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N. 79 - Luglio 2014 (CX)

C’ERA UNA VOLTA L’ACCORDO SYKES-PICOT
UNA NUOVA FORMA PER IL MEDIORIENTE

di Filippo Petrocelli

 

C’era una volta l’Asia minor Agreement, anche conosciuto come accordo Sykes-Picot, ovvero il patto segreto che tracciava gli equilibri in Medioriente a partire dalla prima guerra mondiale, ma adesso sembra solo un ricordo.

 

Stipulato in segreto fra Francia e Gran Bretagna nel marzo del 1916, aveva l’obiettivo di sancire la spartizione dell’Impero Ottomano, designando le nuove aree di influenza fra le potenze che stavano vincendo sul campo la Grande Guerra, così come la nascita di nuovi stati e relativi confini.

 

Ai britannici l’Iraq, l’Iran e la Giordania mentre ai francesi la Siria e il Libano più il libero accesso al porto di Haifa. Ma per il Regno Unito anche un’unità di intenti con una nuova rampante dinastia, i Saud, nuovi padroni dell’Arabia Saudita e futuro architrave della strategia britannica in Medioriente insieme agli Hascemiti in Giordania. Per i francesi invece la garanzia di poter contare su una cospicua minoranza cattolica a cavallo del Levante fra Siria e Libano.

 

In calce al patto anche la promessa del sostegno alla nascita di uno stato o di una confederazione di stati arabi, per favorire appunto una “rivolta araba”, una sollevazione nazionalista in chiave anti-ottomana.

 

Sono molti gli accordi che seguirono la linea tracciata da Sykes-Picot, anche perché il definitivo collasso dell’Impero Ottomano e il crescente protagonismo del movimento arabo nazionalista e di quello sionista, concentravano le attenzioni del mondo su quell’area.

 

Dalla dichiarazione di Balfour al trattato di Sevres, passando per molti accordi – segreti e non – fino ad arrivare ai trattati di pace seguiti alle guerre arabo-israeliane, la spartizione del Medioriente è rimasta più o meno come quella voluta e immaginata dal britannico Mark Sykes e dal francese François Georges-Picot.

 

Quei confini sono rimasti stabili, mentre le influenze di Francia e Gran Bretagna nell’area sono rimaste evidenti a dimostrazione dell’onda lunga della colonizzazione.

 

Di esempi sul ruolo delle due potenze coloniali nell’area se ne contano a decine: dalla rimozione di leader scomodi – un esempio su tutti la rimozione di Mossadeq in Iran – passando alle ambiguità e alle responsabilità del governo britannico e francese durante i primi conflitti fra arabi e israeliani – come nella crisi di Suez – arrivando alle partneship e ai protettorati della seconda metà del Novecento, i governi britannici e francesi hanno sempre considerato il Medioriente come il proprio “cortile di casa”.

 

Cent’anni dopo però i confini tracciati fra gli stati sembrano obsoleti: a partire dall’intervento americano in Iraq nel 2003, la situazione è cambiata. Nel più classico degli schemi imperialisti, si è favorito il divide et impera che ha riacceso conflitti di natura etnico-religiosa.

 

E così alle entità statali designate dalle diplomazie coloniali di inizio secolo, sul campo si va sostituendo una realtà ben diversa, soprattutto nella Mezzaluna fertile.

 

L’Iraq è ormai uno stato al collasso: frammentato e diviso su basi confessionali-etniche, non somiglia più a uno stato moderno. In Siria invece, dopo oltre tre anni di guerra civile la situazione non migliora e a ridosso del confine iracheno si sono concentrati molti jihadisti attivi nel paese.

 

Come effetto di queste tensioni e come risultato delle politiche esclusiviste del premier iracheno Al-Maliki, sciita e molto vicino a Teheran, in Iraq si è scatenata una rivolta sunnita che ha pescato fra i troppi scontenti della situazione attuale.

 

Si è intrecciata una revanche tribale nella provincia occidentale di Anbar con un crescente fenomeno jihadista in Siria che necessitava di un “entroterra” in cui riorganizzarsi e che ha polverizzato i confini di un tempo consentendo ai jihadisti un’avanzata nel paese un tempo dominato da Saddam.

 

Nel frattempo la storia è scritta da ISIS, ossia Islamic Stato of Iraq and Sham che persegue la volontà di creare una califfato sunnita, una specie di Sunnistan, nella fascia di terreno che parte dall’Iraq e arriva in Libano.

 

Non a caso il suo leader, Al-Bagdadi, ha recentemente invitato tutti i musulmani a raggiungere il califfato e ha ribadito in un suo discorso quanto Iraq e Siria come singoli stati non debbano più esistere. A fronte di questa situazione i curdi nel nord-est del paese si sono organizzati avanzando in maniera esponenziale nel loro territorio.

 

I peshmerga, ossia i combattenti curdi, sono arrivati a Kirkuk, principale raffineria del paese e stanno contrastando le milizie dell’ISIS, ampliando e consolidando i confini del loro futuro stato, peraltro già formalmente autonomo, tanto che anche Netanyau si è espresso a favore di un Kurdistan indipendente sotto la guida di Barzani.

 

E se questa situazione appare in divenire, per il resto invece dovrebbe nascere una fascia sciita, una sorta di Sciistan che lambisce l’Iran, la parte meridionale dell’Iraq – quella di Najaf e Qom – passando per la Siria costiera e arrivando nel Sud del Libano.

 

Turchia e Israele, principali potenze della regione, avrebbero da guadagnare da una simile configurazione e Sunnistan, Sciistan e Kurdistan, come entità para-statali, sono a guardare bene, una riproposizione del piano Yodin, redatto dal consigliere per gli affari esteri di Sharon, Oden Yodin: il sogno di un grande Israele in un Mediorente frammentato, ovvero la più grande garanzia di stabilità e prosperità per il paese.

 

Per Ankara invece uno stato sunnita può solo tramutarsi in un partner privilegiato, da usare sia contro l’Iran, sia per destabilizzare ulteriormente la Siria. Poteri o equilibri?

 

La frammentazione etnico-confessionale di questi lembi di terra non è una novità.

 

L’unica cosa che appare certa al momento è che il Medioriente disegnato dalla diplomazia britannica e francese sul finire della Grande Guerra è ormai solo una lontana reminiscenza.



 

 

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