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N. 70 - Ottobre 2013 (CI)

aGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE VII

di Massimo Manzo

 

All’epoca dei fatti che narriamo, cioè la seconda metà del IV secolo a.C., Cartagine era padrona di un impero molto potente, che oltre ad estendersi nell’entroterra nordafricano disseminava le sue basi commerciali in gran parte del bacino del Mediterraneo.

 

Fondata nell’814 a.C. da un gruppo di coloni fenici provenienti da Tiro, grazie alla sua posizione geografica essa fu subito proiettata verso il commercio marittimo. La città si trovava infatti nella parte meridionale del golfo di Tunisi, a oriente dell’omonimo lago, in una zona pianeggiante strategicamente perfetta per sviluppare una fitta rete mercantile.

 

Già all’indomani della sua fondazione, dunque, grazie alla loro abilità e intraprendenza, i cartaginesi avevano fondato degli empori nella parte occidentale della Sicilia,  in Sardegna e in Spagna, che gli permettevano di smerciare prodotti in un mercato amplissimo. Col passare del tempo, gli empori erano diventati dei centri ricchi e fiorenti, parte integrante dell’impero marittimo punico.

 

A partire dal V secolo la politica di espansione della città coinvolse anche l’entroterra e Cartagine riuscì a domare gran parte delle tribù e dei popoli che abitavano il Nord-Africa. In cambio della “protezione” cartaginese genti come i libi o i  numidi pagavano tributi e fornivano gran parte dei mercenari di cui si componeva l’esercito punico.

 

L’impero cartaginese si estendeva dunque dal Marocco fino quasi al confine con il potente regno d’Egitto, dominato dalla dinastia tolemaica. A separare le terre dei punici da quelle della cirenaica colonizzate dai greci erano le Are dei Fileni, due altari posti nel territorio dell’attuale Libia. Insomma, Agatocle aveva a che fare con la più grande potenza africana dell’epoca.

 

Ma riprendiamo la nostra narrazione dove l’avevamo lasciata. Quando i messaggeri giunsero a Cartagine, chiarendo in modo preciso l’entità della minaccia nemica, tutti tirarono un sospiro di sollievo, non perché sottovalutassero le forze di Agatocle, ma soprattutto perché si scoprì che l’armata punica in Sicilia era ancora intatta agli ordini di Amilcare.

 

Accantonata l’idea dell’ambasceria, il Senato cartaginese decise dunque di sfidare subito in una battaglia campale l’armata greca, sperando di neutralizzare l’invasore con una rapida vittoria. Senza attendere ulteriori rinforzi, i punici schierarono un esercito di quarantamila fanti e tremila tra carri e cavalieri. Dall’altra parte, Agatocle aveva solo quattordicimila uomini e non disponeva ancora di una cavalleria.

 

Tra le truppe puniche veniva inoltre ricostituito dopo quasi trent’anni il cosiddetto “battaglione sacro”. Si trattava di una forza scelta formata esclusivamente da cittadini cartaginesi, armati più o meno come gli opliti greci e particolarmente agguerriti. L’ultima volta che il battaglione sacro fu schierato era stata nel 338 a.C., in Sicilia. Allora aveva fronteggiato Timoleonte nella battaglia del Crimiso, ma era stato annientato dalle forze del corinzio. Il fatto che dopo decenni da quella bruciante sconfitta i cartaginesi decidessero di ricostituirlo la dice lunga sul loro stato di agitazione.

 

Al comando delle forze puniche il Senato nominò i generali Annone e Bomilcare, due nobili tra i quali non correva buon sangue. Secondo Diodoro la scelta non fu casuale, ma mirata a far si che ognuno controllasse il rivale prevenendo colpi di mano o tentativi di instaurare una dittatura militare dopo l’eventuale vittoria. Come vedremo, l’inimicizia tra i due influenzerà probabilmente l’esito dello scontro.

 

Per capire a fondo la scelta del Senato occorre aprire una breve parentesi sulla forma di governo di Cartagine, molto simile a quella della Roma repubblicana. A detenere il potere legislativo era un’oligarchia aristocratica, formata da rappresentanti del ceto mercantile o da ricchi proprietari terrieri, riunita nell’organo del Senato, anche chiamato consiglio degli anziani.

 

Il potere esecutivo era invece in mano ai cosiddetti suffeti (di solito uno o due) anch’essi nominati tra i membri dell’aristocrazia cittadina. A differenza dei Consoli romani, però, i suffeti non comandavano direttamente le forze armate.

 

Nel corso della sua lunga storia Cartagine fu spesso vittima di colpi di stato militari, orditi soprattutto da nobili ai quali veniva affidata la direzione dei contingenti mercenari. Proprio per questo, era nota la ferocia usata dai punici per punire i generali sui quali gravasse anche il minimo sospetto di tradimento. Questa volta, come suggerisce Diodoro, si vociferava che Bomilcare nutrisse ambizioni personali sospette.

 

Ad ogni modo, quando i cartaginesi schierarono le loro truppe, dopo aver occupato una collina non distante dalla città, quello scontro dovette apparirgli facile. La superiorità numerica e il vantaggio di avere una cavalleria erano infatti circostanze più che favorevoli e per questo i punici pensarono di “travolgere” letteralmente i greci, schierando carri e cavalieri davanti alla falange e lanciando solo dopo la fanteria, col compito di dare il colpo finale ai nemici.

 

Appena notarono le ingenti forze nemiche le truppe greche ebbero un sussulto, ma anche in questo caso Agatocle mantenne il sangue freddo. Gli bastò un’occhiata per rendersi conto della situazione e per organizzare gli uomini. Sull’ala destra pose il figlio Arcagato, mentre lui stesso si piazzò a sinistra, proprio di fronte al battaglione sacro. Frombolieri e arcieri furono poi sparsi tra le ali per disturbare l’avanzata avversaria.

 

Terminate queste operazioni, Agatocle decise di sollevare il morale dei soldati e di ingannare il nemico. È il solito Diodoro a raccontarci gli astuti stratagemmi del tiranno: “I soldati avevano armi a stento sufficienti; i marinai erano disarmati: vedendo ciò, Agatocle distribuì loro i foderi degli scudi, cui faceva applicare dei bastoncini in modo da tenerli tesi, a imitazione della forma rotonda dello scudo; non erano in nessun modo utili alla bisogna, ma visti da lontano, da chi non sapesse la verità, potevano avere la parvenza di armi. Vedendo poi che i suoi soldati erano impressionati dalla superiorità numerica tanto della cavalleria quanto della fanteria dei barbari, fece liberare delle civette sparse in mezzo all’esercito; se l’era procurate proprio per i casi in cui la truppa fosse giù di morale: le civette infatti, volteggiando sopra la falange, vanno a fermarsi sugli scudi e sugli elmi e dissipano ogni paura nei soldati, perché tutti lo prendono come un buon augurio visto che quell’uccello è considerato sacro ad Atena”.

 

Sul campo di battaglia, la superiorità strategica di Agatocle fu determinante. Non sappiamo la durata esatta dello scontro, ma da quanto intuiamo dal racconto di Diodoro non dovette essere lunghissimo.

 

La cavalleria scagliata dai punici fu annientata. I greci, opportunamente addestrati, riuscirono infatti a respingere i cavalieri con lanci di frecce e pietre, mentre neutralizzarono i carri aprendo i ranghi al momento opportuno,  evitando così che la falange fosse scompaginata. Anche il battaglione sacro dovette cedere, dopo la morte di Annone nel corso del combattimento.

 

A questo punto, mentre le forze di Agatocle stavano per prevalere, Bomilcare, invece di prestare aiuto alla parte più debole del suo schieramento, inspiegabilmente si ritirò.

 

Non sappiamo con certezza le ragioni di questa scelta, tuttavia è lecito pensare che il punico volesse approfittare dell’ormai probabile sconfitta per garantirsi una sorta di esercito personale, utile a concretizzare le sue ambizioni politiche. I comportamenti tenuti da Bomilcare nei prossimi eventi confermeranno tale ipotesi.

 

Per Agatocle, l’esito della battaglia fu un trionfo. Le perdite dei greci furono contenute, appena duecento, mentre i cartaginesi lasciarono sul campo seimila uomini (anche se alcune fonti riducono il numero fino a duemila). Con forze nettamente inferiori, il siracusano era stato in grado di rovesciare le sorti del combattimento, infondendo fiducia alla truppa.

 

Non si trattava però dello scontro finale. Nonostante il duro colpo subìto a livello psicologico, le risorse dei punici erano ancora consistenti.



 

 

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