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N. 52 - Aprile 2012 (LXXXIII)

Badia di San Bartolomeo in Buonsollazzo
Un’antica abbazia del Mugello

di Salvina Pizzuoli

 

Come una vecchia signora anche di lei si può dire che gli anni ce li ha, si vedono, ma nonostante tutto se li porta bene; se poi fosse un po’ imbellettata, sarebbe ancora di notevole bellezza.

 

Alla tramontana di Monte Asinario, un miglio e mezzo circa lontano dall’antica strada maestra che da Firenze conduceva un tempo a Bologna, si scuopre una fabbrica ampia e magnifica, servita già ad uso di monastero, fino a che non piacque al Granduca Pietro Leopoldo I di sopprimerlo e, secolarizzatone ogni sua pertinenza, ridurlo a comoda abitazione o villa di campagna (Fontani, Viaggio pittorico della Toscana, 1827).

 

Nella radura erbosa, digradante e ben esposta al sole, là dove s’interrompe il bosco fitto di querce e soprattutto castagni, sulla via di Tassaia che porta a Polcanto da Vaglia e da Bivigliano, a pochi chilometri da Firenze, sorge la vecchia abbazia che le segnalazioni stradali indicano come benedettina, del XII secolo circa, detta del Buonsollazzo, probabilmente da bono solatio, luogo soleggiato.

 

Intorno si stende il bosco di castagni centenari dai tronchi nodosi, più in prossimità si possono riconoscere vecchi noci, meli e alberi da frutta inselvatichiti, quindi i pascoli e sullo sfondo il verde paesaggio del Mugello.

 

Storia e leggenda si intrecciano per raccontarne le vicende. La leggenda tramanda che fu edificata nel 988 da Ugo di Toscana là dove ebbe l’orribile visione dei tormenti infernali quando andando egli a caccia per la contrada di Buon sollazzo si smarrì per lo bosco… e capitò a’ una fabrica e quivi trovando uomini isformati e nuovi, gli pareva tormentassero uomini con le martella…fu gli detto ch’erano anime dannate e che a simil pene era dannata l’anima del marchese Ugo per la sua vita mondana, se non tornava a penitenza. Egli con gran paura si raccomandò alla Vergine Maria… e tornandosi a Fiorenza, tutto lo suo tesoro e della moglie vende, e fece fare sette badie…la seconda fu quella di Buon sollazzo dove ebbe la visione ( Raccolta di novellieri italiani, 1853).

 

A sostegno di quanto riportato dalla leggenda, un’epigrafe ed una tela, entrambe conservate nella sagrestia della chiesa della badia, di cui riferisce il monaco camaldolese Ignesti sulla Rivista Camaldolese del 1927.

 

L’epigrafe datata 1707, commemorava nella prima parte il fondatore e la sua orribile visione e nella seconda Cosimo III per i rinnovamenti architettonici operati:

 

HUGO.HETRURIE.CAMERTUM. SPOLETANORUMQUE.DUX ET MARCHIO. A DEIPARA.SEMEL ET ITERUM. ADMONITUS. UT A LIBERIORI. VITA .TEMPERARET. HOC TANDEM IN LOCO. INTERVENANDUM. HORRIBILI VISIONE PERTERRITUS.AD MELIOREM FRUGEM REVOCATUR.UNDE. DEO OPT.° MAX.° IN HONOREM EIUSDEM. B MAE VIRG. .ET SANCTI .BARTHOLOMEI APOSTOLI ECCLESIAM ET MONASTERIUM CONSTRUXIT. ETC

COSMUS III MAGNUS HETRURIAE DUX

ANNO R. s. MDCCVII

 

La tela, forse del XVI secolo, conservata sempre nella sagrestia, raffigurava la visione premonitrice del marchese.

 

Lo storico ottocentesco Repetti nel suo Dizionario scriveva invece che le più antiche memorie di questa Badia sono del secolo XI, quando il conte Ugo era già da gran tempo mancato ai viventi ritenendo favoloso il racconto del Villani, ripreso in seguito da vari narratori, su quanto occorso al marchese Ugo e sulla sua decisione di fondare sette badie.

 

La storia ci riferisce che nacque benedettina e data la prima attestazione nel 1084 attribuendone la fondazione a Gisla, figlia di Rodolfo signore di Carza Vecchia e di Tassaia, mentre altri studiosi la annoverano solo tra i donatori insieme ai suoi fratelli ed agli Ubaldini.

 

Nel 1321 passò ai Cistercensi dell’abbazia di San Salvatore a Settimo, per ordine del vescovo Antonio Orso e la chiesa si arricchì di un bel chiostro con colonne e capitelli cinquecenteschi, poi murato, forse perché pericolante, con le colonne e i capitelli ingoiati nelle pareti che lo racchiudevano.

 

La totale trasformazione, e non solo architettonica, si deve come scritto nell’epigrafe a Cosimo III Medici ( 1705) che la riedificò demolendo letteralmente la precedente chiesa romanica; affidò quindi il monastero alla cura dei frati Trappisti, i cistercensi riformati, che dettero impulso all’agricoltura ed alla pastorizia con campi coltivati e a vigna; la tennero fino al 1782 quando fu soppressa come badia da Pietro Leopoldo, detto il Granduca scaccino dall’Ignesti, per il suo progetto, iniziato nel 1733, di razionalizzazione dell’intera comunità cistercense in Toscana.

 

In seguito alla soppressione, il patrimonio economico ed il monastero furono venduti a privati, per essere riacquistato nel 1873 da Pierdamiano Marsili, Maggiore di Camaldoli diventando in seguito e fino al 1955 sede per i novizi. Fu via via abbandonato dai monaci, definitivamente intorno al 1988.

 

Dal 1990 è diventato ancora di proprietà privata, cambiando fino ad ora diversi proprietari.

 

La lunga storia del monastero è stata segnata da una serie di vicissitudini, in un’alternanza di prosperità e degrado.

 

Oggi possiamo ammirare la chiesa nella facciata voluta da Cosimo III Medici (su progetto dell’architetto Foggini), come lo stemma stesso ricorda, ma possiamo guardarla da lontano e dall’esterno; la storia più recente, a memoria d’uomo, possiamo invece ascoltarla dalla voce del custode, uno del luogo, nato proprio in uno di quei poderi che occupano i fianchi delle colline.

 

Racconta che la chiesa all’interno è quasi spoglia degli arredi che gli studiosi e lontani visitatori tramandano: un organo acquistato nel 1775, anche se di seconda mano, proveniente dalla chiesa del soppresso monastero del Ceppo di Firenze; le statue in stucco di Giuseppe Broccetti (1684-1733) del 1709 circa, raffiguranti una Madonna con Bambino, san Bartolomeo e san Bernardo; nel coro le formelle ovali, opera attribuita a Broccetti, raffiguranti gli evangelisti, la vergine e i santi, spostati poi e chissà perché, nel chiostro murato; un bel coro in noce massello; la struttura muraria ricca di marmi, ed un tempo già corredata di Pitture di Artisti assai valenti (Fontani).

 

Ai tempi, quando ero giovane, racconta il custode della proprietà, tutte queste colline erano un giardino. Opera dei contadini delle fattorie che aravano e seminavano a grano, pascolavano greggi e armenti e riuscivano a ricavare anche un vinello leggero dai filari di vigna che ciascuno curava personalmente.

 

Oltre il muro di cinta, sulla sinistra rispetto alla badia, si possono ancora distinguere, ricoperte di erbe, le colonne portanti della fornace e della cisterna, dove, racconta, venivano cotti i coppi, impastando nelle vasche l’argilla della vicina cava di Tagliaferro con il tufo, i cui stampi sono conservati nella badia.

 

Nonostante il decadimento il luogo conserva un fascino che cattura lentamente; il bosco bisogna infatti visitarlo più volte per scoprirlo, ma poi sa ammaliare con i suoi scorci, le nebbie che spesso lo avvolgono e ovattano, la neve che non di rado lo ammanta, il vento che ne scuote le fronde e i tronchi alti e sottili delle paline dei castagni. È possibile vedere caprioli e fagiani e lepri, ma anche una famiglia di cinghiali con i piccoli.

 

E il lupo. Sembra, racconta ancora il guardiano, che i lupi proprio non manchino.

 

In primavera il sottobosco è un tripudio di colori: crochi, primule, orchidee selvatiche e ciclamini e in autunno i rossi ed i gialli dominano in alto tra gli alberi e in basso, dove le foglie stendono un tappeto fitto e morbido. Aria buona, profumi a volontà e una vista superba sul Mugello.

E l’abbazia con la sua mole dimessa, aspetta una nuova rinascita. 



 

 

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