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N. 50 - Febbraio 2012 (LXXXI)

adolf Eichmann - parte I
un volto fantasma

di Daniela Coppola

 

Sono passati cinquant’anni da quell’11 aprile 1961, quando incominciò il processo a Adolf Eichmann. Fu impiccato pochi minuti prima della mezzanotte del 31 maggio 1962. Il corpo venne cremato e le sue ceneri disperse in mare. La condanna inevitabile: già il Tribunale Militare Internazionale lo aveva precedentemente giudicato affermando che eseguire ordini contrari ai principi della morale e della coscienza, calpestando leggi fondamentali del vivere civile, non potevano giuridicamente né moralmente configurare alcuna attenuante.

 

La strenua difesa dell’ufficiale delle SS in merito alle accuse, il suo “obbedivo a ordini superiori” non poteva essere accettato. Così tuonava il Pubblico Ministero dallo scranno della Accusa: “la legislazione israeliana rifiuta una tale linea di difesa, e proverà con questo processo che l’imputato agiva di propria iniziativa scavalcando gli ordini ricevuti, mostrandosi zelante agli occhi dei suoi superiori in un’attività consona alla sua vocazione” (Gideon Hausner -“Sei milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann” Einaudi).

 

L’ondata emotiva che travolse il popolo ebraico, dalla cattura all’esecuzione, fu imperiosa e travolgente: il maggior responsabile dello sterminio di 6 milioni di ebrei (calcolo desunto dai verbali minuziosamente redatti dai burocrati della morte dei vari universi concentrazionari) era stato catturato dopo 15 anni di ricerche forsennate e per lungo tempo infruttuose.


Hannah Arendt, che aveva seguito direttamente il processo come inviata del “New Yorker”, coniò per Eichmann la definizione che lo descrisse e lo registrò poi nella Storia: non un mostro, ma l'incarnazione dell'assoluta banalità del male (“La banalità del male- Eichmann a Gerusalemme” – Feltrinelli). Non un uomo “specializzato” nel compiere del male e neanche un folle, esaltato dal piacere di eseguire gesti malvagi. Un uomo che appartiene alla categoria degli uomini normali, che banalmente ci assomigliano.

 

Il Procuratore Generale Gideon Hausner dipinse Eichmann come un personaggio feroce, peggiore di Gengis Khan, Attila e Ivan il Terribile, addirittura più feroce dello stesso ideatore del “male assoluto” incarnato da Hitler; lo storico David Cesarani (“Adolf Eichmann – Anatomia di un criminale” – Le Scie Mondadori) descrive Eichmann come “un uomo ormai assuefatto all’orrore e incapace di normale compassione umana”. Insomma un personaggio, Eichmann, che oscilla tra il mostruoso di Hausner e il banale della Arendt, con la specificazione di Cesarani dell’uomo comune –ordinary man-, definizione sostenuta anche dai colleghi Saul Friedlander e Christopher R. Browning.

 
Eichmann, un individuo che aveva saputo compiere quegli atti criminali – organizzare sapientemente la selezione, il trasporto e lo sterminio di uomini, donne e bambini- costruendo una potente macchina distruttiva ben oleata (perfino gli ordini per il gas Ziklon B erano firmati di suo pugno) ed era stato anche capace di far perdere le sue tracce alla vigilia della disfatta germanica.


Adolf Eichmann (nato a Solingen nel 1906) fugge da Praga verso l’Austria nel maggio 1945. (“E’ lui: Eichmann” di Moshe Pearlman – Ed. Arnoldo Mondadori 1961). Da qui incomincia la prima parte della sua fuga, una storia affascinante come un romanzo d’avventura. La moglie Veronika Liebl, sposata il 21 marzo 1935, insieme ai suoi tre figli, abitavano ad Alt Aussee, non lontano da Linz. Probabilmente Eichmann aveva avuto l’intenzione di raggiungerli e fuggire insieme a loro. Ma proprio a Linz (sulla sponda corrispondente del Danubio erano di stanza gli americani, mentre invece, dalla parte opposta vi erano insediati i sovietici) nel maggio 1945 fu catturato da una pattuglia americana e rinchiuso in un campo di concentramento.

 

Si era presentato sotto la mentita identità di uomo d’affari tedesco (sembra utilizzando le generalità del suo droghiere) di nome Barth e non era stato riconosciuto. Quando però venne sottoposto a visita medica gli riscontrarono tatuato, nella parte interna del braccio sinistro, qualche centimetro sotto l’ascella, il gruppo sanguigno e il numero di matricola delle SS. La consueta pratica adottata dal corpo militare tedesco costrinse Eichmann a confessare al tenente americano di essere un ufficiale delle SS, riuscendo però a convincerlo di aver fatto parte di un reparto combattente, negando di conoscere aspetti politici delle SS. Trasferito a Weiden, in un campo di prigionia riservato agli ufficiali del suo rango, riesce a far correggere i suoi dati: non più Barth, ma Eckman, già tenente nella 22^ Divisione di Cavalleria, originario di Bratislava. Nel luglio 1945 viene di nuovo trasferito e giunge nel campo di prigionia di Oberdachstaetten dove vi rimane fino al gennaio 1946.


Nel frattempo, nel novembre 1945 era cominciato il Processo di Norimberga -il Tribunale Militare Internazionale per i Crimini di Guerra Nazisti- e il nome di Eichmann (oltre che la sua macabra efficienza) comincia a diffondersi come una delle più sinistre figure, responsabili dello sterminio del popolo ebraico. Nel gennaio 1946 era stato chiamato a testimoniare l’amico ed ex collega delle SS, il “Barone” Dieter Wisliceny, che descrisse punto per punto l’alta partecipazione e responsabilità che l’ufficiale tedesco deteneva all’interno del programma di sterminio. E anche altri caporioni, tra novembre ’45 e gennaio ’46, avevano già testimoniato contro Eichmann.


Dalla sua blanda prigionia, non ci volle tanto a capire che, nonostante il lavoro certosino di distruzione di ogni traccia di responsabilità (Incluse le fotografie che lo ritraevano da solo o insieme ai suoi colleghi) era giunto il momento di fuggire lontano il più possibile. Infatti non tutto era stato distrutto e qualcosa cominciava a emergere: il rischio di essere riconosciuto era diventato molto alto.


I primi di marzo del 1946 Eichmann si allontana segretamente dal campo di Oberdachstaetten insieme ad altri ufficiali e raggiunge Prien. Ci sono nuovi documenti pronti per lui, ora si chiama Otto Heninger, e un infermiere prima di lasciare il campo gli brucia il tatuaggio posizionato sotto l’ascella: la scritta andrà via, ma la cicatrice rimarrà indelebile. Si ferma sei settimane circa a Prien poi, un altro ex sostenitore degli ideali nazisti, lo avrebbe aiutato a trasferirsi in un piccolo villaggio della Germania settentrionale presso Celle, a circa 120 miglia a occidente da Berlino. Per tre anni circa, Eichmann conduce una nuova vita da boscaiolo, serena e silenziosa, immersa nella natura della sua amata terra germanica.


Da questo luogo apprende che la caccia nei suoi confronti (ma anche di altri ex colleghi aguzzini ) continua, e che nel frattempo, nel 1948, era sorto lo Stato di Israele. L’esigenza di riconciliarsi con la famiglia era ovviamente molto forte. Una fuga in Medio Oriente(naturalmente verso la sponda arabica) era ormai da escludere: lo avrebbero riconosciuto immediatamente e avrebbe messo così a rischio, oltre se stesso, anche tutta la famiglia. Non restava che il Sudamerica, già terra di accoglienza per molti ufficiali nazisti.

 

La più attiva organizzazione si chiamava Odessa e attraverso il Vaticano, ottiene nuovi documenti a nome di Ricardo Klement, di sette anni più giovane rispetto alla sua reale identità, scapolo e apolide. E’ la fine di giugno del 1949 quando si imbarca per l’Argentina dove approderà a metà luglio, a Buenos Aires. Una vita tranquilla frequentando pochi circoli fidati prima di ottenere definitivamente la “cedula”: dapprima allevatore di conigli, poi assunto come capomeccanico alla Mercedes di Buenos Aires.


La moglie Veronika nel 1947 aveva tentato di ottenere un certificato di morte presunta. Un funzionario di Praga aveva affermato con atto notorio di essere stato testimone della morte di Eichmann avvenuta il 30 aprile 1945 durante gli ultimi combattimenti. Ma il funzionario altri non era che il cognato di Eichmann (si chiamava Lukas ed era il marito della sorella della moglie Veronika); non viene dunque ritenuto credibile. Anzi, l’iniziativa finisce con l’ alimentare il sospetto che Eichmann sia vivo, rinfocolando così le ricerche.


Eichmann, una volta raggiunta l’Argentina e trovata una adeguata sistemazione, scrive alla moglie manifestando così la sua presenza e la richiesta di raggiungerlo con discrezione in Sudamerica con i figli. E’ il 30 giugno 1952 (nel frattempo è passato un anno dalla lettera del marito): Veronika Liebl -ottenuto il passaporto a suo nome- parte da Genova per l’Argentina, insieme ai suoi tre figli, e si ricongiunge con Eichmann che non vede da ben 7 anni.


Ben Gurion (futuro Primo Ministro di Israele nel 1948) uno degli organizzatori del gruppo paramilitare ebraico l'Haganah, insieme a Simon Wiesenthal, è stato tra i più agguerriti “cacciatori” dell’ideatore della soluzione finale degli ebrei. Già dalle testimonianze dei superstiti, al ritorno dai lager, e dopo le deposizioni al Processo di Norimberga, l’Haganah, prima di ancorarsi in difesa del neonato Stato israeliano, si prodigò alla ricerca di questo orribile personaggio. Fu Arthur Pier l’artefice, insieme a Manus Diamant, del ritrovamento delle fotografie che Eichmann credeva di aver del tutto distrutto, riuscendo così a restituire un volto a quell’ignoto terribile fantasma.


Arthur Pier, su disposizione dell’Haganah, si era recato dal “Barone” per farsi ripetere in maniera diretta e dettagliata le informazioni su Eichmann. Wisliceny ripete il numero di tessera SS -889895- rilasciata l’11 aprile del 1932, il numero di matricola SS -45326- (oltre al gruppo sanguigno) tatuato sotto il braccio sinistro e l’ascella, ma non fornisce nessun dettaglio sui nomi delle amanti e soprattutto nessuna foto dell’ufficiale tedesco.

 

Il “Barone” propone ad Arthur Pier di recarsi da Weisel, un sottoposto di Eichmann che aveva lavorato con lui dal 1938 fino alla sua fuga da Praga e che ora si trovava agli arresti nella prigione centrale di Vienna. Weisel aveva confessato il nome di due amanti di Eichmann: una si chiamava Margit Kutschera (che gli era rimasta a fianco a Budapest fino al 1944), ma di cui ormai si erano perse le tracce. Ma forse valeva la pena di cercare l’altra sua storica amante: Maria Masenbacher, di Doppel, ex proprietaria di una fabbrica di cartone, poi ceduta alle SS che l’avevano trasformata in un campo di rieducazione degli ebrei. Ma neanche di lei sembrava essere rimasta traccia. Senonchè l’albergatore della locanda Woss -dove spesso si soffermava Eichmann- indicò a Pier Arthur il nuovo indirizzo della Maria Masenbacher: Harbachsiedlung n.20 –ingresso 1 –Sobborgo residenziale Urfahr, Linz, Austria.

 
Artuh Pier spedisce a incontrare la donna il giovane Manus Diamont: biondo, statura media, di bell’aspetto che conosceva la lingua tedesca, con la consegna di entrare nelle grazie della donna, spacciandosi per un ex collaborazionista olandese. Il giovane si era presentato all’indirizzo di Urfahr dove gli aveva aperto la porta una donna bruna, sui 35 anni circa, ordinaria, sottile, con una dentatura sporgente. Viveva sola perché divorziata dal marito da circa 15 anni. Diamont ne seppe catturare la fiducia e l’amicizia e tempo poche settimane dopo, la donna condivise con lui il suo prezioso e personale album delle fotografie da dove estrasse la foto di Eichmann: “…questo è il mio Adolf!”. Con la scusa di cercare tessere annonarie false, la Polizia locale su pressione ebraica perquisisce la casa della Masenbacher e Diamont di nascosto sottrasse dall’album la foto che ritraeva Eichmann.


La foto viene copiata e diramata sia al Servizio speciale americano che alla polizia austriaca. Si cerca ovunque, ma ovunque non si trovano tracce di Eichmann. Inoltre il padre e i fratelli di Eichmann che abitano ancora a Linz confermavano la morte del congiunto, la moglie e i figli non ne sapevano nulla, l’imminenza della proclamazione dello Stato d’Israele, tutto remava a favore di Eichmann che ebbe così modo di nascondersi prima e fuggire poi in Argentina, indisturbato.


Ma non furono gli uomini del Mossad, il Servizio segreto israeliano, a scoprire Eichmann in Argentina, bensì un pensionato ebreo cieco. Non servirono le fotografie per tanto tempo ricercate, bastò un non vedente turbato, rimasto colpito dal fatto che la figlia frequentasse un giovane amico che si faceva chiamare Klaus Klement, ma anche Eichmann, e che pronunciava frasi antisemite senza scrupolo. Lo segnalò a un amico, ma per lungo tempo il Mossad non lo ascoltò. Poi un giorno Wiesenthal...


Ma questa è un’altra storia.



 

 

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