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N. 44 - Agosto 2011 (LXXV)

Aléxandros basileus
la storia e il mito secondo Plutarco

di Paola Scollo

 

È un’immagine singolare quella che le fonti ci tramandano di Alessandro Magno. Giovane dall’indole impetuosa e tenace, comandante fiero e ambizioso, dotato di straordinario talento tattico e strategico, spirito nobile e fiero, teso verso ogni forma di sapere, animo energico e spietato sul campo di battaglia con i nemici, magnanimo e generoso verso gli amici.

 

Alessandro è uno dei personaggi più controversi dell’antichità. Un personaggio contraddittorio che, proprio per questa contraddittorietà, ha esercitato ammirazione e fascino in ogni epoca. Un fascino che oltrepassa i limiti della storia per divenire mito. Il sogno di realizzare un unico impero per un unico popolo, di custodire e di diffondere la cultura ellenica lo guida sino agli estremi confini del mondo. In pochi anni, si pone alla guida di un impero sconfinato, che si estende dall’Adriatico all’Oceano Indiano, dal Danubio e dal Caucaso alla Nubia. Le sue mirabili imprese sono state narrate da Diodoro Siculo, Arriano, Curzio Rufo. Di notevole valore è la testimonianza di Plutarco nelle Vite parallele.

 

L’eccezionalità di Alessandro ha inizio ancor prima della sua nascita: si pone nel momento stesso del suo concepimento. Narra Plutarco che, alla vigilia delle nozze, Olimpiade sognò che dal suo ventre, colpito da fulmine, si propagavano fiamme. Successivamente, a Filippo parve di imprimere sul ventre della sposa un sigillo dalla forma di leone.

 

«Dato che nessun sigillo si imprime su ciò che è vuoto», l’indovino Aristandro di Telmesso immaginò che Olimpiade fosse incinta di un «ragazzo animoso e dalla natura di leone» (cap. II). Il “figlio del sogno”, Aléxandros, nacque nel mese di Ecatombeone, nel giorno in cui il tempio di Artemis a Efeso venne distrutto da un incendio. «Un evento naturale», secondo Egesia di Magnesia, visti gli sforzi compiuti dalla dea per portarlo alla luce. Nato in circostanze straordinarie, era inevitabile che Alessandro fosse destinato a una vita straordinaria. Proprio per queste ragioni, nell’incipit del bios dedicato all’eroe, Plutarco spiega di voler porre attenzione soprattutto ai segni (semeia) dell’anima.

 

Dopo aver riferito gli aneddoti sulla nascita di Alessandro, Plutarco fornisce rapide indicazioni sull’aspetto fisico, espressione del carattere eccezionale. A tal proposito, ricorda che Alessandro aveva ritenuto opportuno farsi raffigurare solo da Lisippo, l’unico artista in grado di riprodurre, in modo accurato, «quello che successori e amici cercarono sempre di imitare, ossia la posizione del collo, lievemente piegato a sinistra, e la dolcezza dello sguardo» (cap. IV).

 

Alessandro aveva una pelle chiara, rossa sul petto e sul volto, che emanava un gradevolissimo profumo. La temperatura corporea, «sempre molto alta, quasi da febbre» doveva essere, con ogni probabilità, motivo dell’animo collerico e incline al bere. Filippo, che ben conosceva la natura inflessibile del figlio, aveva scelto come maestro Aristotele di Stagira, «pagandogli un alto onorario, degno di lui» (cap. VII). Fu proprio Aristotele a inculcare in Alessandro l’amore per la grecità e per i classici. Secondo la testimonianza di Plutarco, il giovane ammirava Aristotele non meno di Filippo, perché «il padre gli aveva dato la vita, mentre il filosofo gli aveva insegnato a vivere rettamente».

 

Era solito, infatti, ripetere: «Io vorrei distinguermi per la conoscenza di ciò che è meglio, più che per la potenza» (cap. VII). Inizialmente, Filippo provava soddisfazione per le imprese di Alessandro, al punto tale da essere contento «che i Macedoni chiamassero Alessandro re (basileus) e lui stesso, Filippo, generale, (strategos)». Ben presto, però, fra i due emersero forti motivi di contrasto, aggravati dal comportamento di Olimpiade, «donna gelosa e collerica» (cap. IX). La rottura avvenne in occasione delle nozze di Filippo con Cleopatra. Portando con sé la madre, Alessandro abbandonò la Macedonia per stabilirsi in Illiria. Successivamente, in molti pensarono che dietro all’assassinio di Filippo per mano di Pausania si celasse proprio Alessandro.

 

Ancora ventenne, Alessandro si trovò a ereditare un regno «sul quale si concentravano invidie, odi e pericoli» (cap. XI). Pur avendo un carattere impetuoso, il giovane mostrava di possedere temperanza (egkrateia) e sapienza (sophrosyne), requisiti indispensabili per non cedere ai piaceri del corpo. In cima ai suoi pensieri, «alti e magnanimi più di quanto prevedesse l’età», stava la brama di gloria.

 

Proprio per questo motivo, Alessandro non manifestava gioia per le vittorie paterne: «Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà l’opportunità di compiere con voi alcuna importante, luminosa impresa». In sintesi, Alessandro «non aspirava a piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, ritenendo che quanto più riceveva dal padre, tanto meno avrebbe guadagnato da solo. Voleva ereditare un regno che non gli offrisse ricchezze, lusso, guadagni, ma lotte, guerre, fama» (cap. V).

 

Di qui la spedizione contro Dario per ampliare i confini dell’impero e, soprattutto, per realizzare la completa fusione del popolo macedone con quello persiano. A tal proposito, Plutarco nota che il coraggio che Alessandro infondeva nelle sue azioni rendeva imbattibile la sua ambizione: l’alto sentire (megalopsykia) sosteneva e alimentava la volontà d’agire, ponendosi a fondamento di una vita breve, ma costellata di splendide e mirabili imprese (cap. XXVI).

 

Plutarco ricorda che, nei rapporti con gli amici, Alessandro dava prova di grande benevolenza e stima (cap. XLI): la sua generosità procedeva, in parallelo, con l’accrescimento delle ricchezze (cap. XXXIX). In tal modo, ben presto «si spogliò della maggior parte dei possessi di Macedonia» (cap. XV). Un episodio particolarmente significativo è quello della morte di Efestione.

 

«Alessandro non riuscì a placare il suo dolore: fece tagliare la criniera a cavalli e muli, in segno di lutto, abbatté i merli delle mura delle città vicine, fece crocifiggere il medico, vietò nel campo musica di flauti e di ogni genere di strumento musicale finché giunse ad Ammone un responso dell’oracolo che raccomandava di onorare Efestione, sacrificando come a un eroe. Per allontanare il dolore Alessandro ricorse alla guerra e, come se andasse a caccia di uomini, sottomise le tribù dei Cossei, facendo uccidere tutti i giovani in età di combattere. Questa strage ebbe nome di sacrificio funebre per Efestione» (cap. LXXII).

 

Anche al paragone con altri sovrani, Alessandro si distingueva per grandezza d’animo e generosità: basti pensare all’episodio dell’incontro con il re Tassile (cap. XLIX) o con il re Poro (cap. LX). E fu, soprattutto, dopo la vittoria su Dario che Alessandro mostrò di possedere grande pietas. Narra, infatti, Plutarco che Alessandro consentì alla madre, alla moglie e alle figlie del sovrano «di vivere una vita appartata, non da prigioniere, ma come se fossero custodite in un asilo sacro e inviolabile» (cap. XXI). E di fronte alla fastosa sepoltura resa alla moglie, morta di parto, Dario fu costretto ad ammettere: «Tanto è nobile Alessandro vittorioso, quanto è tremendo allorquando combatte» (cap. XXX).

 

Sul campo di battaglia sembrava che Alessandro agisse come un folle «guidato da sconsideratezza più che da raziocinio» (cap. XVI). Durante la spedizione contro Dario, si espose a notevoli rischi, riportando numerose ferite; tuttavia, secondo Plutarco, i danni maggiori giunsero dalla scarsità di viveri e dalle pessime condizioni climatiche. Alessandro tentava di opporre al destino avverso virtù e forza, ritenendo che «nulla fosse invincibile per gli audaci, né sicuro per i vili» (cap. LVIII).

 

I suoi successi non erano dovuti esclusivamente alla sorte (tyche), che pure gli aveva concesso «una posizione favorevole», ma alle sue straordinarie doti (cap. XX). La vittoria su Dario ebbe un grande impatto, soprattutto in Grecia: Alessandro divenne il re del più grande impero mai esistito. E pare che, a partire da quel momento, pretese di essere appellato re, basileus, dell’Asia.

 

Tuttavia, non si sentì appagato. La sete di conquista e il desiderio (pothos) della componente irrazionale dell’animo condussero Alessandro in Egitto, nell’oasi di Sïwah, dove dall’oracolo di Ammone ebbe certezza della sua origine divina. Racconta, infatti, Plutarco che il profeta, volendo rivolgersi ad Alessandro con affetto, invece di esclamare «o paidion», «o figlio», data la imperfetta conoscenza della lingua, pronunciò «o paidios», «o figlio di Zeus». Si diffuse così la notizia che il dio avesse riconosciuto in Alessandro il figlio di Zeus. Secondo Plutarco, Alessandro non manifestava eccessivo orgoglio per la sua divinità. Al contrario, si serviva di questa credenza per tenere assoggettati gli altri. In generale, «si comportava con i barbari con superbia, come fosse assolutamente persuaso della sua nascita e origine divina; con i Greci, invece, dichiarava la sua divinità con molta moderazione e cautela» (cap. XXVIII).

 

Fu nella regione dei Parti che, godendo di un periodo di riposo, Alessandro indossò per la prima volta l’abito barbaro: «In questo modo, voleva adattarsi ai costumi del paese e, al contempo, cercare di introdurre presso i Macedoni l’abitudine alla genuflessione, avvezzandoli progressivamente al mutamento del suo modo di vivere». Plutarco precisa che Alessandro non adottò il modo di vestire dei Medi, «del tutto barbaro e strano», né i larghi pantaloni, il caffetano e la mitra (cap. XLV). Scelse, piuttosto, una «indovinata commistione della foggia dei Medi e di quella dei Persiani, più modesta dell’una e più composta dell’altra». Con ogni probabilità, inizialmente, adoperava questo abbigliamento soltanto per ricevere i barbari, accogliere gli amici, uscire a cavallo.

 

L’aristocrazia macedone considerava il culto del sovrano una forma di pratica autocratica e, in generale, tendeva a ostacolare il processo di orientalizzazione dei costumi macedoni. Alla fine, i Macedoni «pieni di ammirazione per tutte le altre virtù» furono costretti a cedere. Alessandro riteneva che, avvicinando ulteriormente il mondo persiano a quello macedone, avrebbe fortificato il suo potere. Di qui la decisione di istruire nelle armi, nella lingua e cultura greca, trentamila giovani persiani (XLVII). Tale progetto rimase però incompiuto: le tre componenti fondamentali dell’impero, quella macedone, asiatica ed ellenica, non giunsero mai a fondersi del tutto. Né, con ogni probabilità, Alessandro cercò realmente di fonderle: era lui stesso, in qualità di primus inter pares per i Macedoni, di basileus per i popoli d’Asia e di eghemón per i Greci, a rendere unito l’impero.

 

Secondo il racconto di Plutarco, col trascorrere del tempo, Alessandro divenne sfiduciato nei confronti della divinità, lasciandosi sempre più condizionare da presagi divini: «non c’era fatto insolito e strano, per piccolo che fosse, che non considerasse portentoso; la gente faceva sacrifici, purificazioni e traeva auspici, generando in Alessandro paura e stoltezza» (cap. LXXV). Infine, nutriva sospetti nei confronti degli amici: temeva soprattutto Antipatro e i suoi figli, Iolao e Cassandro.

 

Alessandro fu progressivamente travolto da un vortice di invidie e gelosie. Al momento della morte, a Babilonia, il 10 giugno del 323 a.C., nessuno avanzò sospetti. Narra, però, Plutarco che, a distanza di sei anni, Olimpiade fece disperdere le ceneri di Iolao, accusato di aver avvelenato Alessandro. Il sogno di un impero universale era ormai definitivamente tramontato insieme ad Aléxandros, il “figlio del sogno”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

H. Bengtson, Griechische Geschichte: von den Anfängen bis in die römische Kaiserzeit, München 1977, trad. it. Bologna 1989.

T. E. Duff, Plutarch’s Lives, Exploring Virtue and Vice, Oxford 1999.

D. Magnino (ed.), Plutarco, Alessandro, Milano 1987.

C.B.R. Pelling, Plutarch’s Methods of work in the Roman Lives, «The Journal of Hellenic Studies» XCIX (1979), 74 - 96.

C.B.R. Pelling, Plutarch: Roman Heroes and Greek culture, in M. Griffin, J. Barnes, Philosophia Togata, Oxford 1989, 199ss.

B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica, Pisa 2003

K. Ziegler, Plutarch von Chaironeia, in RE XXI Stuttgart 1951, trad. it. Brescia 1965.



 

 

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