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N. 78 - Giugno 2014 (CIX)

AL-SHABAB, UNA VISIONE D’INSIEME
PARTE IV - OBIETTIVI E STRUTTURA

di Filippo Petrocelli

 

Al-Shabab è nata come tendenza giovanile ed espressione più radicale all’interno dell’Unione delle Corti Islamiche, diventando anche la forza militare preponderante sul campo durante lo scontro con il governo di transizione federale.

 

Al centro della sua battaglia politica ci sono la creazione del califfato e l’applicazione della Sharia ma gli obiettivi più imminenti sono la cacciata del governo di transizione federale, la fine della missione AMISOM (African Union Mission to Somalia) e la liberazione del territorio somalo dalle truppe straniere.

 

Al-Shabab vede la liberazione nazionale come una guerra santa e ha una struttura in linea con quella di molte organizzazioni jihadiste: c’è un consiglio, una shura, che ha funzione consultiva e di controllo e che nomina un amir, un capo. In questo organo consultivo che assomiglia alle classiche assemblee di primus interpares e che ha un peso non indifferente nelle decisioni del gruppo, siedono i vari leader e personalità di spicco dell’organizzazione.

 

Sebbene ci sia quindi una sorta di capo supremo, l’organizzazione è abbastanza orizzontale e sono determinanti le alleanze dei singoli capi, che influisco sugli equilibri interni del gruppo. Esistono quindi veri e propri chapter e ogni leader ha una folta schiera di seguaci, con cui ha un rapporto diretto e prevalente.

 

Il carattere jihadista dell’organizzazione si è ulteriormente accentuato in seguito alla connessione fra al-Qaeda e il gruppo somalo, sancita da un video del febbraio 2012 in cui compaiono i due leader, Godane e Zawahiri, intenti a benedire l’unione.

 

L’attuale emiro di al-Shabab è Ahmed Abdi Godane, affermatosi dopo la morte dello storico fondatore del movimento Ayro ucciso nel maggio del 2008. Il suo periodo di reggenza è coinciso con la riorganizzazione del movimento, dopo la sconfitta subita contro il governo di transizione. L’organizzazione ne è uscita rafforzata soprattutto grazie all’afflusso di combattenti stranieri provenienti da altri scenari ed ha ripreso vitalità.

 

Sostanzialmente la dialettica interna all’organizzazione si confronta proprio sul ruolo di questi combattenti e sul tipo di obiettivi da perseguire. Inizialmente la vittoria di Godane è stata presentata come il trionfo della visione più internazionalista: egli ha sempre accusato infatti Aweys e Robow, altro leader di spicco dell’organizzazione nel sud della Somalia, di un eccessivo “clanismo”. Godane disdegna una visione basata sul clan e sulla tribù e ha sempre aperto le porte a chiunque volesse combattere la propria guerra santa al fianco di al-Shabab.

 

A dimostrazione però della fluidità delle posizioni e delle alleanze variabili nell’organizzazione, è arrivata l’uccisione di un membro di alto profilo di al-Shabab, molto vicino ad al-Qaida. Al-Afghani, esperto combattente di molte guerre sante – dall’Afghanistan al Kashmir – è stato ucciso da uomini di Godane come epilogo di un lungo scontro sottotraccia, che ha avuto il suo apice nel giugno 2013 proprio con l’assassinio dell’importante leader islamista.

 

Precedentemente Afghani aveva criticato la leadership di Godane definendola troppo personalistica, soprattutto in termini di gestione finanziaria e decisioni organizzative. L’emiro aveva risposto criticando ufficialmente il gruppo di Afghani e più in generale il ruolo degli stranieri impegnati nel jihad somalo. A questo punto Aweys e Robow hanno sfruttato l’occasione per attaccare Godane, colpevole di aver ucciso mujaheedin devoti alla causa. Aweys ha emesso persino una fatwa contro il leader di al-Shabab e sebbene non ci siano ancora conferme decisive, ha abbandonato l’organizzazione.

 

Quello che emerge quindi è che a regolare gli equilibri interni del gruppo siano più le lotte di potere che le divergenze ideologiche.

 

L’affermazione di al-Shabab, ricorda da vicino quella dei Taleban. Entrambe le organizzazioni sono uscite vincitrici in un momento di estrema difficoltà dei rispettivi paesi, godendo di un discreto favore da parte della popolazione.

 

Somalia e Afghanistan sono stati funestati per oltre vent’anni da guerre civili devastanti, diventando paesi sospesi, vittime del caos e dell’anarchia.

 

La dura legge della Sharia, è sembrata a molti la scelta più saggia e lungimirante, in quel medioevo moderno fatto di arbitri e soprusi, corruzione, taglieggiamenti, rapine, stupri, che questi paesi hanno vissuto durante il regno dei signori della guerra.

 

Shabab vuole dire “giovani” e Taleban vuol dire “studenti” e anche nel nome questi due gruppi fondono una certa carica vitalista, di contestazione del presente, con un sostrato religioso-messianico che chiarisce una volta di più la forza del messaggio.

 

Queste organizzazioni promettono un ordine nuovo, un società migliore - dal loro punto di vista - e hanno intercettato le simpatie di una larga fetta di delusi e diseredati, fondendo in un'unica narrazione nazionalismo, fervore religioso e rigorismo morale.

 

Sono però anche organizzazioni moderne, al passo con i tempi, impegnate in una nuova forma da’wa - di predicazione e proselitismo - anche sui new media. Se i Taleban sono stati i primi a sfruttare le potenziali della rete, al-Shabab possiede un account Twitter, ha un sito internet e non disdegna l’utilizzo di forum per mostrare video di propaganda.

 

Durante l’attacco di Nairobi il movimento ha costantemente postato messaggi che sembravano provenire dall’interno dell’edificio assalito, in una sorta di macabra telecronaca dell’assalto.

Questo dimostra quanto anche per questi gruppi sia centrale una strategia comunicativa moderna e aggressiva e quanto anche sui new media, si combatta una sorta di “jihad tecnologica”.



 

 

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