruire l’intera storia della tradizione mimetica è impresa ardua: l’esiguità delle fonti disponibili è un primo ostacolo alle ricerche. I dialoghi di Platone e la Poetica di Aristotele sono documenti di indiscutibile valore perché, in maniera differente, indicano come la nozione di mimesis sia stato un dato della cultura del V - IV secolo.

 

In ogni caso, credo che il germe delle riflessioni sulla mimesis sia da porre in epoca arcaica. Applicata alla dimensione dell’arte poetica, la mimesis non è semplicemente imitazione, ma anche rappresentazione. Questo concetto esprime la capacità di imitare un dato comportamento, di identificarsi con ciò che è altro da sé, di impersonare un ruolo. Al di là della difficoltà di stabilire un puntuale percorso cronologico, in Aristofane è già presente una riflessione sugli effetti dell’arte imitativa nei destinatari dell’opera letteraria. C’è una chiara anticipazione delle riflessioni di Platone e di Aristotele. Nella sua irrinunciabile funzione di didaskalos, Aristofane fa sentire la sua voce sia per comunicare messaggi che sollecitino alla riflessione sui contenuti del teatro sia per riflettere sulla realtà politica di cui teatro e poesia sono componenti imprescindibili.

 

La comicità non è evasione dalla realtà: al di sotto di situazioni paradossali, è possibile scorgere una fitta trama di riferimenti e di rimandi alla quotidianità. Il legame con la realtà è particolarmente serrato nelle commedie più antiche: finzione scenica e realtà si compenetrano e si contaminano costantemente l’una con l’altra. Questa stretta connessione è confermata dalla presenza di gnomai, sentenze pronunciate dal coro come richiamo alla collettività.

 

Aristofane vuole indurre i suoi concittadini a una riflessione costruttiva, mostrando che il luogo deputato alle discussioni sui comportamenti e sul destino dell’uomo non è rappresentato esclusivamente dalla tragedia, ma anche dalla commedia. In questa prospettiva, la riflessione sulla poietiké téchne è volta a suggerire un tipo di poesia che possa contribuire al benessere della polis. La poesia deve educare a essere migliori. Una chiara conferma giunge proprio dalle Rane.

 

Nel momento in cui Atene sembra destinata all’inevitabile declino, Aristofane sceglie di scendere nell’Ade per riportare in vita il grande Eschilo, la tradizione poetica. Le Rane sono la prova più concreta di come la commedia possa prestarsi alla metaletteratura, aprendosi alla critica letteraria. Aristofane conclude la sua stagione drammaturgica impegnata con una commedia che è una riflessione sull’evento teatrale, in quanto funzione stessa della polis, quindi sul potere dell’arte di indirizzare la condotta politica e civile.

 

In questa prospettiva, la mimesis poetica non è semplice imitazione. La poesia è guida della polis, veicolo di conoscenze e di verità. E il rapporto di aderenza o, meglio, di identificazione con il modello diviene garanzia della correttezza della mimesis, ovvero della poesia stessa. Comincia a farsi largo l’idea della verità dell’imitazione, quindi della necessità di una connessione tra correttezza rappresentativa e utilità etica.

 

 

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