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N. 68 - Agosto 2013 (XCIX)

ORIGINE DEL MALE E INDIPENDENZA NATURALE
TRA ROUSSEAU, ARISTOTELE E HOBBES

di Federica Scimè

 

La teoria dell’indipendenza naturale su cui insiste Rousseau si contrappone alla tradizione aristotelico-patriarcalistica, che presenta l’idea di una continuità tra il potere che i padri hanno sui figli e il potere politico.

 

Il patriarcalismo aristotelico poggia su tre basi:

la polis trae origine dalla famiglia;

la polis e la famiglia sono inserite all’interno dello stesso ordine finalistico;

esiste una differenza qualitativa tra potere politico e potere paterno, basata sul fatto che il potere politico si esercita su liberi e uguali, mentre il potere paterno è di carattere regio, cioè basato sulla superiorità del padre nei confronti dei figli.

 

Aristotele pertanto vede una continuità finalistica tra famiglia e polis, ma anche una differenza qualitativa che i patriarcalisti non accettano: le teorie patriarcalistiche si basano su un'identità integrale fra potere paterno e potere politico esercitato su piccoli stati, sostenendo così una fondazione naturalistica del potere politico.

 

Per il filosofo di Stagira e per i patriarcalisti c’è una disuguaglianza naturale tra uomini, secondo la quale alcuni sono più adatti a obbedire, altri a comandare: in modo particolare il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore e tra gli stessi maschi c’è chi partecipa alla ragione soltanto per quel che può coglierla, senza possederla interamente. è quindi giusto per questi ultimi essere schiavi e porsi sotto il controllo di uomini per natura superiori.

 

Inoltre Aristotele ci fornisce anche la spiegazione della superiorità che i greci hanno sui barbari: i barbari non pongono differenze di posizione tra donne e schiavi perché non hanno il principio del comando; la rigida struttura gerarchica della natura umana si viene così delineando: l’uomo libero al vertice, esercita sulla donna un potere simile a quello politico e al gradino più basso gli schiavi, sui quali gli uomini liberi governano secondo un potere patriarcale.

 

L’antropologia competitiva nel De Cive e negli Elements di Hobbes

 

Con Grozio Hobbes è il filosofo più citato nel Contratto sociale: infatti Rousseau in numerosi capitoli della sua opera fa riferimento al pensatore inglese, con vena apertamente polemica; le tesi di Hobbes vengono presentate non sempre correttamente dal filosofo ginevrino, che legge il De Cive in modo funzionale al perseguimento del suo scopo, quindi estremizzandone alcuni aspetti.

 

Nonostante questa premessa, fondamentale per non accomunare l’autore del De Cive con Grozio in modo troppo affrettato, bisogna tuttavia sottolineare la distanza tra le tesi di Hobbes e di Rousseau, a partire dalla base delle loro teorie, ovvero la considerazione della natura umana.

 

Secondo Rousseau, gli uomini sono nello stato di natura in una condizione di indipendenza ma anche di purezza e innocenza; la posizione hobbesiana risulta completamente opposta non sul tema della libertà naturale, che è senza dubbio uno dei punti in comune tra i due pensatori, ma sulla tesi dell’innocenza naturale.

 

L’idea di Hobbes si basa su un’antropologia fortemente pessimistica e competitiva: non è un caso che negli Elements la vita umana sia paragonata a una corsa, quindi a una gara, una competizione dove essere superato continuamente è infelicità, superare continuamente quelli che stanno davanti è felicità.

 

La volontà di nuocere all’altro è la caratteristica fondamentale della natura umana, e gli uomini sono inevitabilmente inclini a provocarsi a vicenda.

 

Se queste sono le basi, Hobbes non può non giungere alla conclusione che lo stato degli uomini, prima che si organizzassero in una società, era la guerra di tutti contro tutti, e per di più una guerra perpetua, dato che gli uomini sono uguali per natura e quindi nessuno può riuscire a prevalere sull’altro in modo definitivo.

 

Va infatti ricordato che il filosofo inglese spiega l’uguaglianza naturale in termini di possibilità di uccidere l’altro: in questo senso quindi gli uomini sono uguali perché anche il più debole può facilmente uccidere il più forte.

 

Essendo lo stato di natura definito come lo stato di guerra perpetua, la pace non può che essere considerata in termini negativi, cioè come il tempo restante, in cui è assente la volontà di contendere con la forza.

 

La rivalità reciproca, tipica della natura umana, e le conseguenze che Hobbes trae da essa, porteranno Rousseau, più di un secolo dopo la stesura del De Cive, ad accusare il pensatore inglese di fondare, come Grozio, il diritto sul fatto e di non riuscire ad arrivare alla formulazione di una teoria normativa.

 

«L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene»

 

Rousseau apre il primo capitolo del primo libro del Contratto Sociale con una proposizione controversa, apparentemente contraddittoria, che ha fatto a lungo discutere i filosofi e gli studiosi non solo contemporanei, ma anche delle epoche successive: «l’uomo è nato libero, e dovunque è in catene».

 

Il tema della libertà è molto caro al filosofo ginevrino, che nella sua opera politica principale non si pone l’obiettivo di spiegare come è avvenuto il cambiamento, cioè il passaggio dall’indipendenza naturale alle catene che vincolano ogni uomo nella società, ma piuttosto di renderlo legittimo.

 

A partire da questa frase, si creano due contrapposizioni: in primo luogo, quella tra natura e storia; in secondo luogo quella tra indipendenza e dipendenza. Risulta comunque evidente che per Rousseau lo stato naturale è caratterizzato dall’assenza di ogni forma di dipendenza e di corruzione: l’uomo nello stato di natura è libero e indipendente in quanto privo di relazioni con gli altri e di linguaggio; la storia invece ci presenta l’uomo come schiavo, bisognoso del riconoscimento e dell’appoggio degli altri.

 

La dipendenza dagli atri uomini è quindi vista dal ginevrino come una catena, che assume diverse forme: la storia umana ha mostrato che la corruzione è derivata dalle istituzioni, generando il male nella società.

 

Lo stesso concetto è espresso nella seconda lettera a Maleherbes: «con quale chiarezza avrei fatto vedere tutte le contraddizioni del sistema sociale, con quale forza avrei esposto tutte le ingiustizie delle nostre istituzioni, con quale semplicità avrei mostrato che l’uomo è buono per natura e che solo per via di queste istituzioni diventa cattivo!». La storia è la radice del male che corrompe la purezza della natura.

 

Il solo modo per evitare la corruzione e rendere legittima l’assenza di libertà è l’istituzione del’patto sociale’, unico mezzo che consente a ciascun uomo di rapportarsi con gli altri senza perdere la propria libertà individuale, perché «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti, in quanto corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto».

 

L’interpretazione di Ernst Cassirer

 

Uno dei filosofi che è rimasto più affascinato dal Contratto Sociale è il neokantiano Ernst Cassirer, che sottolinea la novità apportata dal filosofo ginevrino relativamente al tema del male, nel suo saggio Das Problem Jean-Jacques Rousseau.

 

Cassirer inserisce Rousseau nella tradizione della teodicea, sottolineando come la particolarità dell’autore del Contratto Sociale sia l’occuparsi del male non in ambito metafisico, ma politico, affrontando la radice del male nella società: l’uomo di società, che vive sempre fuori di se stesso, finisce per vivere solo nell’opinione degli altri; perfino il senso della sua esistenza gli viene partecipato soltanto per questa via derivata e mediata, per la via indiretta del giudizio degli altri.

 

Il male umano si genera quando gli uomini giungono a contatto con gli altri e sentono il bisogno del riconoscimento altrui: in questo modo si crea una lotta per la supremazia che genera il desiderio di prevalere sugli altri, radice della violenza che gli uomini usano tra di loro.

 

La distinzione posta da Rousseau tra homme naturel e homme artificiel non è certamente nuova: molti pensatori prima di lui avevano sottolineato, in modi diversi, la distinzione tra stato di natura e stato civile/convenzionale; ma secondo Cassirer l’idea del pensatore ginevrino si distingue dalle precedenti: per recuperare l’homme naturel non c’è bisogno di ritornare in età antiche o compiere un viaggio lontano, la distanza tra uomo naturale e artificiale non è temporale né spaziale, ognuno di noi porta invece in sé l’immagine originaria dell’uomo, al di sotto degli involucri artificiali e convenzionali che lo avvolgono e che hanno portato alla caduta di ogni libertà e spontaneità, dato che non siamo più noi a pensare e a giudicare: la società pensa in noi e per noi. Non abbiamo più bisogno di indagare la verità: essa ci viene posta in mano come una moneta coniata.

 

Cassirer è estremamente interessato all’attualità del discorso di Rousseau: la sua società, come quella del filosofo ginevrino, gli appare corrotta, e anche la filosofia ha perso la sua schiettezza e il suo linguaggio originario.

 

In questo modo la coercizione della società si estende non solo alle azioni esteriori ma anche ai pensieri e ai giudizi, controllando ogni ambito umano in una sorta di Grande Fratello.

 

Le conseguenze che si possono trarre dal pensiero di un filosofo del Settecento sono estremamente utili anche, se non soprattutto al giorno d'oggi: è la capacità di rimanere sempre attuale che rende un testo come il Contratto Sociale un classico, perché i classici non passano mai di moda.



 

 

 

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