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N. 7 - Luglio 2008 (XXXVIII)

Wimbledon
La tradizione sopra ogni cosa

di Simone Valtieri

 

C’è una targa, affissa su un muro del residence Manor Court a Royal Leamington, piccola cittadina inglese a trenta chilometri da Birmingham. Liberamente tradotta recita così: “Nel 1872 il sindaco Harry Gem e il suo amico Mr. J. B. A. Pereira insieme al dottor Frederic Haynes e al dottor A. Wellesley Tomkins fondarono il primo circolo di tennis sull’erba nel mondo, e giocarono la prima partita nei prati qui attigui”. E’ da lì, da quella cittadina nella contea del Warwickshire, che indirettamente nasce Wimbledon, il più antico e prestigioso torneo tennistico del mondo.

In realtà il tennis giocato nel loro match inaugurale dai quattro esimi personaggi sopra citati, era sport ben lontano da quello che oggi noi tutti conosciamo, visto anche il fatto che il vero e proprio gioco del tennis fu “brevettato” dal maggiore inglese Walter Clopton Wingfield, il 23 febbraio del 1874, cioè solo due anni più tardi. L’antenato era il “jeu de paume”, letteralmente “gioco del palmo”, in cui si usava, appunto, il palmo della mano al posto della racchetta e le cui regole furono codificate nel 1592 a Parigi. Solo successivamente si iniziarono ad utilizzare rudimentali racchette in legno. In Italia, praticata già nel XIII secolo, esisteva la pallacorda, chiamata così in quanto bisognava mandare la palla nel campo avversario facendola passare sopra una cordicella tesa a metà dello stesso. In ogni caso nel maggio del 1875 vengono stabilite venticinque regole di gioco e il primo campionato di tennis della storia si svolge due anni più tardi a Wimbledon, un quartiere periferico di Londra.

Torniamo per un attimo a Royal Leamington. La città si fregia del prefisso “Royal” per il fatto che la regina Vittoria vi soggiornava periodicamente, proprio al Manor Court. Il fatto è che un tempo l’unica palazzina di mattoncini rossi presente in quel luogo era la residenza settecentesca di un sindaco, che divenne poi una scuola, poi un ospedale e poi ancora un club riservato ai soli nobili e reali: il Manor Court appunto. Da venti anni a questa parte invece è presente un altro edificio in mattoncini rossi, un residence di sette piani, che ha rilevato il nome dell’elitario circolo, e che è stato edificato accanto alla vecchia sede, proprio nel posto in cui una volta sorgeva lo storico campo da tennis del primo match della storia, sollevando, come si può facilmente immaginare, un nugolo di polemiche.

Ad organizzare il torneo è, dal 1877, l’All England Lawn Tennis & Croquet Club, oggi uno dei più esclusivi club del mondo. I membri permanenti possono essere al massimo 375, non uno di più. Per entrare a farne parte e sorseggiare il tè con gli altri membri nella Club House, bisogna essere invitati da almeno quattro soci previa approvazione del consiglio direttivo. Sulla porta del Club è scritta una frase tratta dalla poesia If del poeta Rudyard Kipling: “Se puoi andare incontro al trionfo e al disastro, e trattare questi due impostori allo stesso modo”. (La poesia elenca una serie di consigli e obiettivi che il figlio dello scrittore dovrebbe raggiungere per diventare adulto n.d.r.)

E’ luogo comune, forse neanche tanto inventato, dire che gli inglesi siano tradizionalisti. Se questo è vero, Wimbledon ne è l’esempio più evidente. E’ luogo comune anche dire che gli inglesi siano popolo ricco di contraddizioni. Se questo è vero, Wimbledon ne è ancora l’esempio più evidente. In poche parole Wimbledon è l’Inghilterra. A cavallo tra giugno e luglio di ogni anno, il Paese intero segue con passione le vicende sportive dei propri beniamini, che in realtà non trionfano sull’erba locale da oltre settant’anni, e di tutti i campioni internazionali che si sfidano per vincere il trofeo in palio in un tabellone che conta 128 iscritti, il tutto condensato nelle due settimane in cui la pallina gialla schizza da una parte all’altra sull’erba del circolo. In nessun evento sportivo al giorno d’oggi vi è un profumo di “antico” come quello che i giocatori respirano varcando i Doherty Gates, la celebre entrata del campo centrale. Profumo di “antico”, ma anche anacronistici problemi organizzativi che ogni anno irritano la gran parte degli atleti partecipanti.

Andiamo per ordine. Wimbledon mantiene intatte nel tempo quante più tradizioni è possibile mantenere in oltre centotrenta anni di storia. Essendo il tennis sport dalle “nobili origini”, o meglio, “originato da nobili”, Wimbledon ancora oggi conserva un alone aristocratico, mondano e molto elitario. Non è roba per il popolo, in poche parole, anche perché il costo di un biglietto sul campo centrale per una partita della seconda settimana, ossia della fase calda del torneo, supera quelle che sono le possibilità economiche di un cittadino medio, anche se in verità il problema maggiore non è sborsare oltre 100 euro per il posto più economico, ma trovare un qualsiasi tagliando d’ingresso. Per i “Championships” in ogni caso, come chiamano il torneo da quelle parti, molti inglesi farebbero follie, e quelli che non possono si accontentano di seguirlo in televisione. Chi non farebbe follie in molti casi sono proprio i giocatori, a cui spesso le “rules” (regole) che l’All England Lawn Tennis & Croquet Club lascia pressoché immutate da cento e passa anni, non vanno proprio giù.

I tennisti si lamentano per prima cosa degli spogliatoi: alle teste di serie del torneo spettano quelli migliori, agli altri giocatori invece viene assegnato un posto più angusto e caotico, che rende anche difficile, ai giornalisti e ai supporter, rintracciare gli stessi dopo il match. Poi c’è il problema dei pass che ogni torneo distribuisce ai giocatori per gli allenatori, i parenti e gli amici, e che a Wimbledon non può essere più di uno, con le dovute eccezioni per gli idoli locali e internazionali. A tal proposito è significativo ciò che successe a Andrei Medvedev, giocatore ucraino che arrivò in finale al Roland Garros, prestigiosissimo torneo parigino, nel 1999. Giunto a Wimbledon chiese due pass per lui e per il massaggiatore, gli risposero che ne poteva avere solo uno, poi lo riconobbero e gli dissero “Ah, sì, è stato in finale a Parigi, dovrebbe averne due, ma non è possibile, sorry” suscitando le ire del tennista che replicò seccato che avrebbe preferito andare in vacanza due settimane, piuttosto che partecipare al torneo. Altra lamentela è quella di disputare molto spesso le qualificazioni e i primi turni del torneo su campi troppo piccoli, ravvicinati e con l’erba simile a quella di una brughiera.

Lo spirito fortemente aristocratico e tradizionalista del torneo emerge comunque da tanti altri piccoli particolari. Gli atleti sono obbligati ad indossare una tenuta rigorosamente bianca; il giudice di sedia quando annuncia il punteggio o presenta i contendenti, appella tutti i giocatori come “Gentleman” o semplicemente con il cognome, mentre le giocatrici sono chiamate “Miss” o “Mrs”. I colori simbolo del torneo sono il verde e il viola, presenti nel logo ma soprattutto nella moltitudine di fiori disseminata per tutto il villaggio e gli impianti. Il torneo si disputa ogni anno sei settimane prima del primo lunedì di agosto, ne dura due e non si gioca nella domenica centrale in onore della Regina, salvo tre eccezioni nella storia, quando la pioggia insistente costrinse a giocare anche in quel giorno per recuperare alcuni incontri. Il pubblico del torneo è solito mangiare fragoline del Kent annegate nello champagne, o sorseggiare il Pimm, un cocktail a base di gin, limonata e frutta. Si calcola che i 500 mila appassionati che accorrono ogni anno consumino complessivamente ventisette tonnellate di fragole, dodicimila bottiglie di champagne e ottantamila bicchieri di Pimm.

La pioggia è sempre malauguratamente protagonista a Wimbledon. Quasi più caratterizzante dell’erba. Grazie alle bizze meteorologiche londinesi è diventato celebre Sir Alan Mills, un distino signore sempre in doppiopetto, che entra in campo insieme al giardiniere, si china a tastare il terreno, osserva il cielo, pensa, rimugina, ripensa e poi dà l’ordine a un esercito di addetti di srotolare la coperta per proteggere i campi. Da quando il giudice decide di sospendere l’incontro, i giardinieri sono in grado di stendere il telo in meno di trenta secondi, e ciò non deve sorprendere in quanto essere groundsmen in Inghilterra è un mestiere considerato molto qualificato e che necessita di una laurea. Il telo coprente è tecnologico e lascia filtrare aria e luce, è così da quando nel 1996 tre giorni di campo coperto a causa della pioggia rese il prato inutilizzabile. L’erba, piantata su uno strato di argilla che rende dura la superficie e permette alla pallina di rimbalzare, è ottenuta da una miscela di semi di varie qualità, per far sì che i fili rimangano verticali anche dopo essere stati calpestati. Nonostante le buone intenzioni, ottenere questo risultato è in realtà quasi impossibile, tant’è che dopo pochi giorni di gara il terreno diventa un misto di terriccio, sabbia e ciuffi d’erba logori che è reso agibile soltanto grazie al grandissimo lavoro di preparazione prima e di manutenzione durante, che gli addetti fanno quotidianamente.

In ogni caso l’erba per Wimbledon è considerata sacra e per tradizione prima del torneo l’accesso al campo centrale è permesso soltanto a quattro donne che vi giocano per collaudare il prato. Dopo il torneo il manto erboso può essere calpestato solo dal presidente del club e dai suoi ospiti ma soltanto la settimana successiva alla finale, perché dal giorno seguente bisogna iniziare a preparare il prato per l’anno successivo. Nell’impianto Centre Court è aperto tutto l’anno un museo del tennis, forse unico al mondo, in cui è conservato un volume stampato a Venezia nel 1535, “Trattato del giuoco della palla” che descrive minuziosamente un antenato del tennis, praticato nel Rinascimento nei cortili dei monasteri o nelle prigioni. Nel museo gestito da una elegante signora, Honor Godfrey, è presente persino un tagliaerba del 1830 con il quale venivano rasati i prati per i giochi antenati del tennis.

Tante cose sono cambiate dall’originario torneo di Wimbledon del 1877. Il primo vincitore dei Championships fu un inglese, Spencer Gore, che trionfò in finale davanti a duecento spettatori ciascuno dei quali aveva sborsato uno scellino per godere dello spettacolo. L’unico evento disputato allora fu il torneo di singolare maschile, sette anni più tardi Wimbledon aprì alle donne, e la prima Miss ad aggiudicarsi il Rosewater Dish, un vassoio argentato che va in premio alla vincitrice, fu Maud Watson. Maud vinse il torneo sconfiggendo in finale sua sorella Louise. Uno storico dipinto le ritrae vestite e intabarrate dalla testa ai piedi durante la finale del 1884. L’anno successivo Maud bissò il successo battendo in finale la connazionale Blanche Bingley, confermando il suo titolo negli anni di quello che fu il primo dominatore del torneo: William Renshaw, capace di aggiudicarsi i campionati maschili ben sette volte di cui sei consecutive dal 1881 al 1886.

I primi vincitori del torneo erano tutti di nazionalità inglese, se non altro perché a parteciparvi erano soprattutto i giocatori d’oltremanica. La prima vittoria straniera che si ricordi fu quella della statunitense Mary Sutton in campo femminile nel 1905 e due anni più tardi quella dell’australiano Norman Brooks in ambito maschile. Brooks vinse nello stesso anno anche il torneo di doppio maschile, che si disputava dal 1879. Per il doppio femminile bisognerà attendere invece il 1913, anno in cui partì anche la competizione di doppio misto. Nei primi trentacinque anni di vita del pionieristico torneo, si ricordano i nomi degli inglesi Wilfried Baddeley e Arthur Gore, con tre affermazioni a testa, di Anthony Wilding, neozelandese che lo monopolizzò dal 1910 al 1913, ma soprattutto dei leggendari fratelli Doherty, Reggie e Laurie, che si aggiudicarono nove titoli su dieci tra il 1897 e il 1906, accaparrandosi contemporaneamente anche otto tornei di doppio. In campo femminile quattro Mrs britanniche su tutte si spartirono la gran parte dei successi in quel periodo: Blanche Bingley Hillyard vinse sei tornei, Lambert Chambers quattro, Lottie Dod, ancora la più giovane vincitrice dei Championships a meno di sedici anni, e Charlotte Cooper Sterry cinque, quest’ultima vincendo il suo ultimo titolo ben tredici anni dopo il primo. C’è da dire in ogni caso che in quegli anni vigeva la regola del challenge round, in pratica gli sfidanti si affrontavano tra di loro in un impegnativo tabellone dal quale il campione o la campionessa uscente era esentata. Così era più probabile che chi difendeva il titolo, senza tutte le fatiche delle qualificazioni, avesse buone chanches di riconquistarlo.

La prima guerra mondiale sospese inevitabilmente il torneo fino al 1919. Due anni dopo la ripresa del torneo fu decisa l’abolizione del challenge round, per questo motivo assumono particolare significato i sei titoli conseguiti dalla francese Suzanne Lenglen, cui se aggiungiamo gli altri sei titoli vinti nel torneo di doppio e i due in quello di doppio misto, si guadagna di diritto un posto di primo piano nella storia del tennis. Soprannominata “ballerina dei gesti bianchi”, Suzanne detiene un record particolare, quello di non aver mai ceduto un match point nel dopoguerra. Morì giovanissima a 39 anni di anemia, ma il suo gioco perfetto ed elegante la annovera ancora oggi tra le migliori giocatrici di sempre. Tutti i suoi titoli di doppio li vinse insieme all’americana Elizabeth Ryan, la doppista più vincente della storia del torneo con dodici affermazioni.

Contemporaneamente alla fine del dominio di Suzanne Lenglen in campo femminile, nacque quello dei suoi connazionali in campo maschile, i quattro moschettieri francesi Jean Borotra, Henri Cochet, René Lacoste e Jacques Brugnon. I primi tre si spartirono equamente i sei tornei dal 1924 al 1929, il quarto ebbe più fortuna nel doppio, aggiudicandosi quattro titoli. Erano comunque anche gli anni di William “Bill” Tilden, un esteta del tennis. Si dice di lui che studiasse ogni colpo direttamente sul manuale del tennis e si allenasse a riprodurlo quanto più fedelmente possibile alla descrizione dello stesso. L’americano, di intelligenza sopraffina e capace di aperture geometriche sul campo da gioco, vinse tre volte, nel 1920, 1921 e 1930. Dal 1927 al 1938 Hellen Wills Moody fu capace di vincere otto titoli di singolare femminile, record che rimarrà imbattuto fino agli inizi degli anni ’90.

E venne il 1936, anno topico per il tennis anglosassone. Fred Perry si era appena aggiudicato i terzi Championships consecutivi sull’erba verde del Centre Court, ma non immaginava, così come i suoi connazionali, che quello sarebbe rimasto per decenni l’ultimo titolo vinto da un inglese nel torneo di singolare maschile. Ancora oggi nessun altro suddito della regina dopo Perry è riuscito a conquistare la coppa in argento e oro che spetta al vincitore. Ci hanno provato in tanti, Bunny Austin già nel 1937 raggiunse la semifinale e la finale nel 1938, e lì si arrese. Nel 1961 Mike Sangster approdò alle semifinali, che furono l’ultima tappa anche per lui. Ancora alle semifinali si fermarono per ben tre volte Roger Taylor nel 1967, 1970 e 1973, e per quattro volte Tim Henman tra il 1998 e il 2002. In campo femminile la situazione è meno drammatica, visto che l’ultima a trionfare fu nel 1977 Virginia Wade.

Gli ultimi fuochi d’artificio del torneo, prima che altri fuochi di origine nefasta costrinsero gli organizzatori alla sospensione fino al 1946, li sparò Donald Budge, capace di aggiudicarsi i campionati al terzo tentativo nel 1937 e di bissare l’anno successivo compiendo un’impresa mostruosa, ossia aggiudicandosi tutti e quattro i tornei dello Slam, di cui Wimbledon fa parte insieme al Roland Garros di Parigi, agli Australian Open di Melbourne e agli U.S. Open di New York. In pratica un’impresa tanto difficile e prestigiosa da riuscire solo ad un altro tennista nella storia: Rod Laver nel 1962 e nel 1969. La guerra lasciò anche qualche ferita visibile su Wimbledon: in mezzo al campo centrale si aprì una voragine e le zone circostanti non erano in condizioni migliori. Questo non impedì però che il torneo ripartisse nel 1946. In campo maschile fino agli anni Sessanta non vi furono dominatori, ma vincitori differenti ogni anno, tra cui l’americano Jack Kramer, che nel 1946 dovette arrendersi a una vescica più che al suo avversario, il francese Yvon Petra, per poi rifarsi nel 1947. Nei sette incontri disputati in quell’anno vinse 137 games su 174, con il 78% ancora oggi score record per un tennista a Wimbledon. Tra le Miss erano gli anni del dominio a stelle e strisce, ininterrotto dal 1938 al 1958, con le affermazioni di campionesse quali, tra le altre, Louise Brough, Doris Hart, Maureen Connolly e Athea Gibson. La Connolly è una delle tre sole tenniste nella storia capaci di eguagliare le imprese di Budge e Laver e di vincere il “Grande Slam”, insieme all’australiana Margareth Smith-Court, che si affermò ai campionati tre volte tra il 1963 e il 1970, e la tedesca Steffi Graf che fece suo il torneo ben sette volte tra il 1988 e il 1996.

Siamo agli anni ’60, il grande dominatore del tennis mondiale e allo stesso tempo dominatore mancato di Wimbledon è Rod Laver. Già accennate le sue imprese, va aggiunto che Laver vinse il torneo nel 1961 e 1962, salvo poi non poter partecipare fino al 1968 perché fino a quell’anno il torneo era chiuso ai tennisti professionisti, e tale era diventato Laver nel 1963. Con l’inizio dell’era Open Rod Laver, forse il più grande tennista australiano di tutti i tempi, vinse altri due tornei e la domanda che rimarrà per sempre senza risposta è: “Chi avrebbe vinto i tornei dal 1963 al 1967 se vi avesse partecipato Rod?” La risposta non è così scontata, perché in quegli anni parteciparono al torneo altri grandi campioni, come i suoi connazionali Roy Emerson e John Newcombe, capaci di aggiudicarsi in carriera rispettivamente due e tre campionati, ma il talento e la bravura del tennista di Rockhampton fa intuire che probabilmente non sarebbero rimasti “solo” quattro i Championships vinti se avesse potuto partecipare a quelle edizioni.

Tra le donne in quegli anni è lotta aperta tra l’australiana Margaret Smith-Court, l’americana Billie-Jean Moffitt-King e la brasiliana Maria Ester Bueno. Le tre si aggiudicarono rispettivamente tre, sei e ancora tre Championships, per poi lasciare gradatamente spazio alla generazione successiva con Evonne Goolagong, altra australiana, capace di imporsi due volte a nove anni di distanza l’una dall’altra (1971 e 1980), Chris Evert, bellissima tennista bimane americana, capace di colpire la pallina elegantemente anche col rovescio a due mani, vincente nel 1974, 1976 e 1981, e Virginia Wade, ultima inglese capace di affermarsi in casa, nel 1977.

Dopo di loro due soli nomi: Martina Navratilova e Steffi Graf. Due delle leggende del tennis mondiale: la prima, cecoslovacca naturalizzata in seguito come americana, vincerà in totale nove tornei, record dei record, cominciando nel 1978 e terminando nel 1990, aggiungendo agli stessi altri dodici titoli tra doppio e doppio misto, l’ultimo dei quali nel 2003 alla straordinaria età di quarantasei anni. Martina terminerà la carriera più volte per poi riprenderla in ere tennistiche distanti ormai venti anni dalla sua ed essere capace di competere ancora a livelli altissimi. Concluderà, si crede ormai definitivamente, la sua carriera a Wimbledon con quell’affermazione in doppio misto dopo oltre 319 match giocati sull’erba dei campi londinesi, un record difficilmente battibile nei secoli a venire. La seconda, Steffi Graf, tedesca occidentale, capace di sette affermazioni due delle quali prima della caduta del muro di Berlino. Chiuderà la sua carriera nel 1999, con quasi il 90% di match vinti sul totale di quelli giocati (900 su 1015) dopo la conquista del ventiduesimo torneo dello slam, il Roland Garros di quell’anno, dietro in questa classifica solo a Margaret Smith-Court che ne collezionò due di più.

In campo maschile il ventennio compreso tra gli anni ’70 e gli ’80 fu “la crème de la crème” della storia del tennis: Jimmy Connors, Arthur Ashe, Bjorn Borg, John McEnroe, Boris Becker. Basterebbero questi nomi, senza aggiungere altro. Il primo, americano, anch’egli come la sua compagna di trionfi nel ’74 Chris Evert, capace di un potentissimo rovescio a due mani e in aggiunta di una risposta fulminante anche sulla prima palla, oltre che di un servizio molto efficace. Jimmy vinse due tornei nel 1974 e nel 1982, poco prima di Arthur Ashe, il primo nero ad imporsi nel verde torneo britannico battendo in finale proprio il connazionale Connors. Al dominio americano che pareva aprirsi in quegli anni rispose in maniera violentissima Bjorn Borg, capace di aggiudicarsi cinque tornei consecutivi dal 1976 al 1980, grazie al suo favoloso gioco da fondo campo, e di arrendersi l’anno successivo solo in finale a John McEnroe. 41 match consecutivi vinti sull’erba di Wimbledon per l’“Orso” svedese, un record che ancora gli appartiene e che può essere insidiato solamente dallo svizzero Roger Federer qualora vincesse il torneo del 2008.

John McEnroe merita un capitolo a parte, genio e sregolatezza, indisciplina e talento, tutti concentrati nel braccio sinistro di questo campione. “The Genius” veniva chiamato, soprannome azzeccatissimo se si considerano le sue caratteristiche. Non aveva un fisico eccezionale, non si allenava tanto se non partecipando a dei tornei di doppio e il suo servizio non era da bombardiere. Era però imprevedibile, ogni palla aveva un effetto diverso dalla precedente, il rovescio giocato ad una mano gli permetteva di sorprendere molto spesso l’avversario, che John tendeva a sbeffeggiare facendo anche un saltino per aumentare l’anticipo del colpo. Capace di splendide discese a rete guidate da una coordinazione e da una gamma di volée meravigliose, accompagnate da un gioco di piedi tuttora ineguagliabile. Quello che si ricorderà di SuperMac a Wimbledon saranno soprattutto le due finali, una vinta e una persa, contro la sua antitesi Bjorn Borg. Glaciale, imperturbabile e tranquillo l’uno quanto emotivo, indisciplinato ed esaltato l’altro, tanto da passare alla storia, tra le altre cose, anche per le sue folkloristiche e clamorose proteste nei confronti degli arbitri. “You can not be serious!”. “Non puoi dire sul serio!” è il celebre e inconfondibile grido che John indirizzava ai malcapitati arbitri. John McEnroe vincerà l’ultimo Wimbledon, il terzo, nel 1984 battendo in finale Jimmy Connors riuscendo ad arrivare in semifinale altre due volte prima del ritiro nel 1992.

Boris Becker era un ragazzino nel 1985, diciassette anni e sette mesi, quando per la prima volta sollevò al cielo il trofeo dei campionati, il più giovane di sempre. Con Boris si cambia epoca, le racchette non sono più in legno ma in materiali sempre più evoluti e leggeri, Becker inaugura quello che diventerà il tennis dei giorni d’oggi, caratterizzato da due elementi su tutti: velocità e potenza. Con queste armi il giovane tedesco si afferma a sorpresa nel torneo del 1985 per poi confermarsi l’anno successivo, e si prodiga in avvincenti sfide contro i mostri sacri McEnroe e Lendl prima e soprattutto poi contro Stefan Edberg. A Wimbledon vincerà una terza volta nel 1989, raggiungendo la finale in altre tre occasioni senza però battere Edberg, il connazionale Stich e il grande Pete Sampras.

Siamo praticamente ai giorni nostri: Andre Agassi batte in finale Goran Ivanisevic in cinque set nel 1992. Dopo di lui, per circa otto anni, ci fu solo Sampras, con l’eccezione olandese del bombardiere Krajicek nel 1996, che sbaragliò la concorrenza grazie alla potenza micidiale del servizio. Pete fu soprannominato “The King”, il Re. Si trovava particolarmente a suo agio sull’erba verde londinese e lo dimostrò sconfiggendo sei diversi contendenti in sette finali. L’unico ad impensierirlo più di una volta fu il croato Goran Ivanisevic, che vincerà Wimbledon nel 2001 partendo sorprendentemente con una wild card, ossia un ripescaggio, e con una posizione nella classifica mondiale oltre il numero cento a causa di quasi un anno di inattività. Resterà l’unica wild card nella storia a vincere il torneo. Dopo un Re ne arriva però subito un altro, è Roger Federer, svizzero, elegante, potente, capace di colpi sopraffini e tanto belli da sembrare facili. La realtà è che grazie al suo tennis Roger riesce ad affermarsi in cinque tornei consecutivi fino al 2007, striscia di vittorie ancora aperta che potrebbe prolungarsi chissà per quante edizioni ancora.

In campo femminile gli anni ’90 sono appannaggio di varie atlete, ma dal 2000, a un oltre un secolo di distanza dai primi incontri fratricidi tra Maud e Louise Watson, sono altre due sorelle a spartirsi sei edizioni delle ultime otto disputate. Le due veneri nere Venus e Serena Williams, vincitrici rispettivamente per due e quattro volte. Allenate dal padre, impongono un tennis basato soprattutto sulla fisicità e sulla potenza dei colpi, sbaragliando la concorrenza e affrontandosi in finale per due volte (nel 2002 e nel 2003) con lo stesso esito in entrambi i casi, vale a dire vittoria della sorella minore Serena. Al termine della finale del 2002 fu Honor Godfrey in persona, la direttrice del museo del tennis, a chiedere a Serena di donare la sua divisa usata nella finale per esporla a fianco a quella di Maud Watson.

Wimbledon è dunque oggi il torneo più antico dello slam, nonché il più carico di tradizione e storia. I tempi però cambiano e le esigenze televisive e degli sponsor guadagnano sempre più importanza nell’apparentemente invulnerabile conservatorismo del torneo. Per cui nel 1997 viene inaugurato il nuovo campo centrale capace di ospitare fino a 18.000 spettatori e quindi di aumentare gli introiti di quasi il doppio rispetto al passato. Dal 2007 una novità importante è la raggiunta parità di premi tra Gentlemen e Mrs, dovuta anche all’interesse che oggi suscitano nel pubblico la nuova generazione di modelle-tenniste, come Maria Sharapova e Ana Ivanovic, che sono in grado di far ruotare attorno al tennis, sfruttando anche la loro mondanità e il loro fascino, un giro di denaro pari se non maggiore a quello dei colleghi maschi. Segno dei tempi che cambiano e che si evolvono sempre più rapidamente, ma se si vuole respirare al giorno d’oggi l’invitante aroma del tennis che fu, il luogo più indicato si trova sempre li, in quell’anacronistico mondo che per due settimane l’anno rivive in un periferico quartiere di Londra, tra la fragranza dei tulipani, il sapore delle fragole e dello champagne l’immancabile odore acre dell’erba bagnata.



 

 

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