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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

ADDIO A HOBSBAWM
LO STORICO DEL “SECOLO BREVE”

di Massimo Manzo

 

“La maggior parte degli esseri umani si comporta come lo storico: riconosce la natura della propria esperienza solo alla fine, retrospettivamente...”. Era questo uno degli aforismi più celebri di Eric J. Hobsbawm, lo storico che come nessun altro ha saputo interpretare e raccontare il 900, con le sue contraddizioni, le sue tragedie, i suoi momenti esaltanti, rimanendo sino alla fine uno dei punti di riferimento non solo per chi della storia ha fatto la sua professione, ma per chiunque voglia capire il mondo attraverso essa. E la natura dell’esistenza di Eric Hobsbawm, scomparso a Londra nell’ottobre scorso, è stata davvero straordinaria.

Nato ad Alessandria d’Egitto novantacinque anni fa, nel 1917, da una famiglia ebreo-austriaca, a causa delle persecuzioni razziali perpetrate dal regime nazista fu costretto a lasciare Vienna e Berlino per la Gran Bretagna, dove da allora visse cominciando a coltivare, durante i suoi studi universitari a Cambridge, un fortissimo interesse per la ricerca storica. Dopo la guerra iniziò una brillante carriera accademica avvicinandosi all’ideologia marxista e alla fabian society, movimento politico diffuso in Inghilterra a partire dalla fine dell’ottocento, al quale dedicò la tesi di dottorato.

Forse inconsciamente influenzato dall’esperienza traumatica del trasferimento che aveva dovuto subire da ragazzino, o curiosamente destinato a ciò dall’anno della sua nascita, marxista Hobsbawm rimase tutta la vita, benché dopo la feroce repressione sovietica di Budapest del 1956 fu spinto a rivalutare le gravi storture che avevano caratterizzato l’esperienza dell’ Urss.

Nonostante le sue convinzioni politiche scandalizzassero molti intellettuali in occidente, valutare l’immensa opera storiografica di Hobsbawm con gli occhi del pregiudizio ideologico sarebbe un errore imperdonabile.

 

Il suo fu invero un marxismo calato nella realtà storica, mai cieco ma sempre giustificato da una visione lucida e critica della realtà; il fatto stesso che dopo la caduta dell’Unione Sovietica Hobsbawm non abbia rinnegato le sue idee (a differenza di molti altri) la dice lunga sull’onestà intellettuale dell’uomo e sulla ponderatezza delle sue idee, lontanissime dall’integralismo filosovietico. Per spiegare le sue posizioni, infatti, candidamente ammetteva: “non ho mai cercato di ridimensionare le devastanti conseguenze di quello che è successo in Russia, ma nei primi giorni del comunismo mi ero convinto che, in mezzo alle lacrime e all’orrore, un nuovo mondo stava nascendo”.

Profondo conoscitore della politica italiana, Hobsbawm fu grande amico di Giorgio Napolitano, che aveva conosciuto tra gli anni sessanta e settanta e con il quale mantenne uno stretto legame. Celebre è rimasto il libro “intervista sul PCI”, scritto a due mani, in cui lo storico inglese interrogava nel 1975 l’allora esponente dell’ala comunista “moderata” sulle possibili evoluzioni della politica italiana e sul ruolo che avrebbe potuto giocare il partito nell’ottica di un bilanciamento tra riformismo sociale e inquadramento nelle forze democratiche del paese. L’ammirazione che aveva nei confronti di Hobsbawm ha portato Napolitano a definirlo, all’indomani della sua scomparsa “il maggior storico del Novecento''.

Sarebbe riduttivo commentare in poche righe tutte le opere dello storico inglese, perché ognuna meriterebbe un discorso approfondito. Dai suoi scritti giovanili, dedicati all’analisi del movimento operaio inglese, fino ai saggi in cui affrontava lo studio delle rivoluzioni inglese e francese o coniava nuove formule come quella di “invenzione della tradizione”, egli dimostrò infatti di saper coniugare il rigore scientifico e la grande capacità di sviscerare situazioni storiche problematiche all’abilità nello scrivere, che rendeva i suoi testi comprensibili ai non “addetti ai lavori”.

Nella sua lunga carriera, così densa di successi e di riconoscimenti da parte della comunità scientifica, però, il saggio che più di ogni altro rese Hobsbawm noto al grande pubblico fu “il Secolo breve” (Age of Extremes -The Short Twentieth Century 1914-1991) pubblicato nel 1994, con il quale ripercorse i grandi eventi, spesso traumatici, che segnarono la storia dell’umanità nel XX secolo.

 

Per Hobsbawm il novecento è “breve” poiché inizia nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale, e finisce con la dissoluzione del blocco comunista nel 1991. Con arguzia geniale, lo storico inglese riuscì, attraverso l’invenzione di tale espressione entrata subito nell’immaginario collettivo, a far comprendere a molti l’essenza del 900, creando un’opera che, per contenuti, teorie e stile rimane un caposaldo imprescindibile a chiunque voglia affrontare un dibattito storiografico sul novecento.

 

Il “breve” novecento per Hobsbawm si contrapponeva in modo speculare e simmetrico al “lungo” ottocento (altra efficace formula da lui coniata) il quale invece comprendeva il periodo che va dal 1789, fatidica data della rivoluzione francese, al 1914, svelando lo strettissimo legame esistente tra i due periodi nel complesso della teorizzazione hobsbawmiana.

Già leggendo l’introduzione del “Secolo breve” si ha la sensazione di essere di fronte ad un testo accattivante, che, nonostante la mole, cattura il lettore accompagnandolo nel corso del tormentato novecento: si parte così da quella che lo storico definisce “età della catastrofe”, ovvero il trentennio dei due sanguinosi conflitti mondiali, passando per “l’età dell’oro”, caratterizzata dall’immenso sviluppo economico e scientifico dell’occidente nel dopoguerra, fino ad arrivare a “la frana”, ultima parte del saggio dedicata al crollo dell’Urss e alla fine della guerra fredda.

Sempre nell’introduzione, è possibile scorgere il significato autentico che Hobsbawm dava alla missione dello storico: “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l'esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l'attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi”.

In quest’ottica, per non dimenticare le immani tragedie del XX secolo, ma al contrario per scolpirle nella mente delle nuove generazioni come monito per il futuro, il “Secolo breve” è il più grande regalo che Hobsbawm potesse fare a tutti noi.



 

 

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